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PENALE

L’art 325 TFUE e il caso Taricco

  Penale 
 giovedì, 2 novembre 2017

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Andrea Venegoni, magistrato addetto all'ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione

 
 

 

 

E tuttavia non può non rimarcarsi come un nuovo intervento della Corte di Giustizia nel 2015 abbia in realtà confermato la bontà della scelta originaria della proposta della Commissione. Si tratta del notissimo “caso Taricco”; in estrema sintesi, uno dei principi che la Corte di Giustizia ha affermato in esso, decidendo una domanda di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Cuneo che doveva giudicare una frode iva, è che, quando una normativa nazionale in tema di prescrizione (nella specie, in tema di proroga della prescrizione) prevede dei termini tali da non permettere strutturalmente ai giudizi che riguardino gravi reati attinenti agli interessi finanziari dell’Unione (come le frodi iva) di giungere ad una conclusione di merito, ma di estinguersi appunto per prescrizione, la stessa va disapplicata dal giudice nazionale perché contrastante con l’obbligo degli Stati di tutelare le finanze dell’Unione come le proprie, derivante da una norma europea alla quale è riconosciuta diretta applicazione, proprio l’art. 325 TFUE. Nell’ottica della creazione del diritto penale dell’Unione, si tratta di una pronuncia di grande importanza, al di là delle pesanti critiche che la stessa ha ricevuto nella dottrina, e in sostanza anche nella giurisprudenza, italiana per i vari profili su cui essa incide, anche attinenti a principi fondamentali del nostro ordinamento. Va ricordato, infatti, che proprio la giurisprudenza ha dubitato della compatibilità dei principi emergenti da tale pronuncia con i principi fondamentali della nostra Costituzione, così da investire della questione la Corte Costituzionale. La decisione, infatti, oltre a ritenere applicabile tale principio ai processi in corso, in virtù dell’affermazione per cui la prescrizione attiene al diritto processuale e non a quello sostanziale, contiene poi altri profili di indubbia delicatezza. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo questa operazione non dovrebbe avvenire in ogni procedimento per frode comunitaria, ma solo laddove, esaminati casi analoghi attinenti a frodi serie, il giudice si convinca dell’esistenze di “deficit” strutturale dell’ordinamento italiano sul punto; una affermazione che, quindi, in sostanza – come è stato detto in maniera critica nella dottrina italiana - rischia di trasformare il giudice in legislatore, conferendogli il potere di decidere caso per caso quale normativa applicare. La Corte Costituzionale è stata fortemente tentata di sollevare, per la prima volta nella storia del nostro sistema, i c.d. “controlimiti”, teoria evocata fin dal 1973 ma mai concretamente applicata, tale per cui, se l’ordinamento italiano accetta, in virtù della partecipazione all’Unione Europea limitazioni alla propria sovranità e la penetrazione anche diretta di esso nel nostro sistema, tuttavia ciò incontra il c.d. controlimite della lesione dei principi  fondamentali dell’ordinamento, che la Corte Costituzionale si riserva appunto il potere di attivare. Nel caso di specie la Corte Costituzionale non ha (ancora) proceduto in tal modo, ma con una ordinanza del gennaio 2017, la n. 24, ha nuovamente investito la Corte di Giustizia di una richiesta di interpretazione della sentenza del 2015, peraltro preannunciando che, se la Corte di Giustizia non interverrà a precisare la portata di quanto affermato all’epoca, l’innalzamento dei suddetti controlimiti sarebbe inevitabile. Si tratterebbe di un contrasto eclatante tra ordinamento italiano e dell’Unione, mai giunti fino ad ora ad un simile livello di tensione.
Ritornando alla sentenza del 2015, tuttavia, ai fini del ristretto ambito della nostra analisi, occorre riconoscere che con essa la Corte ha attribuito uno straordinario valore all’art 325 TFUE perché se lo stesso è il parametro, avente anche efficacia diretta, in base al quale valutare la rispondenza della normativa nazionale ai principi di effettività e deterrenza delle sanzioni penali, se ne dovrebbe concludere che lo stesso non può non essere, a questo punto, anche la base legale per iniziative dell’Unione in diritto penale. IN questo senso, quindi, la posizione assunta dal Consiglio e del Parlamento in occasione dell’approvazione della c.d. direttiva PIF, sopra ricordata, appare superata da quella della Corte, la quale - come ha confermato l’avvocato generale nelle sue conclusioni del 18.7.2017 nel “secondo” procedimento che la vicenda Taricco ha determinato in seguito al rinvio pregiudiziale compiuto dalla Corte Costituzionale italiana - tende ad assicurare il primato del diritto dell’Unione, che non può essere messo in discussione neppure di fronte alla prospettazione di contrarietà dello stesso a determinati principi costituzionali nazionali, come, del resto, la Corte di Giustizia aveva già affermato in un caso in tema di mandato di arresto europeo, il caso Melloni (sentenza del 26.2.2013 nel caso C-399/11). Il primato del diritto dell’Unione è il requisito essenziale per la costruzione di quella area comune di giustizia penale europea che, come si è visto sopra, è uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione e non può recedere neppure di fronte a principi nazionali di rango costituzionale. Non si può, quindi, che restare in attesa della nuova pronuncia della Corte di Giustizia al riguardo, la quale susciterà certamente grandissimo interesse e scriverà una ulteriore pagina nei rapporti tra ordinamento italiano e quello dell’Unione. E’ significativo – e niente affatto casuale – che ciò avvenga proprio in questa fase di sviluppo del diritto penale europeo e, in particolare, nel campo della tutela degli interessi finanziari dell’Unione.

 

 

 
 
 
 
 
 

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