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LAVORO

Il giudizio previdenziale dopo la sentenza n. 241 del 2017 della Consulta: alla ricerca del “valore perduto” della prestazione previdenziale tra (ir)ragionevolezza delle norme e difficoltà applicative.

  Lavoro 
 mercoledì, 4 aprile 2018

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Emanuele Quadraccia, Giudice del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto

 
 

 

 

Con ordinanza del 6 marzo 2015 la Corte d'appello di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'ultimo periodo dell'art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall'art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che, nei giudizi per prestazioni previdenziali, sanziona, con l'inammissibilità del ricorso, l'omessa indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, il cui importo deve essere specificato nelle conclusioni dell'atto introduttivo.

I giudici della Consulta, con la sentenza n. 241 del 20 novembre 2017, riconoscendo l’eccessiva gravità della sanzione (e delle sue conseguenze) rispetto al fine perseguito, hanno ritenuto la manifesta irragionevolezza della norma in esame.

In particolare, la Corte, soffermandosi sul controllo di costituzionalità in materia di istituti processuali, ha evidenziato le difficoltà che emergono allorquando si guardi alla fattispecie denunciata attraverso il prisma della ragionevolezza. Difficoltà, queste, che nell’ambito del peculiare giudizio costituzionale in rassegna discendono dal fatto che la valutazione di conformità/difformità è effettuata in relazione a valori e principi, ovverosia ad enunciati con un contenuto normativo di un livello di generalità molto alto, e, dunque, potenzialmente aperti a molteplici e varie declinazioni. Di talché, siffatto riscontro deve essere compiuto verificando «che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988)»[1].

Orbene, secondo il Giudice delle leggi l'ultima parte dell'art. 152 disp. att. cod. proc. civ., oggetto di censura, deve essere letta congiuntamente alla previsione del capoverso immediatamente precedente, introdotto dall'art. 52 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che stabilisce che il giudice, nei giudizi per prestazioni previdenziali, non può liquidare spese, competenze ed onorari superiori al valore della prestazione dedotta in giudizio.

Il nesso che lega i due periodi - secondo il ragionamento della Corte - è di perspicua chiarezza e la ratio sottesa al complessivo intervento normativo «va ricercata nell'esigenza di evitare l'utilizzo abusivo del processo che, in materia previdenziale, veniva spesso instaurato per soddisfare pretese di valore economico irrisorio, al solo fine di conseguire le spese di lite»[2]. Ed invero, prosegue il giudice costituzionale, «nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) si chiarisce che l'obbligo di dichiarare il valore della prestazione ha lo scopo di commisurare a tale valore il limite massimo alla liquidazione delle spese processuali (già introdotto dalla legge n. 69 del 2009), intendendosi così “scoraggiare fenomeni elusivi consistenti nella prassi di non quantificare il petitum, limitandosi a richiedere un accertamento generico ovvero indicando valori generici o richieste non sufficientemente quantificate” ed evidentemente pretestuose»[3].

In conclusione, entrambe le disposizioni in esame mirano a deflazionare il contenzioso c.d. “bagatellare”, ma, ad avviso della Corte, siffatto obiettivo è pienamente raggiunto mediante la (sola) previsione della necessaria (per il giudice) parametrazione delle spese al «valore della prestazione dedotta in giudizio», con divieto (sempre per il giudice) di effettuare liquidazioni ad esso superiori. E ciò in quanto - ed è questo il punto focale di questo nostro intervento - detta parametrazione opera nel momento della liquidazione delle spese di lite, quando dunque, a conclusione della controversia, «il giudice conosce il valore della controversia. Pertanto egli non avrà bisogno della quantificazione contenuta nell’atto introduttivo, ma sarà sottoposto al vincolo derivante dal limite legale imposto dalla liquidazione. L’effetto deflattivo a cui mira il suddetto limite è, comunque, conseguito ed è idoneo a scoraggiare l’instaurarsi di liti pretestuose»[4].

Le premesse da cui muove il ragionamento della Corte assumono, a ben vedere, una condivisibile connotazione assiologica: il contrasto all’abuso del processo è già efficacemente realizzato dalla disciplina introdotta dalla novella di cui all’art. 52 della legge n. 69 del 2009. Sanzionare, allora, con lo stigma dell’inammissibilità il ricorso privo della dichiarazione del valore (e della quantificazione dell’importo) della prestazione dedotta in giudizio varrebbe ad integrare una penalizzazione irragionevole e sproporzionata a fronte di un mancato adempimento di rilevanza meramente formale, eccedente rispetto al fine perseguito dal legislatore.

È trasponendo però sul piano applicativo il canone ermeneutico appena enunciato che si appalesano, per l’interprete, innegabili problemi.

Da un lato, infatti, il generale contesto normativo in cui si inserisce il contenzioso previdenziale è noto: la c.d. “giungla normativa”[5] che nel corso degli anni si è venuta a determinare in subiecta materia attraverso la stratificazione di norme di legge, aggiunte nel tempo con reiterati e spesso ravvicinati interventi del legislatore (a volte tampoco coordinati ed armonizzati con la normativa preesistente), ha dato vita ad un quadro giuridico intricato, frammentato, incoerente e farraginoso.

Dall’altro, l’evoluzione, negli ultimi decenni, della struttura demografica ed occupazionale del nostro Paese ha avuto come più tangibile conseguenza una significativa impennata delle domande di protezione sociale che vedono come destinatario il sistema pubblico di welfare.

La combinazione dei due ingredienti dà vita ad un sistema difficilmente governabile anche per l’operatore giuridico più accorto e preparato (giudice, avvocato, consulente).

Per tornare all’oggetto della nostra analisi, si pensi, in concreto, al momento in cui il giudice, all’esito della controversia, è chiamato a liquidare le spese ed i compensi ed a parametrarli al valore della “prestazione dedotta in giudizio”.

Si tenga a mente, quindi, la molteplicità di prestazioni assicurative ed assistenziali contemplate dal legislatore, riflettendo, tra l’altro, sull’assonanza, anche lessicale, tra molte di esse: assegno mensile (art. 13, l. n. 118/1971), assegno ordinario di invalidità (art. 1, l. n. 222/1984), assegno sociale (art. 3, co. 6, l. n. 335/1995), pensione di inabilità (art. 12, l. n. 118/1971), pensione ordinaria di inabilità (art. 2, l. n. 222/1984), pensione di vecchiaia anticipata (art. 1, co. 8, d.lgs. n. 503/1992), pensione ai superstiti (art. 13, l. n. 218/1952), pensione ai superstiti in favore di soggetti maggiorenni inabili (art. 13, r.d.l. n. 636/1939), pensione per ciechi assoluti (art. 7, l. n. 66/1962), pensione per ciechi parziali (art. 8, l. n. 66/1962), speciale indennità per ciechi parziali (art. 3, l. n. 508/1988), pensione non reversibile a favore delle persone sorde (art. 1, l. n. 381/1970 e art. 14 septies, d.l. n. 663/1979), indennità di comunicazione in favore dei sordi prelinguali (art. 4, l. n. 508/1988),  indennità di accompagnamento (art. 1, l. n. 18/1980), indennità di accompagnamento per ciechi assoluti (art. 1, l. n. 406/1968), ecc.[6]. Si consideri inoltre che, alle volte, il contenzioso previdenziale non ha ad oggetto vere e proprie “prestazioni”, bensì l’accertamento di status: di portatore di handicap (art. 3, co. 1, l. n. 104/1992), di handicap grave (art. 3, co. 3, l. n. 104/1992), di handicap superiore ai due terzi (art. 21, l. n. 104/1992), ecc.. Si tenga ancora presente come, all’esito del giudizio, possa essere riconosciuto alla parte istante il diritto a percepire una data prestazione - il cui valore aggiornato non si desume peraltro dalla lettera della legge, per essere questa ancorata, nella maggior parte dei casi, a valori espressi, in lire, all’epoca dell’entrata in vigore - con retrodatazione della stessa finanche al momento della presentazione, (diverso) tempo prima, dell’istanza amministrativa.

Alla luce di quanto precede, considerato, a titolo esemplificativo, un ricorso giurisdizionale finalizzato ad ottenere la pensione di inabilità ex art. 12, legge n. 118 del 1971 («Ai mutilati ed invalidi civili di età superiore agli anni 18, nei cui confronti, in sede di visita medico-sanitaria, sia accertata una totale inabilità lavorativa, è concessa a carico dello Stato e a cura del Ministero dell'interno, una pensione di inabilità di lire 234.000 annue da ripartire in tredici mensilità con decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda per l'accertamento dell'inabilità. […]. La pensione è corrisposta nella misura del 50 per cento a coloro che versino in stato di indigenza e siano ricoverati permanentemente in istituti a carattere pubblico che provvedono alla loro assistenza. A coloro che fruiscono di pensioni o rendite di qualsiasi natura o provenienza di importo inferiore alle lire 18.000 mensili, la pensione e ridotta in misura corrispondente all'importo delle rendite, prestazioni e redditi percepiti. Con la mensilità relativa al mese di dicembre è concessa una tredicesima mensilità di lire 18.000, che è frazionabile in relazione alle mensilità corrisposte nell'anno. […].») ed ipotizzato, come è possibile, che all’esito della controversia venga accertato il diritto dell’istante a percepire il beneficio in questione sin dall’epoca della domanda presentata in sede amministrativa (ad es., il 31.12.2014), v’è da chiedersi quali siano gli strumenti attraverso i quali il giudice possa valutare, in concreto, il valore della prestazione (e dei relativi accessori) al fine di non eccedere, nella liquidazione delle spese, la soglia prevista dall’art. 152 disp. att. c.p.c., penultimo periodo.

A parere di chi scrive, non ve ne sono.

E le ricadute applicative della situazione venutasi a determinare sono tangibili. L’empirico districarsi dell’interprete nel labirinto previdenziale può infatti condurre, nel tentativo di individuare il corretto “valore della prestazione” cui ancorare la liquidazione di spese e compensi, ad errori di calcolo, specie nell’ipotesi, non così infrequente, di passaggio da uno all’altro dei parametri numerici (più noti come “scaglioni”) di cui alla Tabella allegata al d.m. Giustizia del 10 marzo 2014, n. 55[7].

Giungendo a conclusione dalle considerazioni innanzi svolte, deve senz’altro ritenersi corretto l’obiettivo, efficacemente perseguito dalla Corte con la decisione in esame, di centrare un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra la garanzia dell’accesso alla tutela giurisdizionale e la sua effettività, da una parte, e la necessità, dall’altra, di arginare eventuali fenomeni di strumentalizzazione del processo.

Il problema, di chiara matrice legislativa, viene però spostato, sugli attori del processo, giudici ed avvocati, chiamati insieme, in nome del convergente obiettivo di rispetto della legalità, ad una picaresca ricerca del “valore perduto”.

Anche per questa via si leva dunque la voce per un impellente e necessario riassetto dell’intera materia previdenziale.

Barcellona Pozzo di Gotto, lì 24.03.2018

(di Emanuele Quadraccia)

 

 

 

 


[1] Corte Cost., 30 aprile 2015, n. 71.

[2] Cfr., § 9 del “Considerato in diritto”.

[3] Così, ibidem.

[4] Idem.

[5] L’espressione, icastica, viene di sovente utilizzata per definire l’ipertrofia legislativa in materia previdenziale e, più in generale, lavoristica (cfr., in dottrina, ex aliis, Pisani, Norme fondamentali di diritto del lavoro, Torino, 2014, VII; in giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., 14 luglio 2008, n. 19299, Cass. civ., sez. lav., 12 giugno 1987, n. 518, Trib. Roma, sez. lav., 19 maggio 2009, n. 8990).  

[6] Per un’approfondita casistica, si rimanda a Mesiti, Manuale di diritto previdenziale, Milano, 2014, 187 ss..

[7] Per avere un’idea di ciò che questo comporta, basti considerare che, nelle cause di previdenza, il passaggio dal primo scaglione di valore (da € 0,01 a € 1.100,00) al secondo (da € 1.100,01 a € 5.200,00), conduce, in termini di compensi medi liquidabili, ad un incremento degli importi riconoscibili al difensore di quasi quattro volte l’ammontare complessivo, formato dalla somma di tutte e quattro le fasi della controversia (si passa, infatti, da € 645,00 ad € 2.495,00).

 

 
 
 
 
 
 

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