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CIVILE

Consumatore e “persona”

  Civile 
 lunedì, 4 luglio 2016

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ALESSANDRA GATTO

Avvocato

 
 

 

SOMMARIO: 1. Il consumatore come “persona” portatrice di diritti fondamentali. - 2. Il mercato come formazione sociale in cui il consumatore non solo compie operazioni economiche ma svolge anche la sua personalità. - 3. I diritti fondamentali nel Codice del consumo. - 4. La persona umana nel Codice del consumo. - 5. La persona umana nel Codice del turismo. - 6. Il consumatore non persona fisica e il principio di uguaglianza. - 7. Conclusioni.


    1. Il consumatore come “persona” portatrice di diritti fondamentali
    I principi della solidarietà sociale e della dignità della persona, che permeano l’intero ordine costituzionale, connotando la forma di Stato in termini di democrazia sostanziale, trovano uno specifico ambito di applicazione anche nelle disposizioni riguardanti le libertà economiche, in quanto il diritto di iniziativa economica del professionista viene limitato, a favore del consumatore, attraverso clausole aperte quali l’“utilità sociale” e la “sicurezza, la libertà la dignità umana” . La contrattazione sul mercato, accanto ad interessi pubblici aventi una forte caratterizzazione collettiva (come ad esempio il rispetto dell’ambiente e della concorrenza) mette in gioco anche il rispetto di diritti fondamentali del singolo, della persona umana (in primis il diritto alla salute, ma si pensi anche al diritto alla privacy e alla riservatezza , sempre più messi a repentaglio da contrattazioni a distanza che richiedono necessariamente la raccolta di dati sensibili del consumatore).
      La Costituzione non definisce l’utilità sociale; anche la Corte costituzionale evita di farlo, ma si limita volta per volta ad individuare cosa vi rientri e cosa no, affermando che un certo interesse costituzionalmente riconosciuto ha una valenza di utilità sociale e come tale deve essere adeguatamente tutelato. E i confini del concetto di utilità sociale sembrano ai nostri giorni diventati così ampi ed evanescenti che si corre concretamente il rischio di tendere ad identificare il concetto di utilità sociale con quello generico di interesse pubblico, della collettività, degli altri, siano essi singoli, una collettività più o meno grande o un gruppo di persone portatrici di un interesse omogeneo: sono gli interessi di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, vengono colpiti dall’iniziativa economica altrui: ad es. i lavoratori, i consumatori, i cittadini che abitano vicino ad un’industria e ne respirano i fumi velenosi. Potrebbe allora ben affermarsi che così facendo tale espressione perde probabilmente un reale contenuto precettivo. Ma forse questo rischio vale la pena di essere corso, perché riterrei che con il riferimento all’utilità sociale nella Costituzione si è proprio voluto attribuire dignità costituzionale al concetto – sicuramente generico e vago ma non per questo non importante - degli interessi della collettività che, volente o nolente, si trovi ad interagire con colui che esercita un’attività economica .
       Ciò che in ogni caso deve sottolinearsi è che la progressiva eclissi, alla fine del secolo scorso, della disposizione base della costituzione economica italiana, l’art. 41 Cost., dietro il diritto comunitario - tanto che Sabino Cassese  ha contrapposto una vecchia costituzione economica che si sarebbe sviluppata a partire dall’unificazione ad una nuova costituzione economica che ha il suo caposaldo nella prospettiva ultranazionale - ha avuto, a partire dall’inizio del ventunesimo secolo, una brusca inversione di marcia: e infatti non può non notarsi di recente un progressivo riscatto dell’art. 41 Cost. .  
     Tornando all’utilità sociale, essa è un concetto che racchiude altresì la tutela di “diritti sociali”, “ritenuti di fondamentale importanza sul piano della dignità umana”, quali quello all’abitazione (cfr. in questo senso la citata giurisprudenza costituzionale in tema di condono edilizio), il diritto al lavoro (cfr. sentenze 200 del 2012 e  n. 270 del 2010, 50 del 2005: quest’ultima parla di “diritto sociale al lavoro”), il diritto allo studio (sentenza n. 219 del 2002). Si tratta a ben vedere più che di diritti soggettivi, ossia della singola persona, di interessi della collettività considerata nel suo insieme e che per essere concretamente realizzati hanno bisogno di molto denaro, che molto spesso però lo Stato non ha o non si può permettere (sentenza n. 223 del 2012). La prospettiva (anche) collettiva dei diritti fondamentali ben si attaglia ad una concezione moderna della tutela dei consumatori, ove sempre più spesso viene in rilievo non tanto il danno al singolo consumatore quanto la dimensione collettiva dell’illecito perpetrato ai danni di una collettività dei consumatori, ai quali è attribuito il rimedio, parimenti collettivo, della class action (cfr. art. 140-bis del codice del consumo).
     Venendo poi al rapporto tra le varie fonti che riconoscono i diritti fondamentali, sembra che ormai sempre meno senso abbia impostare il problema in termini di rapporto di gerarchia tra le fonti: appare infatti che la distinzione tra diritti costituzionalmente riconosciuti, diritti fondamentali, diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quindi facenti parte dell’Unione europea e quelli garantiti dalla CEDU sia ormai di fatto se non superata comunque sempre meno decisiva, in virtù di una giurisprudenza costituzionale che in presenza di una pluralità di interessi costituzionalmente riconosciuti tende a ragionare in termini di necessario bilanciamento tra gli interessi stessi, pur nella convinzione che esista un nucleo essenziale o irrinunciabile dei diritti fondamentali insuscettibile di essere compresso e nella consapevolezza che esiste una reciproca integrazione fra le fonti, fra le quali tende a prevalere quella che offre una maggiore tutela del diritto fondamentale. Può tuttavia, riassuntivamente affermarsi che allo stato, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, nel nostro ordinamento esiste  una gerarchia delle fonti per cui al primo posto troviamo i diritti fondamentali (sentenza n. 170 del 1984), al secondo le norme dell’Unione europea, al terzo le norme della Costituzione che non rivestono il rango di di diritti fondamentali, al quarto le norme della CEDU (sentenze nn. 348 e 349 del 2007) e al quinto gli atti aventi forza di legge (leggi, decreti legge, decreti legislativi).
     La (possibile) prevalenza (o perlomeno il necessario bilanciamento) dei diritti fondamentali sulla disciplina dell’Unione europea è affermata nella sentenza Alitalia (270 del 2010, in cui la Corte costituzionale dichiara infondata la questione di costituzionalità della norma che, consentendo la fusione tra Alitalia e Air One, deroga alla disciplina antitrust delle concentrazioni tra imprese): la dovuta coerenza con l’ordinamento comunitario, in particolare con il principio che «il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata» (Protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza, allegato al Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che conferma l’art. 3, lett. g, del Trattato CE), comporta il carattere derogatorio e per ciò stesso eccezionale di questa regolazione. In altri termini, occorre che siffatto intervento del legislatore costituisca la sola misura in grado di garantire la tutela di quegli interessi.
      Occorre sottolineare che i diritti fondamentali sono sì suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri (tra i quali sicuramente rientrano quelli espressi dal mercato) – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile (cfr. la sentenza n. 119 del 2012 , secondo cui è compito della Corte costituzionale vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, per cui le esigenze di bilancio possono comprimere il diritto fondamentale alla previdenza di cui all’art. 38, il diritto alla salute di cui all’art. 32, ma non il loro nucleo essenziale), lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali. Seguendo questa impostazione, può ad esempio comprendersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in tema di diritto alla salute: esso, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni (interesse pretensivo), “non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone”, per altro verso però “le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (interesse oppositivo: Corte Cost., sentenze nn. 432 del 2005, 252 del 2001) .
      Il diritto comunitario ha indubbiamente condizionato l’interprete nella lettura dell’art. 41 Cost., dapprima ritenendosi che la centralità del mercato e della concorrenza nel diritto europeo dovessero far pendere la bilancia a favore del comma 1 dell’art. 41, per poi “riscoprire” l’utilità sociale alla luce del maggior risalto attribuito di recente ai diritti fondamentali (si pensi solo al recepimento della Carta di Nizza ad opera dell’art. 6 TUE).  Quanto all’individuazione dei diritti fondamentali della persona, essi sembrano tutti emanazione del generalissimo diritto alla dignità della persona umana, oggetto dell’art. 1 della carta di Nizza. In effetti, secondo le sentenze della Corte costituzionale n. 92 del 2002 e n. 293 del 2000, la tutela della dignità della persona umana non solo è un valore costituzionale fondamentale, ma altresì anima l’art. 2 Cost. e permea di sé l’intero diritto positivo. Ha poi affermato la sentenza n. 219 del 2008 che «il fine ultimo dell’organizzazione sociale» è «lo sviluppo di ogni persona umana», il cui valore si pone al centro dell'ordinamento costituzionale: compete al legislatore approntare il più efficace dei sistemi di tutela, affinché esso non venga compromesso. La Costituzione italiana, approvata il 22 dicembre 1947, fa esplicito riferimento ad esso negli articoli 3, 36 e 41, e lo richiama in particolare nell’art. 32. Un anno dopo, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 1 integra in modo significativo l’antica formula settecentesca della Dichiarazione francese (“gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali nei diritti”) affermando che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
    Secondo la Consulta, quando si tratta di effettuare un bilanciamento tra vari interessi alla luce del principio di ragionevolezza, questo deve consistere in un “ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, (cfr. le sentenze nn. 172 del 2012, 245 del 2011; “la prima della serie” è invece la sentenza 139 del 1982). E’ significativo però che è solo dal 2010 che la Corte costituzionale ha introdotto, nelle sue motivazioni riguardanti la violazioni da parte di una legge del principio di ragionevolezza, l’inciso “specie quando limitano un diritto fondamentale della persona”. La Corte non approfondisce ulteriormente il concetto, ma sembra evidentemente di capire che tutti i diritti possono essere compressi, ma quelli che meno possono tollerare una deminutio sono i diritti fondamentali quale ad esempio il diritto alla libertà personale.
     Deve ritenersi che in questa accentuata sensibilità della Consulta verso i diritti fondamentali abbia contribuito l’equiparazione al diritto comunitario da parte del Trattato di Lisbona del 1° dicembre 2009 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata a Nizza, in precedenza non formalmente entrata in vigore, ma che aveva assunto, sin dalla sua proclamazione, una valenza declaratoria e simbolica quale momento rilevante nel cammino verso un’Europa dei diritti (cfr. art. 6, co. 1, TUE).
     Altro fattore significativo di sviluppo di una maggiore attenzione per i diritti fondamentali è l’introduzione, nel primo comma dell’art. 117 Cost., del limite, anche per il legislatore statale, del rispetto degli obblighi internazionali, così che si è potuto sviluppare – a partire dalle già citate fondamentali sentenze nn. 348 e 349 del 2007 – un orientamento della giurisprudenza costituzionale volto a subordinare non solo la validità delle norme interne al rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche l’interpretazione di questa agli orientamenti della Corte di Strasburgo. In questo quadro si inserisce il Trattato di Lisbona del dicembre 2009, che ha ampliato la prospettiva della protezione dei diritti fondamentali: con l’attribuire significato valoriale fondante al rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, del pluralismo, della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia e della solidarietà; con l’impegnare le istituzioni comunitarie a promuovere questo insieme di valori nell’adozione dei loro atti e nella formulazione delle politiche europee; con l’adesione da parte dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (cfr. art. 6, co. 2, TUE).
      Inoltre, pur rendendosi sempre più disponibile ad accogliere fonti di diritto di provenienza non autoctona, la Corte costituzionale non ha ad oggi ancora mai smentito l’affermazione contenuta nella sentenza n. 170 del 1984 (sempre confermata: cfr. ad esempio la sentenza n. 288 del 2010), con la quale ha dato sì ingresso al diritto comunitario in posizione di preminenza rispetto al diritto interno, ma ha anche ritenuto che “ciò non implicava che l’intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno fosse sottratto alla propria competenza, potendo il diritto comunitario essere soggetto al suo sindacato in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili delle persona umana”. Si tratta della cosiddetta teoria dei controlimiti, che pone al vertice della gerarchia delle fonti i diritti fondamentali, collocati su un gradino ancora più alto rispetto al diritto comunitario, che pure a sua volta si pone su un piano superiore rispetto alle norme avente rango costituzionale.
     Negli ultimi anni infine si è anche assistito ad una sempre maggiore rivalutazione del principio di correttezza nel mercato, sia da parte della giurisprudenza che della dottrina che della legislazione, tanto che si è giunti ad affermare che il principio di correttezza e buona fede costituisce un’applicazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 Cost. .


     2. Il mercato come formazione sociale in cui il consumatore non solo compie operazioni economiche ma svolge anche la sua personalità.
     Funzione essenziale del mercato è la crescita della ricchezza attraverso una rapida circolazione dei beni, in ragione del fatto che il bene scambiato riveste un’utilità maggiore per chi lo compra rispetto a chi lo vende. Ma attraverso il mercato viene spesso direttamente permessa la realizzazione e il conseguimento di diritti fondamentali (ad esempio attraverso il mercato televisivo il diritto ad essere informati; attraverso la vendita di beni alimentari il diritto alla salute).
     La nascita del mercato viene tradizionalmente indicato come un passaggio fondamentale della storia dell’uomo, il punto di passaggio dal medio evo all’età moderna e la nascita della borghesia; è il momento in cui gli abitanti del feudo lasciano i propri feudatari per incontrarsi e scambiare i propri beni prodotti in eccedenza: vengono fondate nuove città ed inizia a circolare il denaro . In economia si intende per mercato il luogo deputato allo svolgimento degli scambi; secondo un'altra definizione il mercato è il punto di incontro della domanda e dell'offerta , cioè degli acquirenti e dei venditori . 
       Ma il mercato è più di un luogo di scambio, anche e soprattutto perché vi sono delle persone umane che possono recarvisi, incontrarsi, scambiarsi delle idee, informarsi, più o meno bene, e non comprare o vendere nulla. In effetti, secondo il giurista inglese Goode, se il mercato si basasse solo su una serie di contratti bilaterali non collegati tra loro rimarrebbe un bambino gracile. Ciò che gli ha dato forza è stato il mercato organizzato, il luogo fisico di incontro – e in tempi più recenti la rete di comunicazione elettronica – con le sue regole associative, le sue occasioni per far conoscere i venditori agli acquirenti ed i finanziatori a chi prende a prestito il denaro, il clima di fiducia o meno che vi si respira al suo interno . Scrive poi Guido Rossi che il mercato è sede naturale di un vastissimo bargaining, cioè di una contrattazione continua, che va oltre la contrattazione giuridica e le sue regole e che è fra l’altro costituita da una serie di pratiche informali, dove c’è molto disordine e i contratti e la loro vincolatività sono valutati solamente per la loro efficacia ai fini del raggiungimento di un determinato scopo economico . Aggiunge Oppo che è il mercato che in qualche modo deve comporre domanda e offerta, e mercato vuol dire gli uomini, nei loro bisogni e sentimenti .
     In ogni caso il mercato appare oggi sempre più anche un luogo vivo, dove non solo avvengono le contrattazioni ma in cui delle persone fisiche si incontrano e può dunque ragionevolmente considerarsi una formazione sociale ove si svolge la personalità dell’uomo riconosciuta e tutelata dall’art. 2 Cost. .
     Il principio personalistico, accolto nella Costituzione, soprattutto negli artt. 2 e 3, 2° co., muove dall’idea di uomo situato, che sviluppa cioè la sua personalità aderendo ad una serie progressiva di formazioni sociali, culminanti nella società politica (storicamente incarnata dallo Stato), avente per fine, diretto o sussidiario, la generalità dei bisogni umani (il bene comune). Tradizionalmente, anche i giuristi maggiormente legati a tale impostazione non inseriscono il mercato tra le formazioni sociali, in cui tutt’al più rientra l’impresa, in quanto si vede nel mercato non un luogo di socialità nel senso comunitario del termine, bensì un luogo di conflittualità, di concorrenza mossa da finalità di tipo individualistico. Il mercato era pertanto ridotto, in tali teorie, ad arena degli imprenditori. Fatti recenti dimostrano però come il funzionamento del mercato dipenda non dai soli meccanismi di produzione e di profitto, bensì da un clima relazionale di fiducia, che rivela la pluralità dei soggetti presenti nel mercato e la loro ineludibile interdipendenza .
     E la considerazione del consumatore innanzitutto come persona umana e non solo come un automa caratterizzato esclusivamente da scarsità di esperienza e di informazioni emerge nel codice del Consumo anche dall’analisi della ratio di alcune delle discipline di tutela: si pensi ad esempio al diritto di recesso, che più che tutelare l’inesperienza sembra piuttosto diretto ad impedire scelte di impulso dettate dall’emotività.


     3. I diritti fondamentali nel Codice del consumo.
     Secondo l’art. 2, 1° co., cod. cons. (rubricato “Diritti dei consumatori”) “sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni”. Tale norma riproduce quasi integralmente l’art. 1 della l. 30 luglio 1998, n. 281, una delle tanti leggi in materia di consumatori che è stata abrogata dall’art. 146 del codice del consumo (in particolare dalla lettera f di tale articolo), codice che infatti si propone di raccogliere in una sorta di testo unico le norme in tema di consumatore. Peraltro, poiché l’art. 2 cod. cons. stabilisce che ai consumatori e agli utenti siano riconosciuti come fondamentali i diritti “alla correttezza, alla trasparenza e all’equità nei rapporti contrattuali”, l’ambito di applicazione di questa nuova norma, in quanto comprensivo di ogni rapporto contrattuale indipendentemente dal suo oggetto, sembrerebbe più ampio dell’art. 1 della l. n. 281 del 1998, che circoscriveva gli stessi diritti ai soli rapporti contrattuali concernenti beni e servizi. L’innovazione, perciò, ha una portata più formale che sostanziale, essendo ben difficile che nella prassi commerciale un rapporto contrattuale tra professionista e consumatore possa avere un oggetto diverso rispetto a beni o servizi.
     Prosegue il 2° comma affermando che: “Ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti: alla tutela della salute (cfr. art. 32 Cost.); alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi (cfr. art. 102-127 cod. cons.); ad una adeguata informazione (cfr. art. 5-17 cod. cons.) e ad una corretta pubblicità (cfr. art. 28-32 cod. cons.); all’educazione al consumo (cfr. art. 4 cod. cons.); all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà (cfr. artt. 18 – 27-quater cod. cons.); alla correttezza, alla trasparenza e all’equità nei rapporti contrattuali (cfr. artt. 33-100; 128-135 del codice del consumo); alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti (cfr. artt. 2 e 18 Cost. e 136-141 cod. cons.); all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza (cfr. art. 101 cod. cons.).
      Secondo una dottrina il 2° comma dell’art. 2 cod. cons. individuerebbe una categoria di diritti dei consumatori, detti “fondamentali”, che si porrebbe in rapporto di specialità rispetto al più ampio insieme di diritti riconosciuti dal 1° comma . Tale tesi tuttavia non sembra confortata da un dato testuale, perché il 1° comma non reca un elenco di diritti o interessi dei consumatori: in altri termini non è dato individuare quali siano i diritti dei consumatori non “fondamentali”. Peraltro, non viene neppure detto che i diritti fondamentali godrebbero di una tutela maggiore rispetto ai diritti non “fondamentali” di cui al 1° comma; né naturalmente è possibile individuare un posizionamento più elevato del 2° comma nella gerarchia delle fonti rispetto ad altre leggi di rango primario che permetta di considerare i diritti fondamentali del consumatore “inviolabili” da altre norme di rango primario.
     La formulazione dell’art. 2 del codice del consumo appare enfatica, dal momento che tale espressione non vale evidentemente ad attribuire alla posizione del consumatore nei rapporti contrattuali col professionista un rilievo costituzionale, potendo tale rilevanza, e la conseguente tutela che ne deriva, discendere solo da una legge della corrispondente tipologia .
     Occorre cioè prestare attenzione a non confondere tra “diritti fondamentali dei consumatori” di cui all’art. 2 del codice del consumo e “diritti inviolabili dell’uomo” di cui all’art. 2 della Costituzione, che, al contrario dei primi, non solo sono riconosciuti dalla Costituzione, ma, che secondo la Corte costituzionale si pongono nella gerarchia delle fonti, come illustrato in precedenza, su un piano superiore anche rispetto al diritto comunitario.
     Sembra invece che l’elenco dei diritti fondamentali del consumatore di cui al 2° comma dell’art. 2 ben possa essere modificato da una semplice legge ordinaria. In effetti, la norma non fa discendere alcuna conseguenza dalla qualifica come “fondamentale” di un certo diritto. La funzione della norma sembra dunque innanzitutto programmatica, simbolica, volta ad attribuire particolare solennità a questi diritti  secondo cui l’espressione “diritti fondamentali” deve intendersi in modo meno aulico, come diritti essenziali, diritti che non possono essere violati senza adeguata sanzione). Peraltro, il fatto che essi non siano stati innalzati nella gerarchia delle fonti non significa che la norma non possa comunque avere un ruolo di monito per il legislatore a non incidere tali diritti, o meglio a valutare con particolare scrupolo le future norme che dovessero incidere sui diritti fondamentali, richiamando l’attenzione sulla necessità di una ponderata valutazione di interessi nell’eventualità se ne volesse sacrificare o limitare uno. L’art. 2 cod. cons. deve inoltre essere letto insieme all’art. 143 dello stesso codice: tale disposizione, che costituisce norma di chiusura del sistema ed è collocata tra le “Disposizioni finali” del codice, stabilisce che i diritti che il codice attribuisce al consumatore sono irrinunciabili e che è nulla ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice. L’art. 143 eleva dunque al rango di principi imperativi quelli previsti a tutela del consumatore.
     Quanto detto non impedisce inoltre di notare che vi sono alcune chiare sovrapposizioni tra diritti inviolabili della persona e diritti fondamentali dei consumatori: si pensi al diritto alla salute e al diritto di associarsi .
     Ed è probabilmente questa suggestione il punto di partenza per Alpa quando afferma che la legge 30 luglio 1998, n. 281, successivamente confluita senza modifiche di rilievo nel codice del consumo, qualificherebbe espressamente la tutela del consumatore come protezione di diritti fondamentali della persona; di qui l’impossibilità di definire il consumatore come categoria “minimale e negativa” . In realtà però un’affermazione del genere non è contenuta né nella legge n. 281 del 1998, ora abrogata, né nel codice del consumo, ove è confluita sotto l’aspetto dell’art. 2 di tale codice.
     Non vi è pertanto alcuna equiparazione dei diritti del consumatore a quelli della persona ma solo il riconoscimento come “fondamentali” di alcuni diritti: da tale riconoscimento peraltro, come si è detto, non discende alcuna conseguenza.
     Tuttavia, anche se alla luce di quanto esposto non può tracciarsi un’esatta corrispondenza tra tutela del consumatore e protezione dei diritti fondamentali della persona, non per questo deve essere respinta l’affermazione di Alpa secondo cui il consumatore non deve essere considerato come categoria “minimale e negativa” . Il consumatore è infatti destinatario nel codice del consumo di alcuni diritti riguardanti soprattutto il suo agire economico e che quindi potremmo definire “economici”, ma ciò non esclude che egli al contempo era e rimane persona, e come tale è destinatario di diritti fondamentali. L’essere consumatore infatti non fa di una persona esclusivamente un homo economicus privo di altri diritti, ma lo fornisce soltanto di alcuni diritti in più – senza sottrargliene altri – tra l’altro spesso funzionali ad una migliore tutela dei diritti fondamentali: ad esempio il diritto di informarsi e di essere informato è funzionale al diritto alla salute.
     Sempre secondo Alpa l’evoluzione del diritto dei consumatori verso un diritto dei «cittadini» incontrerebbe difficoltà e la nozione restrittiva di consumatore accolta in sede comunitaria accentuerebbe queste difficoltà . Riterrei invece vero il contrario: è proprio la limitazione della definizione di consumatore alle sole persone fisiche e l’esclusione rigorosa da tale nozione di un fine professionale o imprenditoriale che, per così dire, nobilita tale nozione, elevando il consumatore a persona, e attribuendo ai diritti economici, se non lo stesso valore rispetto ad altri, per lo meno una dignità tale che ne autorizza il bilanciamento con altri. Del resto è troppa la commistione tra diritti e sarebbe dunque pura retorica ritenere non bilanciabili alcuni diritti (quelli fondamentali) con quelli economici (salva naturalmente l’intangibilità del nucleo essenziale dei primi): non può infatti ad esempio distinguersi tra informazione diretta a tutelare la salute (ingredienti del prodotto) e informazione relativa ai prezzi, in quanto l’etichetta è unitaria e l’ingrediente migliore determina da un lato meno problemi per la salute ma dall’altro anche un prezzo più elevato. 
     Il 1° comma dell’art. 2 cod. cons., oltre a recare delle enunciazioni di principio, equipara, assicurando un medesimo standard di tutela, le posizioni giuridiche soggettive dei consumatori, a prescindere dal fatto che esse siano qualificate come diritti soggettivi o interessi legittimi o che abbiano natura individuale o collettiva. Lo scopo è soprattutto quello, nell’ottica di realizzare un’uniformità tra le legislazioni dei Paesi appartenenti all’Unione europea, di eliminare la distinzione, propria dell’ordinamento italiano, tra diritto soggettivo e interesse legittimo.
     Non deve però dimenticarsi la matrice prettamente economica del contesto in cui nasce il consumatore, che è quello della comunità economica europea e che impedisce una completa assimilazione tra persona da un lato e consumatore dall’altro. L’interesse della nascente Comunità economica europea si concentra soprattutto sugli interessi economici dei cittadini dell’Unione, sulla tutela della concorrenza (e dunque sull’impedimento di prezzi abusivamente alti a seguito dell’abuso della propria posizione dominante sul mercato), della libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali .
     Peraltro, ha sottolineato la Corte costituzionale (sentenza n. 94 del 2013) che un assetto concorrenziale e competitivo del mercato (e quindi la garanzia di libertà di iniziativa economica di cui al comma 1 dell’art. 41 Cost.) determina effetti positivi anche per i consumatori, in termini di qualità dei prodotti e di riduzione dei prezzi. Solo negli ultimi anni, con il passaggio dapprima alla Comunità europea e poi all’Unione europea, e con l’ampliamento dei compiti di quest’ultima, si è acquisita pienamente la consapevolezza che una effettiva Unione si può realizzare solo attraverso una completa integrazione europea in tutti i campi, mediante una tutela effettiva dei diritti fondamentali, e ciò anche al fine di realizzare una reale integrazione economica.
      Non è un caso del resto che, con riferimento a quei diritti del consumatore che sono diritti inviolabili dell’uomo, la definizione di consumatore sia più ampia, non limitandosi più a coloro che agiscono spinti da finalità non professionali, ma finendo per coincidere con tutte le persone umane, le stesse che sono destinatari dei diritti inviolabili (cfr. art. 5 cod. consumo).
     Si noti poi che nell’art. 169 (ex art. 153) del Trattato del 25.3.1957 sul funzionamento dell’Unione europea è contenuto un elenco di settori che, pur non essendo definiti fondamentali, per il solo fatto di essere contenuti all’interno del Trattato istitutivo dell’Unione europea hanno un’importanza superiore nella gerarchia delle fonti rispetto ai diritti fondamentali contenuti nell’art. 2 cod. cons.: al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, l'Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all'informazione, all'educazione e all'organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi. Confrontando tale elencazione con quella dell’art. 2 del codice del consumo, possono ravvisarsi notevoli somiglianze e molte coincidenze: l’unico diritto fondamentale dell’art. 2 del codice del consumo che sembra non avere una corrispondenza con l’art. 169 del Trattato è infatti solo quello relativo al diritto “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”.
     Vi sono dunque diritti fondamentali dei consumatori che sono anche diritti inviolabili dell’uomo; altri che trovano una loro corrispondenza nel Trattato, altri infine che non hanno un riferimento né nella Costituzione né nel Trattato.
      Comunque si vogliano collocare i diritti economici nella gerarchia delle fonti, un dato inequivocabile che sembra emerso è che nella tutela del mercato interagiscono interessi i più disparati e che la tutela del mercato é funzionale alla tutela dei diritti fondamentali e spesso si confonde con essi. La tutela del mercato è tutela dell’homo economicus, ma non si esaurisce in essa, è la tutela dell’insieme delle attività economiche che possono essere svolte dalle persone fisiche e giuridiche e che possono avere anche conseguenze non economiche (si pensi appunto all’acquisto di generi alimentari pericolosi per la salute dell’uomo). 


     4. La persona umana nel Codice del consumo.
    Si è visto che il concetto giuridico di consumatore è stato introdotto in Italia a partire dagli anni novanta con il recepimento di direttive dell’Unione europea: il codice civile del 1942 infatti non menzionava la parola consumatore. Le varie leggi di attuazione delle direttive europee sono state poi raccolte in una sorta di testo unico, il codice del consumo (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).
     Non esiste tuttavia un’unica nozione di consumatore all’interno del codice del consumo: accanto ad una definizione più restrittiva ve ne sono infatti altre più ampie, che si estendono fino a comprendere tutte le persone fisiche. Questo impone di riflettere sulla circostanza che la nozione di consumatore non ha necessariamente una accezione di minor rilievo rispetto ai diritti riconosciuti alla persona umana. Al consumatore infatti vengono riconosciuti, accanto a diritti strettamente economici, anche diritti che possono chiaramente essere definiti come “fondamentali”, quali ad esempio quello alla salute.
     E in effetti, anche in quella che è la principale e più restrittiva definizione di consumatore, egli è tuttavia una “persona”: secondo l’art. 3, 1° co., lett. a, è infatti consumatore “la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Tale norma recepisce l’art. 2 della direttiva del 5 aprile 1993, n. 93/13/CEE, che, in maniera del tutto analoga, definisce consumatore, “qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale”, ed è a questa nozione che fanno riferimento le altre disposizioni comunitarie che hanno pure per oggetto il consumatore. Parimenti del tutto simile è la definizione della Convenzione di Bruxelles del 27.9.1968, secondo la quale è consumatore la persona che concluda un contratto per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale.
     La definizione di consumatore di cui all’art. 3 del codice del consumo non è quindi l’unica offerta da tale codice, tanto che in essa è contenuta la locuzione “ove non diversamente previsto”. Quando infatti vengono in rilievo interessi di rilievo non solo costituzionale ma costituenti addirittura diritti inviolabili della persona quali il diritto alla salute o quando l’asimmetria informativa non potrebbe essere superata neppure dall’imprenditore più attento, è considerato consumatore semplicemente colui che concluda un contratto con il professionista, a prescindere da qualsiasi accertamento relativo al fine per il quale il soggetto compie l’atto. In queste ipotesi infatti la legge continua a chiamare tale soggetto “consumatore”, non intendendo però colui che esercita la propria attività per finalità estranee all’attività imprenditoriale, ma facendo semplicemente riferimento al soggetto che “consuma”, utilizza il bene, a prescindere dunque dalla eventuale destinazione di quest’ultimo all'esercizio di un’impresa.
     Così, in alcuni casi (ad. es. art. 5 cod. cons.) l’esigenza di offrire comunque una tutela all’altro contraente, risponde all'obiettivo di salvaguardare la salute e la sicurezza della collettività, circostanza che prevale su qualsiasi considerazione sul fine – professionale o meno – che ha spinto il soggetto a compiere l’atto. Qui appunto la ratio di tutela del contraente debole sta nel diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione, che, per la rilevanza del bene protetto, non può naturalmente che esigere una tutela nei confronti di tutti, nessuno escluso. Trattandosi di diritti soggettivi, la giurisdizione relative alle controversie riguardanti lamentati danni alla salute del consumatore apparterrà poi naturalmente al giudice ordinario (cfr. Corte Cost. n. 224 del 2004).
     Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario - e non del giudice amministrativo, ai sensi del  14° comma dell'art. 27 del Codice del consumo (come introdotto dal d.lgs. n. 146 del 2007, attuativo della direttiva 2005/29/CE) - la controversia promossa da un consumatore per conseguire, ex art. 2043 c.c., il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (sotto forma di danno alla salute o danno "esistenziale" dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo "stress" ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie), facendo valere come elemento costitutivo dell'illecito la pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie, sigarette del tipo "LIGHT"), recante sulla confezione un'espressione diretta a prospettarlo come meno nocivo .
      Sempre la Cassazione ha stabilito che la controversia promossa da un consumatore per conseguire il risarcimento del danno alla salute da alterazione psichica e stress conseguente alla asserita illegittima pubblicizzazione, durante una trasmissione televisiva concernente una partita di calcio, di una rivista sportiva, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non dell'Autorità Garante della concorrenza e del mercato, giacché essa non è un organo giurisdizionale, ma un'autorità amministrativa, sicché non è configurabile una questione di giurisdizione in relazione ai poteri inibitori ad essa riconosciuti dall'ordinamento .
     La salute del consumatore è un valore ritenuto fondamentale anche in altre controversie decise dalla Cassazione  e dalla Corte di Giustizia  e non concernenti la giurisdizione.
     L’art. 5 cod. cons., stabilisce che - ai soli fini dell’applicabilità degli articoli del codice del consumo che vanno dal 5 al 17, relativi alle informazioni relative sui prodotti posti in vendita -  per consumatore si intende “anche la persona fisica alla quale sono dirette le informazioni commerciali”, ovverosia qualunque persona fisica che ponga in essere un acquisto: ad esempio l’art. 6 prevede che sui prodotti posti in vendita debba essere chiaramente visibile l’indicazione della presenza di sostanze che possano arrecare danni all’uomo. 
     Ne consegue pertanto che la nozione di consumatore non è ontologicamente incompatibile con quella di persona, ma anzi contribuisce a qualificarla come soggetto portatore di diritti che, a seconda delle concrete attività in cui si esplica il suo agire, può essere considerato, anche nell’ambito di una stessa giornata, come consumatore, come professionista o come soggetto da tutelare a prescindere dal suo status. Si pensi ad esempio ad un imprenditore che acquisti un bene per la sua azienda (e verrà considerato professionista); che poi acquisti, sempre nell’esercizio della sua attività imprenditoriale, degli alimenti da destinare all’azienda della propria mensa (e allora verrà considerato consumatore quanto alle indicazioni relative alle qualità del prodotto, ma secondo una definizione che considera tale chiunque acquisti generi alimentari: cfr. art. 5 cod. cons.) e più tardi, messa per un momento da parte la sua attività (che si immagini sia di produzione di scarpe) vada ad acquistare un giocattolo per il figlio (e verrà considerato consumatore ai sensi dell’art. 3 cod. cons., ossia secondo la nozione più restrittiva di consumatore).
     Scrive Alpa che la dimensione costituzionale dei diritti dei consumatori ha ottenuto la sua definitiva consacrazione con l’approvazione della Carta di Nizza nel dicembre 2000 . Tra i valori fondanti della Carta trova spazio la dignità umana ma si precisa anche che lo sviluppo sostenibile dell’Europa è basato su di una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi: diritti fondamentali e diritti economici quindi sembrerebbero collocati sullo stesso piano. L’illustre studioso invece aggiunge che occorre distinguere tra le pretese dei consumatori che attengono ai diritti fondamentali e i c.d. “diritti economici”, la cui attribuzione si prefigge l’obiettivo di riequilibrare i rapporti di forza nella relazione tra il consumatore e il professionista: i diritti fondamentali sarebbero anteposti, nella gerarchia delle fonti, ai diritti di natura economica. Continua Alpa concludendo che nella graduatoria dei diritti e degli interessi si confermerebbe la distinzione tra diritti che attengono alla persona e interessi che attengono al consumatore.
    In tema di pubblicità ingannevole poi (artt. 21 ss. cod. cons.) vi sono delle pronunce della Cassazione che riconoscono la risarcibilità del danno alla salute conseguente ad una scelta del consumatore - dannosa per la sua salute - indotta da una pubblicità ingannevole . 
    

     5. La persona umana nel Codice del turismo.
     Deve rilevarsi che, come nel Codice del consumo, anche nel Codice del turismo (d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79) turista può essere solo una persona fisica (art. 2), e conseguentemente l’art. 47 riconosce solo a quest’ultimo il cosiddetto danno da vacanza rovinata, che consta anche di una componente non patrimoniale (“… il turista può chiedere anche un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta”). Dalla lettera della legge sembrerebbe tuttavia che non tutte le componenti del danno non patrimoniale da vacanza rovinata possano essere risarcite (ad esempio sicuramente irripetibile è un viaggio di nozze, ma non altrettanto certa è l’irripetibilità di un viaggio per una giovane coppia già sposata da qualche anno), ma la Cassazione interpreta la norma in senso estensivo, alla luce di tutta la legislazione di settore come interpretata dalla Corte di Giustizia , e riconosce senza distinguo al turista la risarcibilità del danno non patrimoniale, purché il danno superi una soglia minima di tollerabilità .
     In riferimento al diritto alla vacanza contrattualmente pattuita la necessità della gravità della lesione dell'interesse e il superamento di una soglia minima di tollerabilità, trova fondamento nella sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, che accompagna il contratto in ogni sua fase ; regola specificativa - nel contesto del rapporto obbligatorio tra soggetti determinati - degli inderogabili doveri di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., e la cui violazione può essere indice rivelatore dell'abuso del diritto, nella elaborazione teorica e giurisprudenziale .
     Nel 2012 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, 1° co. , del d.lgs. n. 111 del 1995, nella parte in cui ha fissato un limite all’obbligo risarcitorio per danni alla persona, attraverso il richiamo della Convenzione di Bruxelles (CCV), limite non prefigurato dalla legge delega. La disposizione censurata sarebbe stata infatti adottata in difformità dei principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 24 della legge delega 22.2.1994, n. 146, la quale, delegando l’attuazione della direttiva del Consiglio 90/314/CEE concernente i «Viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”», aveva indicato fra i principi e criteri direttivi quello secondo cui il legislatore delegato, nel disciplinare il contratto di pacchetto turistico, avrebbe dovuto tenere conto delle disposizioni più favorevoli contenute nella legge n. 1084 del 1977. In particolare l’art. 24 della legge delega aveva previsto che solo il risarcimento dei danni diversi dal danno alla persona, derivanti da inadempimento o cattiva esecuzione delle prestazioni, avrebbe potuto essere oggetto di limitazioni. La disposizione censurata, pertanto, ha violato gli artt. 76 e 77 Cost. per difetto di delega.
     L’art. 15 del d.lgs. n. 111 del 1995 si inserisce nel contesto di un’evoluzione normativa del modello contrattuale con finalità turistica. In particolare, con riferimento al contratto di viaggio e di intermediario di viaggio, la «Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio» (d’ora in poi CCV), firmata a Bruxelles il 23 aprile 1970, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 1084 del 1977, recava una disciplina complessa, nella quale ad interventi rivolti agli operatori turistici si affiancavano norme preordinate alla tutela del viaggiatore-consumatore. La CCV, tuttavia, era stata sottoscritta da pochissimi Stati membri dell’Unione europea; ed inoltre risultava non pienamente conforme alle esigenze sociali e contrattuali che si stavano affermando a livello internazionale, orientate non tanto sulla mera intermediazione per il trasporto ed il soggiorno, quanto sulla fornitura dell’insieme di servizi funzionali al viaggio e anche non connessi strettamente ad esso. La disciplina relativa ai “servizi turistici” ed in particolare ai “pacchetti turistici”, è stata dapprima inserita nel Codice del consumo), ed in particolare nell’art. 94, nel quale è stato soppresso il riferimento alla Convenzione di Bruxelles, ed il massimale del risarcimento è stato fissato con riferimento alle convenzioni internazionali in materia, di cui sono parte l’Italia o l’Unione europea. Infine, la disciplina di tali contratti è stata stabilita con il decreto legislativo 23.5.2011, n. 79 che, intervenendo in modo organico sulla tematica dei pacchetti turistici e del rapporto contrattuale con il consumatore turista, ha provveduto peraltro all’abrogazione della legge n. 1084 del 1977. In questo contesto, il legislatore delegato, con il citato art. 15 dichiarato illegittimo, aveva stabilito, al 1° co., che “Il danno derivante alla persona dall’inadempimento o dalla inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico è risarcibile nei limiti delle convenzioni internazionali che disciplinano la materia, di cui sono parte l’Italia o l’Unione europea….”.  La ratio della delega consisteva nell’assicurare un trattamento più favorevole alla tutela del consumatore, salva l’opportunità di limitare il risarcimento conformemente alle convenzioni in essa richiamate. Ciò va evidentemente inteso nel senso di adottare il medesimo massimale che il diritto uniforme riservava ai vettori delle prestazioni correlate, in modo da evitare che i venditori o gli organizzatori dei viaggi a pacchetto potessero essere tenuti ad un maggior indennizzo. In questo senso, evidentemente nessun profilo di maggior favore potrebbe essere rinvenuto nella CCV, disciplinando questa anche prestazioni non comprese nei tipi di trasporto di cui alle convenzioni internazionali citate nella direttiva, con la conseguenza che una limitazione di responsabilità meno favorevole rispetto alle prestazioni di viaggio-tipo non era giustificabile, non solo perché non prevista dalla direttiva, quanto perché norma chiaramente meno favorevole rispetto al consumatore danneggiato. Tale conclusione risulta, del resto, avvalorata dal dato testuale della lettera c) del più volte citato art. 14 della legge delega, che richiamava espressamente il limite risarcitorio fissato dalla Convenzione di Bruxelles soltanto con riferimento ai danni diversi dal danno alla persona, rispetto ai quali si circoscriveva l’ambito di discrezionalità del delegato. Una tale esegesi, peraltro, evidenzia proprio la coerenza fra il mancato espresso richiamo ai danni alla persona ed il concorrente criterio di delega orientato a conservare soltanto le norme più favorevoli. In altri termini, poiché la scelta legislativa era orientata nel senso di maggior favore per il viaggiatore, in ossequio alle finalità della direttiva 90/314/CEE, correttamente la legge comunitaria del 1993 ha ritenuto di mantenere espressamente solo il limite risarcitorio per i danni alle cose, che pure la direttiva consentiva di ridurre negozialmente nei limiti della ragionevolezza, e di non richiamare l’analogo limite risarcitorio per i danni alle persone .


     6. Il consumatore non persona fisica e il principio di uguaglianza.
     Si è detto che anche in quella che è la principale e più restrittiva definizione di consumatore egli è tuttavia una “persona”. Ci si è peraltro interrogati circa la possibilità di considerare consumatore anche un soggetto che non sia una persona fisica (ad esempio un’associazione non riconosciuta, che acquista un computer per catalogare le informazioni sui propri iscritti). Sia la Corte di Giustizia ,  che la Cassazione  hanno affermato la tesi negativa, in conformità peraltro al chiaro dato normativo, che considera appunto consumatore esclusivamente “la persona fisica”.
La ratio della norma è spiegata da Gabrielli , secondo cui la professionalità degli enti, l’organizzazione per il perseguimento di uno scopo, costituisce di per sé fattore impeditivo o quantomeno fortemente riduttivo del deficit informativo nell’atto di consumo; si veda anche FICI, Corr. Giur., 2002, 1629, che pure sottolinea l’agire necessariamente professionale degli enti. In effetti gli amministratori o in genere coloro che assumono la gestione degli enti hanno sempre una responsabilità nei confronti dell’ente e un dovere, ex art. 1176, 2° co., c.c., di agire professionalmente, quand’anche si tratti di associazioni non riconosciute o di comitati (cfr. artt. 36 ss. c.c.), come tali non dotati di personalità giuridica, e il solo fatto di aver posto in essere un organizzazione, dotata di una sua soggettività giuridica, crea inevitabilmente un affidamento nei confronti dei terzi circa l’esercizio della propria attività con professionalità. Del resto anche le associazioni non profit non possono essere considerate consumatori perché agiscono pur sempre per uno scopo professionale, poco importa se non di lucro (e non a caso infatti nella definizione di cui all’art. 3 cod. cons. si parla di “scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”, comprendendosi dunque sia lo scopo imprenditoriale o di lucro che quello professionale). Ad esempio anche lo scopo di beneficenza, per il solo fatto di essere stato inserito nell’atto costitutivo e per aver determinato la creazione di un’associazione diviene un fine professionale. Peraltro, l’art. 2247 c.c., che definisce le società, non pone tra i requisiti la professionalità, dandolo per scontato: si ritiene infatti che la società possegga tale requisito per il solo fatto di porre in essere istituzionalmente rapporti giuridici con i terzi, in quanto non sarebbe mutata la previsione dell’art. 8 cod. comm. del 1882 che richiedeva, per l’acquisto della qualità di commerciante, l’abitualità per la persona fisica, ma non le società . Non può pertanto condividersi la tesi sostenuta dal Rinaldi , il quale invece riterrebbe opportuna un allargamento della definizione di consumatore anche alle persone giuridiche.
      In effetti, anche a voler ammettere di poter individuare un’identità di ratio tra la tutela della persona fisica consumatore e quella che si attenderebbe per l’ente non persona fisica inesperto, non vi sarebbero comunque spazi per un’interpretazione in via analogica, perché mancherebbe un vuoto normativo che la giustifichi. Neppure può tentarsi un’interpretazione estensiva della nozione di persona fisica, trattandosi di un’espressione estremamente chiara, che non pone alcun dubbio interpretativo: in claris non fit interpretatio. In ogni caso vale la considerazione per cui non vi è, da parte della giurisprudenza, alcun riferimento ad una presunta maggiore esperienza dell’ente collettivo rispetto alla persona fisica (dato che ben può essere che gli amministratori del primo siano più inesperti di altra persona fisica).
       Peraltro due sentenze della Cassazione, le nn. 8604 e 12929 del 2007, hanno realizzato una piena equiparazione della persona giuridica alla persona fisica quanto alla risarcibilità dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione dei diritti della personalità. Tale orientamento è stato anche in seguito confermato dalla Suprema Corte, la quale ha stabilito che l'ente pubblico territoriale, come la persona giuridica e l'ente collettivo in genere, ha titolo al risarcimento del danno non patrimoniale qualora l'altrui inadempimento contrattuale ne leda i diritti immateriali della personalità, compatibili con l'assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono i diritti all'immagine, alla reputazione e all'identità. Tale principio è stato affermato in fattispecie relativa al danno all'immagine cagionato ad un Comune dalla società incaricata di realizzare una tensostruttura per rappresentazioni, la quale aveva consegnato un'opera tanto viziata da costringere l'ente ad annullare la stagione teatrale .
Già in passato erano considerati punti fermi sia la possibilità che una persona giuridica potesse subire danni non patrimoniali sia la risarcibilità degli stessi in caso di loro lesione . Tuttavia nella concreta attuazione di tale ultimo principio si rinvenivano talune incertezze, dovuti all’apparente contraddizione derivante dal risarcimento di danni non patrimoniali ad un soggetto non persona fisica e che addirittura, nel caso delle società, è istituzionalmente destinato al perseguimento di un fine di lucro.
     Il panorama, a livello di teoria generale, è piuttosto confuso, e attraversato dalla convergenza di complicazioni teorico-dogmatiche da una parte, e tensioni ideologiche ed emotive dall’altra; complicazioni e tensioni che però non sempre sono esplicitamente risolte nelle motivazioni delle sentenze .
      Il fatto che la società commerciale sia un ente funzionalizzato allo scopo di lucro limita il rilievo della loro soggettività quanto alla risarcibilità dei danni non patrimoniali .
    Peraltro, in tema di danni in caso di lesioni all’onore e alla reputazione sembra regnare ancora confusione in giurisprudenza, confusione peraltro non rilevata dalla dottrina. Nonostante infatti sia apparentemente pacifico che la lesione dei diritti della personalità dia sempre luogo a danni non patrimoniali  e solo eventualmente possa provocare anche danni patrimoniali (nell’ipotesi in cui il soggetto danneggiato svolga un’attività lavorativa: ovverosia sia ad esempio un imprenditore) si leggono delle sentenze in cui si afferma che il protesto cambiario, conferendo pubblicità all’insolvenza del debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un’ottica commerciale/imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda – di indubitabile discredito – tanto personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato, esso deve ritenersi idoneo a provocare “un danno patrimoniale” “sotto il profilo della lesione dell’onore e della reputazione del protestato come persona”, al di là e a prescindere dai suoi interessi commerciali .
      Si tratta di affermazioni ripetute, mediante l’uso sempre delle stesse parole, anche in altre sentenze della Suprema Corte, senza che sia mai spiegato quale sarebbe questo “danno patrimoniale” ulteriore rispetto agli interessi commerciali e tale da incidere negativamente sull’onore e sulla reputazione del protestato “come persona”. La realtà è che la Cassazione sembra abbia acriticamente riportato la stessa frase scritta per la prima volta in una sentenza del 1998 , quando il danno ai diritti della personalità veniva risarcito ex art. 2043 c.c., una norma fisiologicamente destinata a risarcire i danni patrimoniali e forzatamente all’epoca utilizzata, come si è ricordato, per risarcire anche quelli non patrimoniali. In ogni caso l’imprecisione terminologica sembra evidenziare un retropensiero di permanente ostilità verso la risarcibilità del danno non patrimoniale subito dal soggetto che esercita un’attività imprenditoriale.
     Per quanto riguarda poi in particolare la lesione dell’onore, sussiste la difficoltà di immaginare la lesione di un “onore sociale” degli amministratori ogni qualvolta il danno non si riverberi sull’opinione che persone estranee alla società hanno della stessa (cagionando così un danno all’avviamento).
    Invero, sembrerebbe che l’equivoco si celi nella tendenza ad ancorare la risarcibilità del danno alla lesione di interessi patrimoniali, così trascurandosi il fondamentale punto di partenza teorico insito nello stesso riconoscimento dei diritti della personalità (e che giurisprudenza e dottrina concordamente riconoscono in virtù del riconoscimento costituzionale degli enti collettivi), ovverosia la natura non patrimoniale del relativo danno in relazione alla lesione di un diritto avente la dignità di diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto, che imporrebbe, di conseguenza, la sua risarcibilità a prescindere dalla prova di un danno economicamente valutabile (analogamente a quanto avviene ad esempio per il danno biologico, che viene risarcito per il solo fatto che esso si è verificato, e in assenza di qualsiasi prova di una danno patrimoniale da parte della persona che lo subisce).
     Ha così affermato la Suprema Corte che esiste un diritto soggettivo perfetto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in particolare nell’art. 2 che riconosce i diritti inviolabili della persona e nell’art. 3 che fa riferimento alla dignità sociale .
     Quanto poi alla risarcibilità della lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo, ai fini della indennizzabilità della sua componente non patrimoniale, solo di recente la giurisprudenza non richiede che i tempi della causa abbiano inciso negativamente su un diritto della personalità delle stesse, ritenendo che la teoria della rappresentanza organica permetta alla società di far proprie le sofferenze e i disagi patiti dai suoi membri .
      In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della legge 24.3.2001, n. 89, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è - tenuto conto dell'orientamento in proposito maturato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo - conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri, e ciò non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui persone fisiche; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno “in re ipsa” - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione -, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente .
     È indubitabile che l’orientamento giurisprudenziale diretto ad ancorare la riparazione dei danni non patrimoniali subiti dalla società alla prova di un danno patrimoniale risente delle teorie che rifiutano una concezione antropomorfica della società: ciò soprattutto per il diritto all’onore e per il diritto ad una ragionevole durata del processo, in cui è necessario che una persona fisica possa rispettivamente recepire un’offesa e soffrire nel corpo o nella psiche per i ritardi del processo.
      La concezione antropomorfica della persona giuridica è del diciannovesimo secolo e risale a von Gierke , secondo il quale le persone giuridiche sono altrettanti organismi naturali dotati, al pari dell’uomo, di una propria volontà e portatori di un proprio interesse distinto da quello delle persone fisiche dei componenti. Tale teoria fu sottoposta a molte critiche per l’esasperata accentuazione del parallelismo fra le persone fisiche e gli organismi sociali; tuttavia essa va ricordata perché, benché ormai abbandonata, ha permesso il superamento della teoria della persona giuridica impostata sulla rappresentanza (che comportava che venissero imputati i soli effetti e non già l’intera fattispecie dell’azione del rappresentante, con il che la persona giuridica poteva liberarsi della responsabilità imputandola al comportamento negligente o in mala fede del rappresentante) e ha messo in risalto il concetto di organo quale strumento operativo della persona giuridica .
     Ma è nel 2009 che la Cassazione sembra abbandonare definitivamente il difficile cammino dell’equiparazione dell’ente collettivo alla persona fisica: la pretesa prospettazione al giudice penale, da parte di una compagnia assicuratrice, di sospetti ovvero di fatti potenzialmente idonei a integrare una responsabilità sul piano penale nei confronti della parte che ha chiesto l'indennizzo non determina automaticamente la sussistenza di un danno in capo alla persona giuridica: tali fatti infatti, sono solo potenzialmente produttivi di danno: implicano, cioè, il pericolo dei suo verificarsi ma non la certezza che lo stesso si sia, in concreto, prodotto e non esonerano quindi l'attore dal fornire la prova delle conseguenze dannose che, in concreto, gli siano derivate. Ove invece il fatto illegittimo abbia dato luogo ad una lesione della reputazione personale (intesa come reputazione che il soggetto gode come persona umana, tra gli altri consociati; altrimenti detta, più propriamente, onore e prestigio), il danno è in re ipsa, in quanto si realizza una perdita costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore (per quanto non patrimoniale) della persona umana alla quale il risarcimento deve essere commisurato .
      Varia pertanto l'estensione degli oneri probatori a seconda che si versi in ipotesi di lesione di reputazione personale o di reputazione professionale: nel caso affrontato dalla Cassazione, la natura della parte ricorrente, che ha la veste di persona giuridica, comporta che la tutela invocata può trovare spazio sul piano della lesione della reputazione commerciale e della perdita di opportunità, con la conseguenza che la prova del danno deve rispondere a criteri assolutamente rigorosi e circostanziati, soprattutto in relazione alla sussistenza del nesso di causalità tra condotta colposa e danno conseguente sul piano economico.
    Emerge dunque in ogni caso che l’ente collettivo, pur a seguito di una significativa evoluzione giurisprudenziale che lo ha portato ad erodere una parte significativa della distanza che lo separava dalla persona fisica, è ancora ben lontano da essa. I danni non patrimoniali riconosciuti all’ente collettivo sono infatti sempre filtrati – mediante la teoria della rappresentanza organica - da persone fisiche le quali sole percepiscono un’offesa all’onore, subiscono le lunghezze di un processo, patiscono fastidi e dolori.
     Vi sono inoltre diritti fondamentali, quali il diritto alla salute o alla libertà personale, che sono di esclusiva pertinenza della persona fisica.
      Altro significativo segnale di distinzione è la continua tentazione della giurisprudenza di confondere, solo per l’ente collettivo e non anche per la persona fisica, i piani del danno non patrimoniale con quello patrimoniale, dal momento che spesso, come si è visto, un danno non patrimoniale quale quello alla reputazione commerciale è valutato facendo riferimento ad un’eventuale perdita dell’avviamento. Si è detto del resto  come solo la persona fisica può essere considerata consumatore e come tale quindi destinataria, fra gli altri, di numerosi e significativi diritti fondamentali. 
     È evidente dunque che l’elemento di discrimine tra persona fisica e giuridica, che impedisce a quest’ultima di poter essere considerata consumatore, non va cercato in qualcosa di puramente oggettivo e/o economico, ma nella rilevanza in sé dell’essere umano, che per la sua sola esistenza impone una tutela ai massimi livelli e che nel raffronto con l’ente collettivo (che, a differenza della persona umana, non è tutelato dall’art. 2 Cost.) sfugge ad obiezioni fondate su argomentazioni di tipo ugualitario, ma si éleva al punto di giustificare un trattamento migliore e differente in virtù di quel corollario del principio di uguaglianza che è il dovere di trattare in maniera adeguatamente diversa situazioni differenti (si pensi ad esempio alla sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale, relativa al caso dell’ILVA di Taranto, sentenza in cui si è affermato che “una disciplina differenziata per situazioni a loro volta differenziate, meritevoli di specifica attenzione da parte del legislatore, non viola il principio di eguaglianza”).


      7. Conclusioni.
      Valori del mercato e diritti fondamentali entrano spesso in contatto e in conflitto e pertanto richiedono continuamente di essere bilanciati, con il necessario ed inevitabile sacrificio degli uni, degli altri o parziale di entrambi. È emerso al contempo che le regole del mercato sono sì regole per disciplinarlo, ma al contempo (si pensi all’utilità sociale) possono essere a difesa di diritti fondamentali . Le regole a tutela del mercato e quelle poste a presidio dei diritti fondamentali dunque spesso coincidono, si intersecano di continuo e talvolta riescono a coesistere pacificamente; non si tratta dunque di due compartimenti stagni, di due dimensioni separate e incomunicabili. L’esistenza del mercato è compatibile con i diritti fondamentali, così come il consumatore è nello stesso momento una persona. È possibile pertanto un’interpretazione dell’art. 41 Cost. diretta a contemperare le diverse istanze in esso racchiuse, ossia la tutela della concorrenza, della correttezza e della trasparenza delle operazioni commerciali, nel segno della volontà politica di rimuovere gli ostacoli all’efficienza del mercato, promuovendo però nello stesso tempo l’utilità sociale, e così correggendo con misure appropriate le disparità di potere contrattuale pregiudizievoli alla libertà e alla razionalità delle scelte economiche.
     E in effetti la Costituzione italiana mette sì al vertice del sistema l’essere umano, ma inteso non come entità scissa dalla concretezza e storicità delle sue condizioni di vita, bensì colta e compresa nel suo radicamento sociale, nella pluralità e varietà dei suoi bisogni e interessi, nella molteplicità e varietà delle sue manifestazioni attive fra le quali il mercato ricopre un ruolo ed un’importanza fondamentali, tanto da potersi considerare una di quelle “formazioni sociali” in cui, secondo l’art. 2 Cost., si svolge la personalità dell’uomo .
      Appare tuttavia un vuoto esercizio di retorica sostenere che i diritti fondamentali si pongono su un piano superiore e non comunicante rispetto ai diritti del mercato e che non possano mai essere sacrificati a favore di altri valori; tale atteggiamento potrebbe anzi essere non solo infruttuoso ma anche rischioso, qualora, facendosi forza di questa affermazione, si comprima lo spazio dei diritti dell’uomo a favore del mercato con il pretesto che tanto si tratta di mondi che non possono interferire tra di loro (cfr. la citata sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale, che, in nome del diritto al lavoro e del diritto di iniziativa economica riconosce la possibilità di comprimere il diritto alla salute e all’ambiente). Sembra invece assai più proficuo prendere atto della reciproca interferenza fra gli stessi e concentrarsi sul procedimento più appropriato per realizzare un bilanciamento tra valori che tenga in dovuto conto la sussistenza dei diritti fondamentali senza al contempo “umiliare”, frustrare eccessivamente i valori del mercato , secondo cui la sensibilità dei giuristi ha a lungo collocato il terreno dei diritti fondamentali e quello dello scambio mercantile su piani del tutto paralleli). In questa direzione è fondamentale un uso sapiente delle clausole generali, e in particolare della ragionevolezza , pur nella consapevolezza degli inevitabili pericoli di genericità e arbitrarietà che esse comportano . Per ridurre tali rischi risulterebbe fondamentale innanzitutto poter fare affidamento su giudici altamente specializzati in materie economiche e procedere al bilanciamento dei diritti fondamentali tenendo conto, a livello macroeconomico, della dimensione collettiva degli interessi coinvolti: quanto più alto sarà il numero delle persone coinvolte dai sacrifici richiesti dalle esigenze del mercato (ad es. l’inquinamento prodotto da una nuova industria, l’aumento dei prezzi determinato da un’intesa anticoncorrenziale) tanto più energica dovrà essere la reazione dell’ordinamento nel riaffermare le esigenze della collettività valorizzando al massimo l’utilità sociale, che può essere considerata l’anello di collegamento tra diritti fondamentali e mercato. A livello microeconomico dovrà poi considerarsi che i diritti fondamentali vivono (anche) nel mercato (che si è detto essere una delle formazioni sociali ove si svolge la personalità dell’uomo) e devono quindi adattarsi alle sue caratteristiche. Non può dunque non tenersi conto sia dell’evidenziato processo di oggettivazione che ha attraversato il mercato (si pensi all’istituto dell’abuso del diritto, all’inversione dell’onere della prova nella valutazione della responsabilità del professionista medico, al rifiuto dei danni punitivi nella class action), sia della persistente rilevanza della persona fisica sul mercato rispetto all’ente collettivo (si pensi alla definizione di consumatore e al diverso trattamento riservato in sede di risarcimento dei danni non patrimoniali a persona fisica e ente collettivo). Il principio di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost. dovrà dunque tenere presente quello che è uno dei corollari del principio di uguaglianza, ossia il principio secondo cui devono essere trattate in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali. Pertanto, da una parte il giudice dovrà procedere alla correzione del contratto eventualmente squilibrato non mediante sue personali e incontrollabili concezioni dell’equità bensì prendendo come solido punto di riferimento i valori oggettivamente espressi dal mercato (così ad esempio potrà ridurre secondo equità una clausola penale perché eccessivamente gravosa solo se tale onerosità viene uniformemente riconosciuta nell’ambito del mercato in cui è stata stipulata) e dall’altro dovrà ritenere di intervenire non in tutte le ipotesi di contratto squilibrato (pena altrimenti la mortificazione del principio dell’autonomia contrattuale di cui va rivendicata la persistente attualità) ma solo quando le suddette esigenze di inesperienza o di assenza di alternative lo esigono.

 
 
 
 
 
 

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