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IL ’68 E IL DIRITTO. L’ONDA LUNGA DI UNA RIVOLUZIONE

  Pubblico 
 mercoledì, 28 febbraio 2018

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Tomaso E. Epidendio, assistente di studio della Corte costituzionale

 
 

1. Introduzione. Il tema di questo incontro è: “Il ’68 e il diritto. L’onda lunga di una rivoluzione”.
Nel linguaggio giornalistico l’espressione “onda lunga” indica le ripercussioni che un fatto o un evento può avere in luoghi (temporalmente) distanti.
Credo che, nell’ambito delle iniziative rammemorative del cinquantennale del sessantotto, il sottotitolo fornisca una buona indicazione metodologica nell’analizzare il significato storico che il fenomeno del ’68 ha oggi per il diritto a cinquant’anni dal suo insorgere. Ancor più proficua questa indicazione, se si tengono presenti le peculiarità del “Sessantotto italiano”, messe in luce da alcuni storici, che lo caratterizzano come fenomeno di lunga durata.
Non credo del resto – per dirla con le parole di un autore di lingua spagnola che quella stagione ha vissuto in prima persona – che sia di alcun interesse “ricostruire una storia dagli esiti”: sarebbe facile, invero, condurre un’analisi critica partendo dai fallimenti di quella storia, per poi dividersi inevitabilmente su una vacua diatriba circa le contraddittorie cifre (antiautoritarismo e dogmatismo ideologico, pacifismo e predisposizione alla violenza terroristica, superamento di modelli borghesi di relazioni interpersonali e di genere e “machismo” mascherato) che hanno caratterizzato globalmente il movimento o sugli aspetti qualificanti che questo ha avuto in Italia.
Ancor meno interessante è poi questo approccio quando la finalità è quella che ci si prefigge in questa sede, esaminare cioè quello che il fenomeno ha significato e significhi per il “diritto”, qui inteso evidentemente in senso oggettivo.
Trovo, invece, molto più interessante, specie nella prospettiva del rapporto tra il fenomeno culturale e sociale e il diritto, “cogliere le provocazioni di un passato che ritorna trasformato”, osservare le linee (le “onde”) che sono giunte più lontano, così lontano da farne smarrire l’origine e far sì che, essendosi persa la consapevolezza del loro punto sorgivo, si diventi facilmente strumenti passivi di forze storiche il cui operare sembra nascosto dall’accettazione acritica delle loro penetrazione nel quotidiano – e, con riferimento al diritto, nel quotidiano esercizio della giurisdizione –, dove appaiono smorzate nella banalità di un pensiero unico che diventa pervasivo e si presta ormai a opposti utilizzi ideologici, talvolta contrastanti con quelli originari, senza perdere, però, il loro genetico carattere “rivoluzionario”, così da determinare una destabilizzazione silente del sistema, che considero non meno pericolosa dei tentativi eclatanti e violenti cui si è assistito in quegli anni ormai lontani.
Procederò quindi attraverso l’individuazione di due principali direttrici attraverso le quali le conseguenze del Sessantotto riverberano fino ai nostri giorni, corrispondenti a quelli che potremmo definire il Sessantotto “contro” il diritto e il Sessantotto “nel” diritto per concludere con un esempio paradigmatico di questa onda lunga, attinto dalle prime esperienze giudiziarie della recente cd. “riforma Orlando” del diritto penale.

2. Il Sessantotto “contro” e “nel” diritto: giustizia riparativa e uso alternativo del diritto. In rapporto al diritto, mi sembra infatti che si possano individuare due principali direttrici attraverso le quali il fenomeno del Sessantotto si ripercuote nell’oggi della pratica giudiziaria: una che si potrebbe definire il “Sessantotto contro il diritto”; l’altra che potremmo chiamare “Sessantotto nel diritto”.

2.1. Abolizionismo penale e giustizia riparativa. La prima, più studiata, è quella che origina dalla matrice di “violenza terroristica” nella quale è confluita la conflittualità sociale (generazionale, di classe e politica) del periodo del Sessantotto: una rivolta contro il diritto costituito, del quale spesso venivano però mutuate le espressioni (sequestro proletario, processo del popolo), una rivolta violenta che si è tradotta in un pesante e drammatico tributo di sangue, versato anche nella magistratura.
La ricostruzione storica di quel tragico periodo vanta un’abbondante letteratura, ma nell’oggi, oltre allo strascico di dolore che si è portato dietro (nelle persone coinvolte e nella coscienza dell’intero Paese) , da un lato mette in questione il rapporto tra il reo e la vittima con particolare riguardo al ruolo di quest’ultima nel processo penale, dall’altro, la funzione della pena rispetto al decorrere del tempo, sia nel caso in cui la pena sia ritardata nell’esecuzione a causa di lunghi periodi di latitanza e di costruzione di una “nuova vita” all’estero (pensi al cd. caso Battisti), sia in relazione al fenomeno del “pentitismo” nel mondo della lotta armata e della eversione, dove talvolta la dissociazione è accompagnata da altri fenomeni, non esclusa la conversione religiosa (significativo in proposito è il cd. caso Marco Barbone), ciò che si è tradotto nell’attualità in quel vero e proprio modello di “significante vuoto”, nel senso che di qui a breve preciseremo, che va sotto il nome di “giustizia riparativa”.
Si tratta di una direttrice che forse, proprio perché più dissodata e già al centro di una riflessione pienamente consapevole, anche recente, potrebbe essere meno utile approfondire in questa sede, anche se alcune brevi parole sembra che debbano comunque essere spese, proprio per evitare che determinati istituti si consolidino per il solo fatto di essere conformi alla “moda giuridica” del momento.

Per questo vorrei consigliare – per essere meno note di altre e per appartenere a un particolare tipo di riflessione filosofica, certamente meno specificamente giuridica, ma anche tale da non prestarsi a banali omologazioni ideologiche –  due brevi letture, in realtà ben anteriori al Sessantotto, ma che hanno, a mio avviso, un valore attuale incredibilmente illuminante sul rapporto tra la giustizia, la violenza (statuale e del singolo) e il diritto: il saggio di Walter Benjamin Zur Kritik der Gewalt (“Per la critica della violenza”), pubblicato nel 1921, e l’ancor più insolito saggio di un altro pensatore ebreo di lingua tedesca, amico del primo, Gershom Scholem, intitolato Über Jona und den Begriff der Gerechtigkeit (“Su Giona e il senso della giustizia”), risalente agli anni 1918-1919. Si tratta di due scritti che, nati nella temperie di un epoca traversata da anarchismo, marxismo e imminenti derive totalitarie, rivelano una profondità visionaria insuperata nel denunciare la natura violenta del diritto, lo” stato di eccezione” che mette sempre in crisi la sua legittimazione e lo espone al continuo rischio di una “sospensione del diritto”, per garantire una pretesa di giustizia, tanto assoluta quanto mai completamente conseguibile; da qui la necessità ineludibile del giudizio e della sanzione, la cui giustizia è colta, invero più dal secondo che non dal primo, nel possibile (e in qualche misura necessario) differimento della sua esecuzione per garantire in ogni momento una sempre presente possibilità ravvedimento, che non spetterebbe all’uomo negare.

Mi permetto, dunque, solo di sottolineare alcuni elementi che mi sembra non sia stati sempre evidenziati con la dovuta chiarezza.
Infatti, lungo questo complesso percorso – che, partendo dalla ribellione al diritto più apertamente violenta e drammatica, apre una riflessione sulla possibilità di recupero della persona e sull’incidenza del decorso temporale sulla pena, fino a porre a tema lo stesso significato ultimo del processo penale e richiamare il ruolo che la vittima può giocare e gioca rispetto al dovere di punire, tema quasi ancestrale – sembra affermarsi una tendenza occultamente “abolizionista” della pena, vista non più come “sanzione”, ma come “percorso”, da garantire non solo attraverso “interruzioni” dell’esecuzione (conseguibili con i vari benefici penitenziari), ma anche per mezzo di “sospensioni” (si pensi alle forme generalizzate di probation di recente introduzione) o addirittura attraverso la rinuncia statuale alla punizione (si pensi alla condizione di non punibilità per particolare tenuità del fatto).
Si tratta di un complesso intreccio nel quale le scelte legislative paiono doppiamente etero-dirette: da istanze sovranazionali – espresse per lo più in via giurisprudenziale dalla Corte di Strasburgo in ambito convenzionale e dalla Corte di Lussemburgo in relazione all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – e dalla persecuzione politica di finalità diverse da quelle tecnicamente proprie degli istituti disciplinati, ciò che è destinato a generare sempre più confusione e sconcerto nell’altalenante susseguirsi di opposte discipline originate da ineliminabili contraddizioni di fondo.

Ad esempio, sotto la spinta della giurisprudenza di Strasburgo si è assistito all’innalzamento dei limiti di pena necessari per adottare la custodia cautelare  in carcere e a incrementare le citate forme di probation e benefici penitenziari, per risolvere un problema de facto, come il sovraffollamento carcerario, dovuto all’incapienza strutturale delle carceri: di fronte agli inconvenienti generati da questa metamorfosi – per la quale problemi di fatto si trasformano in problemi di diritto – si è poi assistito all’elevazione, sino a livelli quasi impensabili, della pena minima di determinati reati, ciò per consentire l’applicazione della custodia in carcere a fronte dello sconcerto suscitato dalla sua inapplicabilità in casi di clamore pubblico. In tal modo, per una sorta di eterogenesi dei fini, si sono generati ulteriori e altrettanto gravi problemi di proporzione della pena in relazione alla compressione della possibilità di una sua conformazione giudiziale alle caratteristiche esibite dalla concretezza dei singoli “casi vivi”. Analoghe considerazioni potrebbero essere sviluppate in relazione a un altro istituto critico, come quello della prescrizione.

È difficile, in queste complesse trasformazioni, distinguere tra loro le diverse posizioni, che spesso si presentano, almeno agli occhi dell’operatore pratico, confuse in una sorta di notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere.
Infatti, alcune riflessioni possono essere ricondotte alla legittima aspirazione ad attuare forme progressive di “umanizzazione” della pena, restando però nella consapevolezza della dimensione materiale e non idealistica nella quale il diritto penale è chiamato a operare, così da impegnarsi in un’opera di costruttiva critica alla concezione della pena detentiva come rimedio per tutti i mali e sviluppare un’ampia diversificazione della tipologia delle risposte sanzionatorie, attraverso una particolare attenzione rivolta anche all’incidenza del tempo sulla reazione ordina mentale a condotte deviante, reazione che dovrebbe sempre rispondere a criteri di idoneità, necessità e proporzione, secondo i principi di quello che è stato chiamato un “diritto penale minimo”.
Altre posizioni, invece, sembrano lasciar trasparire le vene di un moralismo redentore senza “sacrificio”, che vede riunirsi, in una per certi versi paradossale unione, frange della cultura cattolica, dell’anarchismo di ogni parte e della sinistra riformatrice, le quali, proprio in virtù di una tendenza nascostamente e, forse, inconsciamente abolizionista della pena, tendono a ridurre il processo al mero accertamento, affidando alla “verità processuale” l’unico valore etico (per la società) e morale (per il singolo) del diritto penale, non senza le contraddizioni generate dall’abbandono delle antiche pretese del processo inquisitorio, per sposare l’impostazione di un processo accusatorio, ispirato a quella sporting theory della verità processuale, per la quale lo statuto aletico di tale cosiddetta “verità” appare fortemente ridimensionato.
Il progetto sembra quello di arrivare a un giudizio senza pena, che – per funzionare e legittimarsi, quasi a lavare la cattiva coscienza di uno squilibrio che non riesce a sopprimere del tutto l’emersione di una “sentimento di ingiustizia” latente – riscopre, quasi in un regresso verso le ancestrali origini del diritto, dimentico della sua genesi, il ruolo della vittima in un giudizio che si afferma nella prospettiva della sostituzione della “pena” con la “riconciliazione”, che dovrebbe sublimarsi nel “nuovo” concetto di “giustizia riparativa”, vero e proprio “mantra” delle discussioni sulla pena degli ultimi tempi, su cui avremo occasione di ritornare alla fine di questo intervento con un piccolo esempio tratto dalla recente riforma Orlando.

Il rischio – ed è un rischio particolarmente grave –  è quello di enfatizzare, per reazione, un populismo penale “forcaiolo” che, in un prossimo futuro, potrebbe far regredire il diritto penale, dopo le molte conquiste di civiltà giuridica che hanno caratterizzato il secolo passato, verso nuove e inedite forme di “barbarie penale”.
A questa volgare barbarie potrebbe contribuire – in pericolosissima sinergia e fornendo le mentite spoglie di un approccio apparentemente sofisticato e più “moderno” – quella generale concezione “economicista” della pena, per la quale essa non risponderebbe più alle tradizionali funzioni di retribuzione del male “fatto”, di prevenzione (generale o speciale) di “condotte umane” o di recupero sociale delle “persone” autrici di crimini, ma svolgerebbe semplicemente una funzione di neutralizzazione razionale di un “costo” sociale, per evitare il quale ogni mezzo può essere giustificato, quando il soggetto (considerato per questo “mostruoso”) non risponda a criteri di razionalità economica delle proprie scelte, in termini di costi e benefici: si pensi, in questa prospettiva, alla perdurante presenza della pena di morte nei Paesi che, paradossalmente, hanno rappresentato la culla dei diritti fondamentali, o alla preoccupante insistenza con la quale ritornano proposte politiche di ricorso a pratiche, quali la castrazione chimica o altre misure non meno aberranti, invocate per come unico rimedio per neutralizzare il “mostro”.
Tutto questa mi sembra in gioco quando si voglia rendere totalizzante una concezione come quella della giustizia riparativa, ma mi sembra che di questa posta si parli ben poco nel dibattito giuridico, benché molti segnali emergano già con evidenza.

2.2. Uso alternativo del diritto. L’altra direttrice lungo la quale corre l’onda lunga del Sessantotto è quella che potremmo riportare alla formulazione, parzialmente ossimorica, della “rivoluzione riformista”, una tendenza cioè che intende operare il cambiamento rivoluzionario dall’interno delle istituzioni e che può essere utile modellare sull’esperienza del Convegno, organizzato a Catania nel 1973 da Pietro Barcellona, esperienza poi confluita nella raccolta di saggi dal medesimo curata e significativamente intitolata “L’uso alternativo del diritto” (suddivisa nei due volumi su “Scienza giuridica e analisi marxista” e su “Ortodossia giuridica e pratica politica”, sottotitoli altrettanto significativi).
Questa è, a mio avviso, la direttrice più sotterranea, ma non per questo meno dirompente dell’eredità lasciata dal Sessantotto, forse la più insidiosa, perché pone in questione il rapporto tradizionale – su cui si è fondata sino ad ora la struttura dello Stato post-westfaliano – tra il giudice e la legge, attraverso formule e strategie di azione che esibiscono una abile retorica che, davvero, si può dire, con la felice espressione del pensatore argentino ed esperto di “populismi” Ernesto Laclau, rappresenti le fondamenta della società che si vanno costituendo.

La formula “uso alternativo del diritto” sembra particolarmente felice perché ha una doppia valenza retorica.
Da un lato, con l’aggettivo “alternativo” occulta e sdrammatizza la proposta di un uso “politico” del diritto che, attraverso sottili slittamenti di senso, rende agevole e quasi inavvertita la transizione verso un uso alternativo non più del “diritto”, ma della “giustizia”, intesa come macchina giurisdizionale sempre più svincolata dalla legge e sempre più portatrice di istanze politico-assiologiche.
Dall’altro, la formula si presta a svolgere perfettamente il ruolo di quello che, sempre seguendo la terminologia del citato Ernesto Laclau, possiamo definire un “significante vuoto”, cioè un significante che può essere riempito di contenuti eterogenei e che, attraverso tale indeterminatezza, si presta a diventare facile strumento egemonico di rivendicazione identitaria a mezzo di un sistema non rigoroso di equivalenze tra posizioni altrimenti antagoniste.
In altre e più semplici parole, sull’uso alternativo, e cioè politico, del diritto possono convergere gli esponenti di qualsiasi ideologia, ciò che spiega perché abbia rappresentato uno strumento allettante che è sopravvissuto al crollo dell’idelogia sessantottina in senso stretto.

Il fenomeno si può dire avviato dall’esperienza storica dei cd. Pretori d’assalto e dalle loro ardite ermeneusi e applicazioni ricche di valenze politico-ideologiche. La fortuna della formula Pretori d’assalto, infatti, risale a un articolo di Gino Giugni che – a fronte di provvedimenti pretorili secondo i quali tra le condotte antisindacali sanzionabili attraverso misure interdittive e ordini innominati o a forma libera, di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, dovevano essere ricompresi i licenziamenti di ritorsione o di discriminazione intesi a colpire la libertà e l’attività sindacale – aveva affermato che la “sua” legge non prevedeva affatto che l’art. 28 potesse essere invocato a tutela contro i licenziamenti di semplici operai non sindacalisti, giusto il tenore letterale del seguito della legge. Il padre dello Statuto dei lavoratori – che di lì a pochi mesi avrebbe cambiato opinione su questa sua affermazioni, si sentì rispondere che i giovani Pretori oggetto delle sue critiche si identificavano secondo un motto di inimmaginabile provenienza militare; il motto recitava “noi che prendiam d’assalto come trincea la vita”. Nel dibattito politico allora in voga secondo il quale i giovani pretori volevano praticare una via giudiziaria al socialismo, la inaspettata citazione tratta dalla storia del paracadutismo italiano suscitò tale sorpresa che qualche giorno dopo uscì sul quotidiano Repubblica nelle pagine centrali, un articolo, appunto di Gino Giugni, titolato “I Pretori d’assalto”. Le materie originarie di elezione di questo approccio, costituite dal diritto del lavoro e dal diritto urbanistico e ambientale, sono state parzialmente abbandonate e il fenomeno sembra essersi generalizzato fino a coprire i settori tradizionalmente più rigidi e conservatori del diritto, rappresentati dal diritto e dalla procedura penale.

Il successo storico e la ragione dell’effetto “montante”, anche se per lo più inconsapevole o inavvertito, del fenomeno dell’“uso alternativo” del diritto sono dovuti, peraltro, anche ad elementi contingenti, alcuni esterni e altri interni al Sessantotto e che, uniti ad esso, hanno però prodotto l’esito rivoluzionario più riuscito di quella stagione, le cui conseguenze destabilizzanti per il sistema non sono state probabilmente oggetto di un’adeguata riflessione.

Quali dunque questi fattori concomitanti che hanno fornito al fenomeno sessantottino questo effetto montante?
A mio avviso essi sono riconducibili a tre nuclei principali:

- La cd. “rivoluzione ermeneutica”. Si tratta, forse e meglio, di quella sua volgarizzazione che, attraverso un uso spregiudicato delle nozioni di “pre-comprensione”, di “circolo ermeneutico”, di “decostruzione” dei testi ha finito per fornire legittimazione teorica e far assurgere a una sorta di credo dogmatico incontrovertibile la convinzione – assai discutibile per gli stessi linguisti, se non palesemente erronea –  che l’interprete sia libero di fronte al testo (diventato legge o “enunciato normativo”), attraverso la cui “decostruzione”, egli può attribuire i significati (“norme”) meglio confacenti alla sua volontà (id est, del giudice interprete e applicatore).
La valenza di questa svolta era stata, del resto, già sancita qualche anno prima del Sessantotto, al XII congresso nazionale dell’Anm, tenutosi a Gardone nel settembre 1965, nella cui mozione finale, approvata all’unanimità, si sancisce il rifiuto della “concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del Paese”, per rilevare che “il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”.
Già si comprende il gioco ossimorico dei “significanti vuoti” di queste espressioni, nelle quali si cerca una impossibile equivalenza tra istanze antagoniste: portata politica della funzione e subordinazione alla legge unite dalla mediazione di una generica “funzione di garanzia” (maggioritaria, antimaggioritaria, politica, tecnico-giuridica?) che si risolve nella tranquillante conclusione di “applicazioni” (non interpretazioni in cui possono affermare proprie scelte) che, pur tuttavia, deve essere “conforme” a non meglio specificate finalità fondamentali volute dalla Costituzione (quali sono i criteri per definire “fondamentali” le finalità costituzionali, quali i criteri per individuare, se mai esiste, la “volontà” della Costituzione): da qui all’ “interpretazione conforme a Costituzione” e poi alla CEDU e poi al diritto comunitario, il passo è evidentemente breve e se ne capisce la centralità e la tensione generata nel sistema.

Questa è la fonte primigenia, a mio avviso, dell’attuale crisi del principio di legalità anche nelle sue materie di elezione, come quelle penali, dove assume valore tendenzialmente assoluto (si pensi ad esempio alla sentenza delle SU penali della Corte di cassazione relative all’aggravante dell’ingente quantità di stupefacenti, che trasforma il criterio variabile-qualitativo (ingente quantità) stabilito dal legislatore, in un criterio numerico fisso). Su un piano più generale sembra significativo l’affermarsi di teorie, talvolta tradotte in sentenze anche della Corte costituzionale, e che appaiono più o meno inconsapevolmente figlie di quella rivoluzione, circa il rilievo non più della ratio, ma addirittura della “motivazione” della legge, così che assumono valenza decisiva, per affermare la legittimità di interventi normativi, studi preparatori o schede tecniche degli uffici parlamentari, documenti che assumono perciò rilievo autonomo o integrativo della legge e non più, come avveniva tradizionalmente, meramente confermativo-argomentativo di un significato che comunque doveva essere desumibile dall’enunciato legislativo, del quale aiutavano a individuare la ratio. Sotto altro profilo il fenomeno della rivoluzione ermeneutica e della contestuale crisi del principio di legalità, si sta manifestando sotto il progressivo istituzionalizzarsi di un vero e proprio diritto giurisprudenziale, non solo di origine sovranazionale o costituzionale, ma addirittura della giurisprudenza comune. Si pensi alle recenti riforme sulla valenza degli orientamenti delle SU: in campo penale, con l’introduzione del comma 1-bis nell’art. 618 c.p.p., ad opera della legge n. 103 del 2017, in campo civile, attraverso la modifica dell’art. 374 c.p.c. ad opera del decreto legislativo n. 40 del 2006).

- Il progredire del “linguaggio dei diritti”. Si tratta di qualcosa di diverso e di ulteriore rispetto a quanto già emerso, soprattutto nel dibattito costituzionale, in relazione alle cosiddette diverse “stagioni” dei diritti (politici, civili, individuali, sociali e, adesso, addirittura dei viventi o del pianeta) o alla cosiddetta formula del “diritto di avere diritti”, da ultimo portata avanti da Rodotà, deformando l’idea originaria di Anna Harendt (come altrettanto recentemente illustrato da G. Zagrebelski).
Con l’espressione “linguaggio dei diritti” intendo, invece, riferirmi a quella trasformazione epocale intervenuta nel modo di argomentare i provvedimenti giudiziari, in forza del quale la decisione è selezionata in base alla soluzione che meglio soddisfi determinati diritti, anche prescindendo e superando contenuti testuali che vi si oppongano, così che i cosiddetti “diritti” – in realtà, uno tra quelli in gioco, che viene privilegiato in base a valutazioni politico-assiologiche spesso neppure esplicitate – ha fornito i contenuti della volontà giudiziale da affermare, attraverso l’uso alternativo del diritto, in senso rivendicativo di diritti sempre più estesi (secondo, appunto, le cd. varie “stagioni dei diritti”) e che, da ultimo, possono sono arrivati a comprendere la categoria dei “diritti-desiderio”, particolarmente confacenti a una concezione edonica e utopistica della politica alla quale il Sessantotto sembra tutt’altro che estraneo.

Si pensi, ad esempio, al modo in cui da settori specialistici che maggiormente si prestano a rivendicazoni  di diritti civili e sociali (i già menzionati settori del diritto del lavoro, del diritto ambientale, del diritto di famiglia, ecc…) il linguaggio dei diritti si sia progressivamente generalizzato per essere usato al fine fondare soluzioni ermeneutiche di quotidiani e generali problemi procedurali, anche in settori coperti da riserva tendenzialmente assoluta di legge come , ad esempio, avvenuto per gli orientamenti adottati dalle SU penali sull’utilizzo delle dichiarazioni dei testi assenti o sulla possibilità di rivalutare in sede impugnatoria le prove dichiarative, per dare attuazione a diritti convenzionali dell’imputato affermati dalla Corte di Strasburgo.

- La carica anti-autoritaria. Si tratta cioè di quella transizione, innescata dal movimento sessantottino, che tramuta e trapassa con facilità dalla carica contro le istituzioni a quella contro il principio di autorità e di gerarchia, che può quindi operare anche all’interno delle istituzioni, cioè contro il principio di gerarchia e autorità nelle istituzioni, i cui rapporti sono quindi preferibilmente regolati da altri principi (non gerarchici o autoritativi), quali la competenza, il dialogo, le retroazioni multi-livello.
Tutto ciò che ha favorito l’espansione di alcuni istituti che ormai costituiscono il pane quotidiano della pratica giudiziaria, quali la disapplicazione di atti amministrativi o la inapplicazione di norme nazionali per contrasto con il diritto comunitario, ma anche – è più in generale – un rifiuto del principio di gerarchia che si traduce nella “crisi” della teoria delle fonti e dei rapporti intergiurisdizionali, ulteriormente favorita e complicata dall’irruzione delle cd. fonti sovranazionali, sia convenzionali (CEDU), sia ordinamentali (Unione europea).

Sembrano costituire epifenomeni di questa crisi le sempre più frequenti “ribellioni” o vere e proprie “guerre tra Corti”, sia dei giudici di merito verso la Corte di cassazione, dei giudici comuni verso la Corte costituzionale, di quest’ultima contro la Corte di Strasburgo o quella di Lussemburgo, come recentemente esemplificato dal noto “caso Taricco” sulla prescrizione dei reati in materia IVA. Sotto altro profilo, questa carica ha favorito quelle operazioni sviluppate contro il cd. “mito del giudicato e della certezza del diritto”, in forza delle quali, ad esempio, a testo giuridico immutato le SU hanno operato vere e proprie rivoluzioni in merito alla possibilità di superare il giudicato in materia di sanzioni penali

3. L’onda lunga del Sessantotto nelle recenti riforme: l’estinzione riparativa del reato. Un piccolo esempio, apparentemente innocuo, tratto dalla recente riforma Orlando del processo e del diritto penale, mostra bene, secondo me, come siano all’opera le forze che ho appena esaminato, facendo convergere in sé tutte (o quasi) le linee del discorso sino ad ora tratteggiato più in astratto.
Con la legge n. 103 del 2017, infatti, riprendendo una innovazione contenuta nel progetto della Commissione Fiorella, si è introdotta una generale causa di estinzione del reato per condotte riparatorie.
In particolare, l’art. 1, comma 1, della l. n. 103 del 2017, ha introdotto – dopo le norme sull’oblazione nelle contravvenzioni (segnatamente dopo l’art. 162-bis, concernente l’oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative) e prima delle norme sulla sospensione condizionale (di cui agli artt. 163 e ss.) – l’art.162-ter, secondo cui, essenzialmente, nel caso di reati procedibili a querela rimettibile, il giudice, sentite le parti e la persona offesa, dichiara l’estinzione del reato se l’imputato ha riparato integralmente il danno cagionato dal reato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

L’istituto è stata immediatamente iscritto a quel modello significante che sopra abbiamo definito della giustizia riparativa, accompagnato dai vari peana per i quali l’estinzione del reato, in presenza di condotte riparatorie, risponderebbe al proposito di rafforzare appunto l’idea di giustizia riparativa, con l’attribuzione al procedimento penale di una funzione conciliativa tra autore e vittima del reato, tutto ciò in un’ottica di attuazione del principio di sussidiarietà del diritto penale, in base al quale la pena non deve essere applicata se gli scopi di prevenzione possono essere raggiunti con altri strumenti meno afflittivi.

Tuttavia, a ben guardare l’istituto e il suo nomen è usato appunto come un significante vuoto, attraverso il quale aggregare consenso, ma in realtà aperto a contenuti differenti e contrastanti con l’istanza conciliativa, in particolare da preoccupazioni deflattive del carico processuale che, per come è strutturata in concreto la causa di estinzione, contrastano con la ricordata funzione conciliativa.
La causa estintiva, infatti, si applica ai soli reati perseguibili a querela rimettibile, per il caso in cui non sia stata rimessa: l’istituto ha, perciò, il significato di superare la volontà della vittima che non accetti il risarcimento, posto che, in caso contrario, sarebbe sostanzialmente inutile la sua previsione, in quanto l’estinzione conseguirebbe alla remissione di querela.

Altro, quindi, che funzione conciliativa. L’unico concreto significato della causa estintiva può essere soltanto quello di sminuire il più possibile il ruolo della vittima: si muove dall’idea che il giudice possa scavalcare l’eventuale persistenza della volontà punitiva del querelante, in presenza di condotte che si assumono idonee a reintegrare l’offesa recata agli interessi del reato. Non stupisce, quindi, l’altrimenti sorprendente e totale lacuna legislativa su una disciplina di maggior dettaglio relativa alla procedura di coinvolgimento della vittima: tutto si risolve nelle parole “sentite le parti e la persona offesa” (oltre tutto la persona offesa, non necessariamente coincidente con il danneggiato, come noto).

Ci si sarebbe perciò aspettati, considerata l’estrema delicatezza dell’operazione, maggiore chiarezza di disciplina almeno su quali siano le condotte idonee a superare la volontà della vittima e a considerare comunque soddisfatte le esigenze sottese alla previsione dell’incriminazione.
Al contrario le ambiguità aumentano e lasciano insospettabile aperture a quell’uso alternativo del diritto da parte del giudice, che pure pare figlio del Sessantotto.

La causa estintiva è, infatti, subordinata alla “integrale” “riparazione” del “danno cagionato dal reato”. Il concetto di “riparazione del danno” è specificato dalle condotte mediante le quali il legislatore espressamente indica che si debba conseguire la riparazione: restituzioni, risarcimento ed eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (ove possibile). La formulazione delle condotte costitutive della riparazione sembra perciò richiamare, quanto a restituzioni e a  risarcimento, quella dell’art. 185 c.p. e, quindi, la giurisprudenza che sullo stesso si è formata. Di tal che sembra che – salvo quanto si dirà successivamente su opzioni ermeneutiche alternative – il significato della formula vada inteso in funzione dell’art. 185 c.p., come le SU avevano ritenuto ad esempio in relazione all’attenuante della riparazione di cui all’art. 62, n. 6, c.p. (Cass., SU, 6 dicembre 1991, n. 1048, Scala).

Così intesa la condotta riparatoria ha, peraltro, un contenuto che implica operazioni di accertamento piuttosto complesse.

Il risarcimento, a mente dell’art. 185 c.p., infatti, concerne sia il danno patrimoniale come quelle non patrimoniale, con la precisazione che quest’ultimo, in quanto derivante da reato, è comprensivo del danno morale, inteso come sofferenza soggettiva causata dall’illecito penale. Tuttavia secondo la Cassazione il danno, sia esso patrimoniale o non patrimoniale, non può essere identificato “nel mero fatto dell’avvenuta integrazione dell’illecito previsto dalla fattispecie incriminatrice”, di tal che non può essere motivato con il “pregiudizio in re ipsa” (Cass. III, 27 marzo-28 luglio 2015, n.3301, in coerenza con le affermazioni di Cass. SU civili, 25 febbraio 2010, n. 4549). Sempre secondo gli orientamenti più recenti dei giudici di legittimità, esso copre “anche i danni mediati e indiretti che costituiscano effetti normali dell’illecito secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (Cass. V, 21 dicembre-31 gennaio 2017, n.4701). Tra le voci di danno da reato oggetto di risarcimento il SC comprende anche il danno all’immagine (Cass. II, 7 febbraio 2017, n. 29480) e il danno biologico (ad es. Cass. III 18 luglio-10 novembre 2014, n. 46170).

Orbene l’avverbio “integralmente”, aggiunto in sede di approvazione della legge n. 103 del 2017, sembra condurre a ritenere che, ai fini del riconoscimento delle condotte riparatorie di cui all’art. 162-ter c.p., siano rilevanti tutte le voci di danno da reato risarcibili. Tuttavia, il riferimento all’integralità appare ambizioso se rapportato alla povertà degli strumenti conoscitivi previsti dal legislatore per il giudice.
Le complesse operazioni di accertamento, dunque, mal si concilierebbero con l’indistinzione della fase processuale – che sembra dover essere comunque prematura, se davvero l’intento è deflattivo – in cui esse dovrebbero avvenire, fase che può ritenersi evocata in un modo, in larga parte solo allusivo, dal riferimento all’“imputato” e dall’indicazione che il risarcimento (nulla si dice della decisione) debba avvenire “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento”.

È pur vero, infatti, che per alcune voci (non per tutte), ad esempio nella liquidazione del danno biologico e morale, il giudice penale può legittimamente fare ricorso ad apprezzamenti discrezionali equitativi (Cass. IV, 1 aprile-29 aprile 2015, n. 18099; Cass. III 18 luglio-10 novembre 2014, n. 46170), ma anche per quelle occorre che abbia pur sempre a disposizione i necessari parametri di riferimento per tali valutazioni equitative ed elementi oggettivi da cui desumere l’entità del danno patrimoniale.

Proprio la rilevata discrasia, tra oggetto dell’accertamento ed effettivi strumenti processuali per compierlo, potrebbe portare (e ha portato taluno) a ritenere che il legislatore non abbia avuto come punto di riferimento il cd. danno civile da reato, ma il cd. danno criminale, seguendo la linea teorica che distingue quest’ultimo come autonomo e lo individua nella lesione al bene giuridico (o ai beni giuridici) tutelati dalla norma penale incriminatrice, considerando la valutazione giudiziale dell’integralità della riparazione come giudizio di “riparazione proporzionata” alle esigenze di prevenzione e riprovazione del reato (recuperando quindi la formula già contenuta nella riparazione davanti al giudice di pace) ed enfatizzando conseguentemente una sua determinazione discrezionale inevitabilmente (e in gran parte) equitativa.

In questo modo, per chi sostiene questa tesi, si eviterebbe il pericolo (effettivamente sussistente) di aver creato un istituto premiale per il solo imputato benestante. Spunti, nel senso della divaricazione tra danno civile e danno criminale inteso in senso limitativo, sono poi stati tratti dalla sentenza della Corte di Cassazione (SU, 31 luglio 2015, n. 33864), che – risolvendo altro problema, quello della impugnabilità della sentenza che abbia dichiarato l’estinzione del reato per condotte riparatorie dinanzi al giudice di pace) – oltre ad argomenti squisitamente processuali, deduce come le valutazioni del giudice di pace in sede penale abbiano, in relazione al risarcimento del danno ai fini delle condotte riparatorie, un orizzonte di pacificazione sociale che, appunto, consente di ancorare tali valutazioni sul danno in senso del tutto peculiare e strettamente penalistico, così da ritenere che il danneggiato non sia legittimato a impugnare la sentenza perché in alcun modo pregiudicato dalle valutazioni civilistiche che dovranno essere effettuate. Sicuramente una opzione ermeneutica di questo tipo espone il giudice a un grado di responsabilità maggiore, senza fornire alcun parametro normativo sufficientemente determinato e anzi esponendolo al rischio di venire ‘accusato’ di interpretazioni abroganti e ideologicamente orientate dell’avverbio “integralmente” aggiunto espressamente dal legislatore a proposito della causa estintiva di nuova introduzione.

Da quanto precede sembra emergere la poco tranquillizzante conclusione che la sorte dell’istituto sia legata ad atteggiamenti, scarsamente prevedibili, della giurisprudenza e, conseguentemente, alla formazione di un diritto pretorio che non può che preoccupare dal punto di vista del principio di legalità processuale.

Infatti, si aprono a questo punto una serie di alternative tutte poco soddisfacenti e tutte in qualche modo praticabili: o si ritiene che l’apertura del dibattimento rappresenti il confine delle condotte riparatorie, ma non quella della pronuncia estintiva del giudice che può avvalersi quindi degli strumenti probatori del dibattimento per potervi pervenire, con buona pace della ratio deflattiva che costituisce una delle fondamenta del nuovo istituto; o di fatto si attribuisce una importanza decisiva al parere della persona offesa che, contrariamente a quella che è la volontà legislativa volta a superarne l’eventuale dissenso anche tramite offerta reale del risarcimento, diventerebbe essenziale, svuotando di qualsiasi pratico significato l’istituto, in considerazione della possibilità di ricorrere alla remissione della querela; oppure si enfatizza la discrezionalità equitativa della valutazione giudiziale (specie interpretando l’integrale riparazione come riferita al danno criminale in senso stretto, esaltando le possibilità dell’istituto, ma nuocendo inevitabilmente alla ponderatezza della decisione con il rischio di pregiudicare la vittima e di riconoscere la causa estintiva in assenza di condotte effettivamente riparatorie, per ciò stesso scarsamente significative del recupero del reo, con conseguente enorme responsabilità del giudice e sua sovra-esposizione; oppure si fa dipendere la sorte dell’istituto dal concreto contesto e fase procedimentale in cui avviene la pronuncia e che, per come conformata in astratta e attuata in concreto, rende disponibili più ricchi elementi di determinazione quantitativa del danno; oppure ancora si ritiene ammissibile ricorrere a mezzi di accertamento del danno non previsti espressamente dal legislatore, adattando le norme processuali per altre fasi con rischio di travolgere il principio di legalità processuale.

L’unico dato certo di tali ambiguità terminologiche e vaghezze procedimentali della disciplina legislativa sul punto in discussione, sembra un notevole (e, in qualche modo, inaccettabile) sovraccarico di responsabilità del giudice, che dovrà inevitabilmente fare scelte che istituzionalmente sarebbero state di competenza del soggetto politico e assumersi il peso, sia disciplinare che di sovra-esposizione mediatica, di dover prendere decisioni per risolvere i casi concreti senza la predisposizione legislativa di adeguati strumenti di acquisizione degli elementi a ciò necessari. Il recente caso torinese relativo al reato di atti vessatori, sembra significativo, tanto che non si sono fatte attendere reazioni con le quali si è lamentata addirittura un “tradimento” dello “spirito della legge” – evocando categorie montesquieuiane che, in questo contesto, evocano ulteriori “significanti vuoti” che si aggiungono a quelli già presenti – e, more solito, si annunciano iniziative legislative volte a escludere tali applicazioni.

La situazione risulta, del resto, effettivamente delicata – e forse ancor più complessa – ove si tenga presente che le scelte interpretative e applicative possono incidere sugli obblighi sovra-nazionali di protezione delle vittime (sia dal punto di vista comunitario, delle relative norme in materia quali interpretate dalla Corte di Lussemburgo, sia da quelle convenzionali in materia di Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, quale emergente dalla giurisprudenza di Strasburgo che, da ultimo nella sentenza CEDU 13 giugno 2017, Kosteckas contro Lithuania, ha affermato come la responsabilità dello Stato, per l’inadempimento all’obbligo di protezione contro gli atti di aggressione, non può essere esclusa dal solo risarcimento del danno civile alle vittime.

In realtà, l’esempio dell’estinzione riparatoria del reato e le reazioni alle opzioni che si possono presentare alla disciplina introdotta, sembrano riflettere diverse modalità di interpretare il ruolo del giudice, quello classico di prudente attenzione al testo legislativo e di self restraint nell’esercizio dei propri poteri, e quello romantico, i cui legami con il Sessantotto sembrano intuibili, del giudice d’assalto, che colma i vuoti lasciati da una politica debole per compiere egli stesso scelte valoriali.

In entrambi i casi la posta in gioco è importante: la indipendenza della giurisdizione e, come dire, sembra particolarmente centrato parlarne in un convegno organizzato da chi su tale valore incentra la propria identificazione.
Gli eccessi di prudenza, infatti, possono portare a una giurisprudenza difensiva e a un regredire verso una concezione, non tanto burocratica di giudice “bocca della legge”, quanto piuttosto addirittura “impiegatizia” del proprio ruolo: un giudice spaventato dai rischi disciplinari che si preoccupa esclusivamente di garantire la propria carriera.
L’atteggiamento d’assalto della giurisprudenza espansionista si scontra, invece, con la mancanza di legittimazione politica della funzione e con l’inaccettabilità di una situazione che consentirebbe scelte politiche irresponsabili, con la conseguenza che prima o poi – ma sembra che ciò stia già avvenendo – qualcuno presenti il conto, e richieda di ampliare i casi di responsabilità disciplinare fino a impingere le scelte interpretative, proprio perché sono meno tali.

Le conseguenze estreme dell’onda lunga del Sessantotto sembrano pertanto quelle di spingere verso una degenerazione del ruolo della giurisdizione verso gli esiti opposti del “giudice impiegato dello Stato” o del “giudice politico d’assalto”, in entrambi i casi mettendo a repentaglio il valore fondamentale dell’indipendenza giudiziaria che rischia di comprometterne il valore costituzionale essenziale di garanzia a-maggioritaria nell’applicazione della legge.

 
 
 
 
 
 

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