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PENALE

Il nuovo delitto di “diffusione di intercettazioni fraudolente”

  Penale 
 venerdì, 27 aprile 2018

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Cesare Parodi, Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Torino

 
 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2 La categoria “intercettazioni” e l’oggetto della fattispecie. - 3 Elemento soggettivo del reato e cause di esclusione della punibilità. - 4 La procedibilità


1. Premessa

Tra i pochi articoli entrati in vigore con l’approvazione del d.lgs. 216/2017 troviamo quello che contiene l’introduzione di una nuova fattispecie penale, la cui struttura generale era stata delineata con notevole precisione in sede di delega; una disposizione evidentemente valutata come urgente e destinata a intervenire su una serie di fenomeni di costume che negli ultimi anni hanno impegnato, forse impropriamente e a volte senza effettive ragioni, le cronache giudiziarie (e non solo quelle).
Recita l’art. 617-septies. Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente “Chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni.
La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa.”
Si deve in primo luogo sottolineare la scelta di qualificare il nuovo reato come delitto, punito con la reclusione sino a quattro anni. Una pena elevata, anche se non tale da determinare la necessità dell’udienza preliminare in caso di esercizio dell’azione penale.
Un reato che non può costituire presupposto – vista la pena – della misura della custodia in carcere ma che, in quanto delitto, non ammetterà la definizione a mezzo di oblazione ex art. 162-bis c.p.p. È ammessa, al contrario, la messa alla prova. È verosimile che si sia voluto evitare una soluzione semplice e tombale dei procedimenti aventi ad oggetto il nuovo reato, per differenziare il nuovo profilo di tutela rispetto a quanto normalmente accade – in tema di potenziale attacco alla sfera di riservatezza – a fronte di condotte sanzionate dalla contravvenzione di cui art. 684 c.p. (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale), per il quale è ammessa l’oblazione.
Non sono mancate le critiche sulla previsione della nuova fattispecie, che è indicata come foriera di una possibile significativa limitazione della possibilità di documentare condotte genericamente qualificabili di spiccato interesse (di varia potenziale natura). In realtà, come vedremo, l’effettiva portata dalla norma potrebbe rilevarsi di singolare modestia.
La condotta non è indicata quale semplice comunicazione, quanto come diffusione. Un termine, non a caso, mutuato da una fattispecie che è stata già applicata per sanzionare condotte analoghe a quelle descritte nella delega, ossia quella di cui all’art. 167, d.lgs. 196/2003.
Per altro, il trattamento dei dati personali, che non siano sensibili né abbiano carattere giudiziario, effettuato da un soggetto privato per fini esclusivamente personali sarebbe soggetto alle disposizioni del citato decreto solo se i dati siano destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione e sarebbe, in tal caso, subordinato al consenso dell'interessato, salvo che il trattamento riguardi dati provenienti da pubblici registri od elenchi conoscibili da chiunque (Cass. Sez. III, n. 5728, 17.11.2004, CED 230834; affermando tale principio la S.C. ha ritenuto che l'aver comunicato ad alcuni provider le generalità, l'indirizzo, ivi compreso quello di posta elettronica, il numero di telefono e il codice fiscale di una persona senza il suo consenso, al fine di aprire un sito internet e tre nuovi indirizzi di posta elettronica a nome di tale persona, non integra il reato di cui all'art. 167, comma 1, d.lgs. n. 196/2003).

2. La categoria “intercettazioni” e l’oggetto della fattispecie.

Nonostante la delega di cui alla l. 103/2017 avesse quale oggetto la disciplina delle intercettazioni, si può ragionevolmente ritenere che le condotte descritte nella fattispecie non possono essere qualificate – in senso tecnico – come intercettazioni.
La possibilità di intercettare (lecitamente) e quindi di essere intercettati finisce per riflettersi, per differenti aspetti, sulla concreta fruizione di diritti riconosciuti della Carta costituzionale. Prioritaria, in tal senso, la valutazione sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione (art. 21, comma 1, Cost.), atteso che la comunicazione e lo scambio dei pensieri e parole costituiscono ovviamente la prima e irrinunciabile forma di rapporto interpersonale.
Anche per tali ragioni emerge la necessità di delineare con particolare rigore quelle attività investigative che, nell’ambito del genus ricerca della prova certamente devono essere ricondotte alla species intercettazione, prevista e disciplinata dagli art. 266 ss. c.p.p.; una species della quale non è prevista nel codice una definizione espressa che, per altro, può e deve essere dedotta dal contesto normativo nel quale il concetto risulta inserito.
Al proposito, nei seguenti termini si possono enucleare le caratteristiche peculiari dell’intercettazione:
• deve trattarsi di una comunicazione riservata, avvenuta sia per via telefonica (o altre telecomunicazioni) che tra soggetti presenti;
• deve trattarsi di una captazione clandestina di comunicazioni o conversazioni;
• deve essere effettuata da un soggetto estraneo – id est terzo – rispetto agli autori delle comunicazioni o conversazione;
• la formalizzazione dell’apprensione del contenuto di comunicazioni o conversazioni deve avvenire come conseguenza dell’atto di intercettazione.
La ratio della disciplina è, inoltre, del tutto svincolata dall’esigenza che l’attività si svolga tramite l’utilizzo di specifiche tecnologie, dovendosi ritenere del tutto sufficiente un qualsiasi apparato in grado di “fissare” l’evento comunicazione, onde consentirne una prova storica diretta, come tale del tutto indipendente dalla capacità di ricostruzione e/o narrazione di soggetti terzi.
Il requisito della clandestinità deve essere verificato in relazione alle categorie generali di situazioni in rapporto con il requisito della riservatezza: la captazione delle comunicazioni o conversazioni deve avvenire approfittando dello strumento utilizzato dai soggetti intercettati, ossia di un mezzo di comunicazione ontologicamente tale da assicurare la riservatezza della trasmissione.
In questo senso, certamente chi utilizza un sistema di telefonia fissa o mobile agisce con la legittima aspettativa di poter comunicare senza che soggetti terzi possano prendere cognizione di quanto riferito o appreso; questa valutazione non viene certamente meno per il solo fatto che sia  nota la possibilità d’interferenze occasionali accidentali; interferenze che, per quanto in astratto possibili, non incidono verosimilmente sulla volontà di comunicare in un ambito riservato da parte di un soggetto.
L’uso del telefono è, quindi, espressivo di una volontà inequivoca di escludere i terzi, così che qualsiasi forma di intenzionale presa di cognizione di tali forme di comunicazione – per non essere ricondotta alla fattispecie prevista dall’art. 617, comma 1, c.p. (Cognizione, interruzione o impedimento illecito di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche) ed eventualmente alle ulteriori ipotesi previste dalla sez. V, capo III del secondo libro del codice penale – dovrà essere autorizzata con le forme previste dagli artt. 266 ss. c.p.p.
La clandestinità e la riservatezza possono essere prese reciprocamente in considerazione anche in rapporto a comunicazioni orali tra soggetti presenti, anche se in tal caso occorre verificare alcune variabili, quali la natura del luogo ovvero le stesse modalità di comunicazione utilizzate dai soggetti passivi della captazione.
Per altro, non è solo e necessariamente lo svolgimento in un luogo pubblico di una conversazione a renderla possibile oggetto di intercettazione: una conversazione può infatti essere non riservata – ossia svolgersi pubblicamente – e nondimeno essere clandestinamente captata, ogni qual volta la presa di conoscenza derivi dall’utilizzo di strumenti particolari da parte di soggetti che non si erano venuti a trovare nella condizione di poter ascoltare con l’implicito consenso degli autori della stessa.
L’intercettazione deve essere effettuata da un soggetto estraneo rispetto agli autori delle comunicazioni o conversazione. Nei casi sopra menzionati, proprio l’intrinseca ricerca di riservatezza porta con facilità a escludere i soggetti “terzi” rispetto alle comunicazioni tra quelli che possono legittimamente disporre del contenuto delle stesse.
L’oggetto della delega impone di valutare in termini generali se e in quali termini un soggetto al quale la comunicazione sia destinata – ovvero a uno degli autori di una conversazione – possa legittimamente “documentare” con strumenti tecnici all’insaputa del proprio interlocutore – e verosimilmente contro la volontà di questi – l’esatto contenuto del colloquio.
La giurisprudenza maggioritaria della S.C. ha riconosciuto non solo l’assoluta legittimità di tali comportamenti ma soprattutto la natura di documenti degli esiti di tali registrazioni; l’art. 234, comma 1, c.p.p. prevede che «È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo»; si tratta di un articolo inserito nel titolo riguardante i mezzi di prova, laddove le disposizioni in tema di intercettazioni (artt. 266 ss. c.c.p.), sono ricomprese nel titolo III, con oggetto i mezzi di ricerca della prova.
Ragioni di ordine logico-sistematico derivanti da questo particolare impongono quindi di individuare la differenza ontologica tra i due istituti; documenti, sequestri, ispezioni, perquisizioni sono diretti a far entrare nel procedimento prove che esistono al di fuori del medesimo e, si può ritenere, a prescindere da questo; la realtà esterna al dato formale viene recuperata con le forme di legge se e nella misura in cui assume una valenza probatoria. Al contrario l’intercettazione forma un materiale probatorio che non preesiste al procedimento e che si sostanzia – nelle sue materialità – solo a seguito di una serie tassativa di atti giurisdizionali.
Il legislatore ha dato attuazione alla delega sanzionando la condotta di chiunque «diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione».
Rispetto alla delega, possiamo notare due differenze; da un lato, sono state menzionate espressamente anche le conversazioni telematiche; inoltre, all’indicazione «svolte in sua presenza» è stato aggiunto «o con la sua partecipazione».
Il primo aspetto non modifica sostanzialmente la portata della norma. Nel secondo caso, è invece evidente l’intenzione del legislatore di estendere la portata della disposizione, verosimilmente includendo tra i potenziali autori del reato soggetti che, utilizzando strumenti tecnologici, siano presenti, anche se non direttamente coinvolti in conversazioni.
Il senso e la finalità della norma sono chiari; meno, forse, le implicazioni pratiche. Frequenti e rilevanti sono i casi in cui privati cittadini – che assumono di essere persone offesa di reati, o che comunque intendono portare all’attenzione dell’autorità giudiziaria fatti penalmente rilevanti – procedono a registrare conversazioni intercorse con gli autori dei presunti illeciti.
A volte, la registrazione avviene a fronte di iniziative degli interlocutori, come nel caso di soggetti vittime di telefonate anonime ovvero di richieste estorsive che decidono di predisporre strumenti idonei a documentare tali contatti nel momento in cui gli stessi si ripetono; in altri casi tali conversazioni vengono “stimolate” dalle persone offese, che agiscono nella convinzione di dare fondatezza ad accuse gravi ovvero a richieste apparentemente infondate, corredando quindi le denunce con le bobine così formate. Tali attività devono ritenersi a tutt’oggi, se predisposte e realizzate da privati, in linea di massima assolutamente lecite, ammissibili e pienamente utilizzabili in chiave probatoria.
Le comunicazioni orali tra soggetti presenti, ove le stesse siano registrate su tracce magnetiche o altro supporto – anche se effettuate all’insaputa dell’interlocutore – devono ritenersi attività logicamente non riconducibili alla categoria intercettazione; come già evidenziato, la registrazione costituisce in effetti documento fonografico ex art. 234 c.p.p., la cui trascrizione potrà essere disposta – ove ritenute lecita – dal giudice nelle forme peritali certamente utilizzabili a prescindere da provvedimenti autorizzativi dell’autorità giudiziaria o dalla formalizzazione in verbali; in particolare l’art. 242, comma 2, c.p.p. dispone che «quando è acquisito un nastro magnetofonico, il giudice ne dispone, se necessario, la trascrizione».
Sul tema, le S.U. hanno chiarito che le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss. c.p.p. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l'intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. Conseguentemente, la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non deve essere ricondotta, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, costituendo forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa (Cass. S.U, n. 36747, 28.5.2003, CED 225465; conf. Cass. Sez. II, n. 3851, 21.10.2016, CED 269089).
Ancora la S.C., ribadendo tale principio, ha specificato che lo stesso non viene meno per la circostanza che l'autore della registrazione abbia previamente denunciato fatti di cui sia vittima, né può ritenersi che per ciò solo le successive registrazioni realizzate dal denunciante con il proprio cellulare fossero state concordate con la polizia giudiziaria (Cass. Sez. I, n. 6339, 22.1.2013, CED 254814; conf. Cass. sez. II, n. 50986, 6/10/2016, CED 268730; in motivazione, la Corte ha precisato che la registrazione della conversazione tra presenti non è riconducibile alla nozione di intercettazione anche se operata dal soggetto partecipe su suggerimento o incarico della polizia giudiziaria).
In tempi recenti non sono mancate decisioni di senso contrario; la S.C. ha così affermato che la registrazione di conversazioni effettuata da un privato su impulso della polizia giudiziaria non costituisce una forma di documentazione dei contenuti del dialogo ma una vera e propria attività investigativa che comprime il diritto alla segretezza con finalità di accertamento processuale, che richiede un provvedimento dell'autorità giudiziaria ovvero un decreto motivato in forma scritta del P.M. (Cass. Sez. II, n. 19158, 20.3.2015, CED 263526; fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto non sufficiente ai fini dell'utilizzabilità delle registrazioni la mera autorizzazione orale del P.M.). In termini ancora più stringenti, si è ritenuto che la registrazione di conversazioni effettuata da un privato, mediante apparecchio collegato con postazioni ricetrasmittenti attraverso le quali la P.G. procede all'ascolto delle stesse e alla contestuale memorizzazione, non costituirebbe una mera forma di documentazione dei contenuti del dialogo né una semplice attività investigativa, bensì un'operazione di intercettazione di conversazioni ad opera di terzi, come tale soggetta alla disciplina autorizzativa dettata dagli artt. 266 ss. c.p.p., con la conseguente inutilizzabilità probatoria di tale registrazione, ove preceduta dalla sola autorizzazione del P.M. (Cass. Sez. III, n. 39378, 23.3.2016, CED 267806).
Resta il fatto che il diritto alla riservatezza e segretezza delle comunicazioni telefoniche, costituzionalmente garantito dall'art. 15 Cost., non impedisce alla persona destinataria della comunicazione stessa di rivelarne il contenuto in occasione di deposizione testimoniale, il cui unico limite deve essere rinvenuto nel carattere di segretezza (professionale, di ufficio o di Stato) della comunicazione stessa.
Nel momento in cui una comunicazione orale è effettuata, la stessa perde immediatamente ogni connotazione di segretezza, stante l’implicita rinuncia dell’autore al diritto alla riservatezza sulla stessa; al proposito è sufficiente ricordare che la stessa può legittimamente divenire oggetto di esame testimoniale e che un teste di particolare capacità mnemoniche può riportare nel dettaglio (addirittura utilizzando le stesse espressione) l’intero contenuto della conversazione intercorsa, giungendo quindi in sostanza al medesimo risultato.

3. Elemento soggettivo del reato e cause di esclusione della punibilità

Sul piano della condotta, qualsiasi captazione/registrazione fraudolenta rientra nell’ambito della nuova fattispecie. Il termine fraudolenta – non infrequentemente utilizzato dal legislatore – presuppone un’attivazione oggettivamente occulta e, sostanzialmente, “maliziosa” in danno di altro soggetto.  Pertanto, non tutto ciò che l’interlocutore non sa che è posto in essere, ma ciò che l’autore della condotta non vuole che l’interlocutore percepisca. In questo senso, una registrazione all’insaputa delle parti, ma occasionale, verosimilmente non dovrebbe integrare la condotta punita (es. attivazione inconsapevole di un microfono).
Indubbiamente differente è il caso in cui tali attività avvengano dopo un contatto con la polizia giudiziaria, su suggerimento ovvero previo accordo con quest’ultima, o addirittura direttamente da parte di operatori di polizia giudiziaria, nei casi e nei limiti in cui ciò può ritenersi consentito. Situazioni per le quali, evidentemente, la finalità di giustizia impone una valutazione specifica sulla base delle numerose indicazioni fornite dalla S.C. (nei termini e con i dubbi ermeneutici sopra richiamati).
Tornando alle situazioni potenzialmente oggetto della disciplina prevista dalla delega, fondamentale tuttavia è l’indicazione sull’elemento soggettivo della fattispecie «al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui». Un dolo quindi, che era indicato come specifico.
La finalità di danno avrebbe dovuto essere pertanto esclusiva e non “concorrente” con altre finalità lecite o scriminate. Al contrario, con il d.lgs.216/2017, il termine solo è stato espunto, così che il fine di recare danno può concorrere con altre – lecite e differenti – finalità; in questo senso, la norma utilizza la formula «al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine».
Per altro, la relazione alla legge precisa che «La punibilità risulta essere comunque esclusa nel caso in cui della registrazione effettuata senza consenso si possa fare uso legittimo in ambito processuale, quale esercizio del diritto di difesa ovvero nell’ambito del diritto di cronaca, che la legge delega fa espressamente salvi. Ciò significa che determinate comunicazioni possono avere diffusione se sussistono i presupposti del legittimo esercizio del diritto di cronaca, inteso come diritto alla pubblica conoscenza per effetto della rilevanza del fatto e dei soggetti coinvolti, sempre nei limiti del principio della continenza».
Il legislatore, in questo senso in assoluta sintonia con la delega, ha mantenuto una generale connotazione “negativa” delle condotte descritte, stabilendo che le stesse integrerebbero un reato, prevedendo tuttavia alcune condizioni di non punibilità. Il fatto tipico sussisterebbe, ma l’autore della condotta dovrà essere considerato non punibile laddove le registrazioni o le riprese siano utilizzate:
• nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario;
• per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca.
Il richiamo espresso al diritto di difesa o di cronaca è certamente utile ai fini della chiarezza, anche se in ogni modo, anche senza lo stesso, le condotte descritte sarebbero state comunque scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p. (Esercizio di un diritto o adempimento del dovere).
Anche in questo caso è interessante richiamare la disciplina del d.lgs. 196/2003 in tema di tutela della riservatezza. Com’è noto, il principio generale in tema di consenso è espresso dall’art. 23 del predetto decreto, in base al quale «Il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato». Nondimeno, sarà necessario tenere con delle esclusioni indicate dall’art. 24 (Casi nei quali può essere effettuato il trattamento senza consenso), che riguardano casi nei quali il consenso non è richiesto quando il trattamento.
Una rapida disamina della disciplina del menzionato art. 24 consente di ritenere che in tutti i casi di registrazioni o riprese siano anche solo in parte funzionali alle esigenze dell’autore delle stesse «nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario» o comunque «per l’esercizio del diritto di difesa» la punibilità dovrà essere esclusa. Sono pertanto infondati i timori relativi a una compressione di forme di autotutela dei privati (dirette o tramite soggetti qualificati) tali da sostanziarsi nella formazione di prove documentali genericamente finalizzate alla tutela di diritti e interesse, e non necessariamente solo in sede giudiziaria.
In questo senso si è vanamente auspicata, in sede di attuazione della delega, l’indicazione dei limiti e della portata del diritto di difesa. Al riguardo, sarebbe stato utile la precisazione di quanto “anticipata” cronologicamente possa ritenersi l’operatività della scriminante rispetto alla – ipotizzata o effettiva – lesione di un diritto.
Allo stesso modo, sarebbe stato utile avere indicazioni per comprendere se e in che termini la scriminante possa valere anche per le persone offese – oltre che per gli indagati/imputati – e in che termini possa essere delegata (e con quali forme) a soggetti diversi dagli stessi titolari dei diritti.
Il “terreno di scontro” è nondimeno destinato a essere quello della valutazione delle registrazioni o riprese utilizzate nell’ambito del diritto di cronaca.
Non possono esservi dubbi che forme e limiti dell’attività degli organi d’informazione siano stati uno dei motivi per giungere a un ripensamento del sistema. Da un lato – come abbiamo visto sopra – prevedendo un intervento sui meccanismi di selezione e controllo degli esiti delle captazioni, dall’altro ponendo dei “paletti” alla formazione di documenti sonori o visivi indubbiamente extraprocessuali la cui potenzialità lesiva non può certamente ritenersi aprioristicamente inferiore.
Basti pensare ai numerosi fuori onda carpiti prima o durante la registrazione di trasmissioni televisive, nelle quali il soggetto registrato si è espresso con – quantomeno – una franchezza maggiore di quanto poi dimostrato durante le riprese o, addirittura, si è lasciato andare o commenti ingenerosi nei confronti di altre persone. La diffusione di tali dichiarazioni in molti casi ha suscitato vivaci polemiche.
In realtà, l’intera materia non era – e non è –, prima dell’attuazione della delega, priva di una disciplina. Anche in questo caso occorra formulare riferimento al d.lgs. 196/2003 e ai provvedimenti integrativi di quest’ultimo. Stabilisce l’art. 12 del decreto (Codici di deontologia e di buona condotta) che il «Garante promuove nell'ambito delle categorie interessate, nell'osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sul trattamento di dati personali, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, ne verifica la conformità alle leggi e ai regolamenti anche attraverso l'esame di osservazioni di soggetti interessati e contribuisce a garantirne la diffusione e il rispetto».
Tali codici sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana a cura del Garante e il rispetto delle disposizioni contenute nei medesimi «costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici». Non a caso, l’art. 12 include espressamente tra i codici anche quello di deontologia per i trattamenti di dati per finalità giornalistiche promosso dal Garante nei modi di cui al comma 1 e all'articolo 139 del decreto.
Il codice vigente risale al 29 luglio 1998 (Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica) e, per espressa finalità, ha quella di «contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa».
Le potenzialità “espansive” delle nuove disposizioni, nondimeno, dovranno essere valutate in raffronto (anche, ma soprattutto) con le indicazioni dell’art. 6 del citato codice deontologico, diretto a precisare il concetto di essenzialità dell’informazione. Quest’ultimo stabilisce che “La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l'informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell'originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica.  Commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti”
Leggendo in termini coordinati la nuova fattispecie con le indicazioni dell’art. 6 del codice deontologico, si deve desumere che, pur essendo ogni registrazione o ripresa fraudolente in grado di integrare il reato, la causa di non punibilità del diritto di cronaca non opererebbe solo laddove non dovesse risultare neppure in termini concorrenti la finalità di informare su un fatto di rilievo il pubblico. E ciò anche quando tale diffusione delle informazioni possa rivelarsi nociva per il soggetto passivo della stessa.
Non solo: trattandosi di una circostanza di esclusione della pena, la scriminante del diritto di cronaca dovrebbe ritenersi applicabile anche ai sensi dell’art. 59, comma 4, c.p. (Circostanze non conosciute o erroneamente supposte) in forza del quale «Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo».
In concreto, se il “diffusore” della registrazione/ripresa effettua la diffusione stessa ritenendo – erroneamente – di avere esercitato un diritto di cronaca non sarà punibile, in quanto la qualificazione del nuovo reato come delitto non consente di ravvisare – non essendo specificamente indicata – una responsabilità a titolo di colpa.
Deve per altro ritenersi impregiudicata la possibilità, in quest’ultimo caso, di richiedere il risarcimento del danno, in base all’art. 15, d.lgs. 196/2003 (Danni cagionati per effetto del trattamento); norma per la quale «Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile».

4. La procedibilità

Infine, rispetto alle indicazioni della delega, in sede di attuazione è stata prevista la procedibilità a querela per il reato de quo. Precisa la relazione alla legge che «Il reato è procedibile a querela dell’offeso in maniera coerente con l’impianto della stessa legge di delega che impone di dare attuazione al principio generale della procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni».
Rispetto all’originario impianto della riforma, il testo approvato con la l. 103/2017 esprime una logica significativamente differente. Il principio di fondo è chiaro: una precisa volontà di deflazione e decongestione del sistema penale, da favorire nei casi in cui l'offesa all'interesse protetto dalla fattispecie criminosa, di per sé non gravissimo, sia ritenuto non meritevole di un procedimento se non su impulso di parte.

 
 
 
 
 
 

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