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PENALE

Le intercettazioni nei reati contro la pubblica amministrazione

  Penale 
 lunedì, 23 aprile 2018

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Cesare Parodi, Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Torino

 
 

 

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La semplificazione delle condizioni per l’impiego – 3. La modifica del reato presupposto – 4. Intercettazioni tra presenti e svolgimento dell’attività criminosa 5. Il coordinamento con la disciplina transitoria.

 

1-                      Premessa

 

Le nuove indicazioni in tema di intercettazioni nei procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione sono tra le poche immediatamente “operative” dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 216/2017.  La formula con la quale la legge ha individuato la terza finalità della delega – intesa come semplificazione delle condizioni per l'impiego delle intercettazioni in tema di reato contro la p.a.-  lasciava, per altro, spazio a alcune significative incertezze ermeneutiche ….. prevedere la semplificazione delle condizioni per l'impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione” ( così art. 1 comma 84 l. 103/2017)

In sede di attuazione della delega, il legislatore ha optato per una serie di indicazioni che, pure presentandosi apparentemente come chiare e lineari rispetto al pregresso “sistema intercettazioni”, lasciano aperte non poche problematiche sul piano interpretativo. 

Questo il testo dell’articolo 6 d.gs 216/2017: “Nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.  L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.”

Rispetto alle indicazioni della delega, è stata confermata espressamente, in relazione ai soggetti destinatari della nuova disciplina, l’indicazione ai soli pubblici ufficiali, così che nessun dubbio può porsi sull’applicabilità della norma agli incaricati di pubblico servizio e agli esercenti servizi di pubblica necessità.

Con riferimento alla definizione della categoria dei reati di maggiore gravità, per i quali la disciplina deve essere oggetto della semplificazione, il legislatore si è limitato a richiamare un criterio oggettivo, già espresso dalla formulazione originaria del codice, che difficilmente potrà portare a difficoltà sul piano delle applicazioni. Un criterio già contenuto nella disciplina specifica in tema di intercettazioni, laddove l’art. 266, comma 1, lett. b) c.p.p. consente le captazioni per i «delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell'articolo 4».

Un criterio, per altro, esclude della possibilità di intercettazione i delitti di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) e di rifiuto o omissione di atti di ufficio (art. 328 c.p.), certamente di non secondario rilievo sul piano della percezione del disvalore sociale.

Sul piano sistematico, si deve rilevare che il principio contenuto nel secondo comma sopra riportato - in ordine ai limiti di utilizzo del captatore informatico nell’ambito della semplificazione prevista per le intercettazioni in materia di reati contro la P.A. - impone di ritenere che tale strumento, anche per i delitti contro la pubblica amministrazione, potrà essere utilizzato:

· per le intercettazioni “ordinarie”;

· per le intercettazioni tra presenti nei luoghi diversi da quelli di cui all’art. 614 c.p.;

· per le intercettazioni nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. se vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.

 

2-                      La semplificazione delle condizioni per l’impiego

 

Il vero nodo da sciogliere da parte del legislatore delegato riguardava le modalità di attuazione della «semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni». Ciò in quanto l’indicazione – condizioni per l’impiego – non trova diretto e formale riscontro nella disciplina sul tema.  

Una prima possibilità avrebbe potuto riguardare il contenuto dell’art. 266 c.p.p.; un’opzione che avrebbe tuttavia comportato una singolare e non condivisibile identificazione delle condizioni con i limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. In questo senso, non si sarebbe trattato di una condizione, quanto di un presupposto dell’attività, per altro già considerato dalla delega sotto un differente profilo.

Era quindi ragionevole ipotizzare – come poi si è verificato – un richiamo ai “Presupposti e forme del provvedimento” di cui all’art. 267 c.p.p.; norma in base alla quale «L'autorizzazione è data con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l'intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini».

Il possibile confronto è con una disciplina differente, stabilita dall’art. 13, d.l. 152/1991, convertito, con modificazioni, dalla l. 203/1991, ossia la disciplina stabilita per l’intercettazione per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono: «In deroga a quanto disposto dall’art. 267 c.p.p., l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’art. 266 dello stesso codice è data, con decreto motivato, quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono in ordine ai quali sussistano sufficienti indizi. Quando si tratta di intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa».

Si tratta di captazioni per le quali, in deroga a quanto disposto dall'art. 267 c.p.p. l'autorizzazione a disporre le operazioni previste dall'art. 266 dello stesso codice è data, con decreto motivato, quando l'intercettazione:

· è necessaria (anziché indispensabile);

· a fronte di sufficienti (anziché gravi) indizi.

In tali casi, quando si tratta di intercettazioni di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo ai soli delitti di criminalità organizzata destinata a essere realizzata nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p., «l'intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l'attività criminosa».

Attività, inoltre, la cui durata è significativamente maggiore, sia nel periodo iniziale (non più di quaranta giorni, anziché quindici) sia con riguardo alle proroghe (venti giorni anziché quindici).

Una disciplina autonoma, che il legislatore ha già dimostrato di volere proficuamente estendere quando, con il d.lgs. 374/2001, convertito con modificazioni dalla l. 438/2001 (Disposizioni in tema di terrorismo internazionale) sono state introdotte una serie di disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, alla luce della straordinaria necessità e urgenza di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto nei confronti di tale fenomeno, prevedendo l'introduzione di adeguate misure sanzionatorie e di idonei dispositivi operativi.

Il decreto ha adattato le disposizioni in tema di terrorismo nell’ambito della – per certi aspetti – nuova dimensione internazionale che tale fenomeno ha assunto. In questo senso l’art. 3, comma 1, del decreto in oggetto (Disposizioni sulle intercettazioni e sulle perquisizioni) ha stabilito che nei procedimenti per i delitti previsti dall'art. 270-ter c.p. e per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), n. 4 c.p.p., si applicano le disposizioni di cui all'art. 13, d.l. 152/1991, convertito, con modificazioni, dalla l. 203/1991.

In concreto, il legislatore delegato ha previsto una deroga a quanto disposto dall’articolo 267 c.p.p., correlando l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione in oggetto alla valutazione in punto di necessità per lo svolgimento delle indagini e a fronte della sussistenza di sufficienti indizi.  Non si può negare che si sia trattato di una scelta coraggiosa e potenzialmente di grande efficacia sul piano dello “stimolo“ alle investigazioni nel settore di specie e all’utilizzo dello strumento intercettazioni. Una scelta che attribuisce un potere d’intervento al P.M. – così come indirettamente alla P.G. – di grandissimo momento (potere la cui attribuzione non mancherà di essere al centro di polemiche, non appena qualche commentatore ne rileverà una possibile eccessiva estensione).

L’avere ampliato lo “spettro” di condizioni tali da giustificare l’intercettazione in subiecta materia costituirà un moltiplicatore delle potenziali criticità in tema di deposito degli atti, tutela dei terzi e tutela – comunque – della riservatezza anche degli stessi indagati affrontate dal legislatore nell’ambito del d.lgs. 216/2017. Nondimeno, se veramente la scarsa efficacia dell’intero sistema nella lotta alla corruzione (e a fatti di reato similari) è individuata da tempo come un profilo altamente negativo non solo sul piano “morale”, non soltanto in relazione all’efficienza e trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione ma anche in rapporto alla credibilità sul piano internazionale del nostro paese, una risposta forte e verosimilmente efficace rappresenta, più che una scelta, una specifica necessità.

 

3- La modifica del reato presupposto

 

In esito alla riforma, alla luce delle nuove indicazioni del legislatore, permane una problematica che ha determinato in passato non poche controversie; problematica destinata a riproporsi laddove siano disposte captazione sulla base dei presupposti di cui al d.lgs. 216/2017, nei casi in cui, nello sviluppo delle indagini, le ipotesi di reato originariamente indicate siano oggetto di riqualificazione e risultino “trasformate” in fattispecie che non avrebbero consentito un’intercettazione fondata sui medesimi presupposti.

Una situazione certamente ravvisabile anche alla luce delle indicazioni del d.lgs. 216/2017, laddove la captazione sia stata autorizzata sulla base dei differenti presupposti di cui al citato art. 6 e – in seguito – il reato originariamente ravvisato sia oggetto di riqualificazione, tale da escluderlo dalla categoria delineata dalla lett. b) dell’art. 266 c.p.p.

Al riguardo, si è consolidata negli anni una prospettiva ermeneutica avente a oggetto le frequenti ipotesi di riqualificazione dei reati che costituiscono il presupposto delle intercettazioni, siano esse “ordinarie” che in ambito di criminalità organizzata. Una prospettiva ermeneutica che può essere ribadita anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 216/2017 sulla base, ancora una volta, di un rilievo sistematico.

L’art. 4 del d.lgs. 216/2017 , tra l’altro, stabilisce che “…d) all’articolo 270, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente comma: «1-bis. I risultati delle intercettazioni tra presenti operate mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non possono essere utilizzati per la prova di reati, anche connessi, diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza.”

 

Se un divieto di utilizzazione per «reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione» è stato espressamente previsto solo nell’ambito delle intercettazioni tra presenti operate a mezzo di captatore informatico, si deve ritenere che un divieto generalizzato non sia in alcun modo ravvisabile e che quindi, come vedremo, debba essere riconosciuto un’ampia prospettiva di utilizzabilità.

È significativo, comunque, il fatto che il legislatore abbia comunque fatta salva l’utilizzabilità laddove i risultati delle captazioni siano «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza», dimostrando di volere – per quanto possibile, anche nell’ambito delle delicate intercettazioni a mezzo di un intrusore – non escludere in termini generali un residuale “recupero” degli esiti delle stesse.

Può essere utile una verifica della nuove disposizione alla luce dei principi elaborati dalla S.C. a fronte di riqualificazione del reato sulla base del quale l’intercettazione è stata autorizzata. In generale, nel caso in cui l’intercettazione risulti ex ante legittimamente disposta – con corretta prospettazione di un delitto di criminalità organizzata e delle esigenze probatorie ad esse connesse, anche laddove emerga, in esito alla stessa, una tipologia di reato non riconducibile alla categoria in oggetto, per il quale l’intercettazione avrebbe potuto essere disposta alla luce di presupposti più stringenti e con modalità differenti – l’esito dell’intercettazione deve ritenersi utilizzabile.

La legittimità di un’intercettazione ambientale nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p., disposta adottando la disciplina dell'art. 13, comma 1, d.l. 152/1991 (conv. con l. 203/1991), deve essere ricondotta al momento procedimentale in cui la captazione era stata richiesta e autorizzata, con impossibilità di una verifica in base al panorama retrospettivamente derivante dal prosieguo delle intercettazioni e delle altre acquisizioni. In particolare, nel caso in cui un’intercettazione di comunicazione è disposta applicando la disciplina prevista dall'art. 13, comma 1, d.l. 152/1991, con riguardo ad un'originaria prospettazione di reati di criminalità organizzata, le relative risultanze possono essere utilizzate anche quando il prosieguo delle indagini impone di qualificare i fatti come non ascrivibili alla suddetta area, atteso che la legittimità di un’intercettazione deve essere verificata al momento in cui la captazione è richiesta ed autorizzata, non potendosi procedere al controllo della sua ritualità sulla base delle risultanze derivanti dal prosieguo delle captazioni e dalle altre acquisizioni (Cass. Sez. VI, n. 21740, 1.3.2016, CED 266922; conf. Sez. VI, n. 7, 4.3.1997, CED 207364).

Il problema è stato risolto in termini analoghi anche nell’ambito di un raffronto tra i reati di cui all’art. 266 c.p.p. e ipotesi di reato per i quali non sarebbe stata autonomamente richiedibile l’intercettazione. Si ipotizzi il caso di un’intercettazione per il reato di associazione a delinquere finalizzata a porre in essere truffe, richiesta ed autorizzata sul presupposto della sussistenza del reato associativo; venuto meno quest’ultimo, anche nel caso in cui i presupposti del reato siano stati correttamente ritenuti ex ante e non siano intervenute violazioni procedurali successive, deve essere valutata la possibilità di utilizzare gli esiti dell’intercettazione in funzione dell’accertamento dei reati “fine”.

Secondo la S.C., nessuna norma impedisce al giudice di valutare, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, i risultati di intercettazioni telefoniche o ambientali – ritualmente autorizzate per lo stesso fatto – sia pure inquadrate in una diversa ipotesi di reato, e nell’ambito dello stesso procedimento, purché in seguito alla mutata qualificazione giuridica di tale fatto risulti punibile con una delle pene indicate nell’art. 266, lett. a), c.p.p. (Cass. Sez. VI, n. 9247, 22.31994, CED 200131).

La stessa Cassazione, tuttavia, ha ammesso la possibilità di utilizzo probatorio per reati non previsti dall’art. 266 c.p.p.; la ratio, evidentemente, è quella per cui le garanzie previste in tali casi sarebbero state legate ai presupposti astratti delle fattispecie. Nell’ipotesi in cui un’intercettazione sia ritualmente ordinata con riferimento al reato per il quale si procede, che in astratto prevede la pena massima superiore a cinque anni, e successivamente l’imputazione venga mutata in altra per la quale l’intercettazione stessa non sarebbe stata ammissibile, la prova acquisita deve ritenersi utilizzabile, in quanto il divieto di cui all’art. 271 c.p.p. è stato imposto soltanto con riferimento ai provvedimenti adottati in casi non consentiti. Se l’atto è quindi legittimo, i suoi esiti mantengono tale carattere anche se la modifica della qualificazione giuridica del reato sia tale da fare diventare, con valutazione postuma, non più conforme alla previsione processuale l’intercettazione eseguita (Cass. Sez. III, n. 5331, 28.2.1994, CED 197616; conf. Cass. Sez. I, n. 19852, 11.5.2009, CED 243780).

Conseguentemente, intercettazioni telefoniche disposte nell'ambito di indagini relative a reati rientranti nell'elenco di cui all'art. 266 c.p.p. possono essere utilizzate nella loro interezza nel procedimento in cui sono state legittimamente disposte, a prescindere dalla posizione processuale delle varie persone imputate, che ben potrebbero anche essere indagate sulla base degli elementi raccolti attraverso le intercettazioni medesime (Cass. Sez. III, n. 794, 28.9.1995, CED 204206).

Si deve pertanto ritenere che siano utilizzabili i risultati delle intercettazioni disposte con riferimento ad un titolo di reato per il quale le medesime sono consentite, anche quando al fatto sia successivamente attribuita una diversa qualificazione giuridica con la conseguente mutazione del titolo in quello di un reato per cui non sarebbe stato invece possibile autorizzare le operazioni di intercettazione (Cass. Sez. I, n. 19852, 20.2.2009, CED 243780; conf. Cass. Sez. VI, n. 22276, 5.4.2012, CED 252870: in tale caso è stata ritenuta utilizzabile l'intercettazione, disposta per associazione a delinquere e corruzione, anche per il delitto di rivelazione di segreto di ufficio).

Anche i più recenti arresti della S.C. confermano – sostanzialmente – la linea ermeneutica sopra esposta.

I risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per un reato rientrante tra quelli indicati nell'art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche relativamente ad altri reati per i quali si procede nel medesimo procedimento, pur se per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite (Cass. Sez. F, n. 35536, 23.8.2016 CED 267598; in tale caso è stata ritenuta utilizzabile l'intercettazione disposta per il reato di tentato omicidio, anche per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale).

Ancora, i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell'art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche relativamente ad altri reati che emergano dall'attività di captazione, ancorché per essi le intercettazioni non siano state consentite, purché tra il contenuto dell'originaria notizia di reato alla base dell'autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, cosicché il relativo procedimento possa ritenersi non diverso rispetto al primo, ai sensi dell'art. 270, comma 1, c.p.p. (Cass. Sez. V, n. 45535, 16.3.2016, CED 268453; fattispecie in cui gli indagati, accusati dell'omicidio del sindaco che voleva denunciarli per spaccio di cocaina, avevano minacciato di gravi lesioni personali un loro "acquirente" per costringerlo a rendere falsa testimonianza, così da far cadere il movente dell'omicidio del sindaco; la S.C. ha ritenuto immune da censure l'ordinanza del tribunale della libertà che ha ritenuto utilizzabile l'intercettazione disposta nel procedimento per il reato di omicidio, anche nel procedimento per il reato di minaccia).

La S.C. ha affermato, altresì, che qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui dall'attività di captazione emergano gli estremi e, quindi, la conoscenza, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 c.p.p. e, cioè, all'indispensabilità e all'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (Cass. Sez. VI, n. 41317, 15.7.2015, CED 265004).

 

4-                      Intercettazioni tra presenti e svolgimento dell’attività criminosa.

 

Operativamente complesse quanto alle volte straordinariamente efficaci, le intercettazioni tra presenti costituiscono uno degli aspetti concretamente di maggiore rilievo dell’intera disciplina. È verosimile che il legislatore, nel momento in cui ha inteso intensificare l’efficacia delle captazioni attraverso una semplificazione delle condizioni di impiego, abbia ipotizzato un significativo utilizzo delle intercettazioni in oggetto, seppure inserendo una specifica limitazione, sul piano tecnologico, all’effettuazione delle stesse.

In generale, si tratta di attività per le quali sono previste le medesime modalità esecutive e i medesimi presupposti stabiliti per l'intercettazione di comunicazioni; in base all’art. 266, comma 2, c.p.p. tali attività sono consentite negli stessi casi elencati dal comma prima della medesima norma. In linea di massima, quindi, assolutamente identici rispetto alle intercettazioni di comunicazioni devono ritenersi i presupposti di ammissibilità di tale atti in relazione alla tipologia di reati presupposto.  Per i soli luoghi di privata dimora richiamati dall’art. 614 c.p. le intercettazioni sono ammesse «solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa», laddove, in base all’art. 13 l. 203/1991, l’intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata è consentita nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. anche se non vi sia motivo di ritenere che nei predetti si stesse svolgendo l’attività criminosa.

Diviene quindi fondamentale precisare, sulla base delle indicazioni della S.C., quali luoghi possano intendersi riconducibili al concetto di privata dimora ex art. 614 c.p., atteso che negli stessi è necessario, nella richiesta, argomentare sull’attuale svolgimento dell’attività criminosa.

Il fatto che – con esclusione dei casi di attività di criminalità organizzata – il presupposto delle intercettazioni ambientali sia individuato nello svolgimento nei luoghi in oggetto dell’attività criminosa esprime la finalità anche e soprattutto “preventiva” delle stesse, in relazione ad ipotesi di reato a consumazione protratta nel tempo, per impedire la prosecuzione di tali illeciti. Ipotesi tra le quali a pieno titolo possono essere inseriti almeno alcuni tra i delitti in danno della P.A. (si pensi a ipotesi di corruzione continuata).

In generale, in tema di intercettazioni ambientali, una volta autorizzata la captazione delle conversazioni in un determinato luogo, l'attività deve ritenersi consentita anche nelle pertinenze del medesimo senza necessità di ulteriore specifica autorizzazione (Cass. Sez. II, n. 4178, 15.12.2010, CED 249207). Inoltre, sarebbero utilizzabili i risultati di tali intercettazioni anche quando nel corso dell'esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purché rientrante nella specificità dell'ambiente oggetto dell'intercettazione autorizzata (Cass. Sez. V, n. 5956, 6.10.2011, CED 252137; nella specie la captazione ambientale era stata trasferita dalla vettura oggetto di autorizzazione ad altra vettura successivamente acquistata dall'indagato sottoposto a intercettazione).

Al fine di verificare la “fattibilità” delle intercettazioni ambientali, è necessario soffermarsi sul concetto di svolgimento dell’attività criminosa.   Prevede il comma 2 del menzionato art. 6: “L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.”

Pare evidente la volontà del legislatore di concentrare l’attività in oggetto sui fatti – intesi appunto come fatti criminosi, che è ragionevole prevedere si siano manifestando – piuttosto che su luoghi o persone, così da evitare quanto più possibile captazioni di conversazioni calibrate su una “potenzialità” criminale dei soggetti coinvolti piuttosto che su dati oggettivi legati ai reati in corso di accertamento.

Non deve essere trascurata la differenza tra la formula generale dell’art. 266, comma 2 ( per il quale la captazione  è consentita solo si vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”) e quella utilizzata in tema di reati contro la P.A.: (la captazione “ non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.”)

Si passa da una prova logico/storica in positivo a un’indicazione formulata su una doppia negazione, che sostanzialmente precisa che l’uso del captatore non può avvenire se deve essere – di nuovo sul piano logico/storico – esclusa la possibilità che nel luogo ove dovrebbero avvenire le captazioni si stia svolgendo la predetta attività.

Sul piano sistematico si deve, pertanto, rilevare che il principio contenuto nel comma sopra riportato in ordine ai limiti di utilizzo del captatore informatico nell’ambito della “semplificazione” prevista per le intercettazioni in materia di reati contro la P.A. impone di ritenere che tale strumento, anche per i delitti contro la pubblica amministrazione potrà essere utilizzato:

· per le intercettazioni “ordinarie”;

· per le intercettazioni tra presenti nei luoghi diversi da quelli di cui all’art. 614 c.p.;

· per le intercettazioni nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. nel caso in cui vi sia una ragionevole possibilità che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.

Resta da comprendere se il divieto di cui all’art. 6, comma 2, possa essere esteso alla comunicazioni informatiche e telematiche di cui all’art. 266-bis c.p.p.: una possibilità di grande rilievo ove si consideri che con tale strumento potrebbero essere intercettate le comunicazioni a mezzo device e quindi, attraverso di esse, tutta la messaggistica utilizzabile online. Una possibilità che non può essere in astratto esclusa,atteso che le intercettazioni informatiche e telematiche ex art. 266-bis c.p.p., in quanto differenti da quelle di cui all’art. 266 c.p.p., non presentano il limite di cui al comma 2 di quest’ultimo articolo.

Di fatto, l’indicazione di cui al menzionato art. 6, comma 2, conferma sostanzialmente il principio espresso da un recente e noto arresto delle S.U.( Cass. S.U, n. 26889, 28.4.2016, CED 266905) che, sul tema, aveva consentito l’attività del captatore nei luoghi di privata dimora, anche in assenza dello svolgimento dell’attività criminosa, solo nei casi in cui si proceda per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. e per i casi di associazione a delinquere, escludendo, pertanto, i delitti nei confronti della pubblica amministrazione.

L’intenzione del legislatore è chiara: nonostante il rafforzamento della disciplina in tema di captazioni per reati contro la pubblica amministrazione, non sarà possibile utilizzare il captatore informatico per intercettazioni presso luoghi di privata dimora nei quali non si stia svolgendo l’attività criminosa o perlomeno presso i quali deve essere esclusa che la possibilità che la stessa si stia svolgendo.

Si tratta di una disposizione evidentemente “figlia” del timore/sfiducia sul piano delle garanzie della tecnologia richiamata dalla norma. Il legislatore ha evidentemente operato una valutazione costi/benefici – rispetto alla possibilità di introdurre l’intercettazione tra presenti per mezzo di captatore – che si rivela favorevole solo nella comparazione di interessi tra la repressione dei reati di competenza “distrettuale” ma non rispetto alle ipotesi di reati contro la P.A.

La particolare caratteristica – sostanzialmente anche “preventiva” – delle intercettazioni ambientali rende in concreto frequente l’utilizzo per le stesse del provvedimento ex abrupto da parte del P.M., indispensabile in tutti i casi nei quali un ritardo nell’attivazione della captazione potrebbe pregiudicare i risultati della stessa e, soprattutto, impedire di accertare e interrompere tempestivamente l’attività criminosa in corso.

Sul tema la S.C. ha chiarito che l'art. 266, comma 2, c.p.p., in tema di intercettazioni tra presenti in luogo di privata dimora, non pone, con riguardo all'ammissibilità, né speciali limiti di tempo, oltre quelli di carattere generale presupposti dall'art. 267, comma 2, c.p.p., né condizioni diverse da quella del fondato sospetto del contestuale svolgimento dell'attività criminosa. Ne consegue che per la legittimità e utilizzabilità dell'intercettazione deve ritenersi necessaria l'urgenza ma non l'immediatezza di essa, né rileverebbe al proposito che l'attività criminosa abbia dovuto compiersi autonomamente ovvero ad iniziativa della parte offesa o di altri (Cass. Sez.VI, n. 36770, 9.6.2003, CED 226333).

Il P.M. - e quindi l’organo giudicante - sono chiamati a effettuare una specifica valutazione sul “fumus committendi delicti“ in relazione al luogo di svolgimento dell’intercettazione; un giudizio prognostico, in base al quale gli esiti dell’intercettazione saranno utilizzabili non tanto laddove si ritenga che sia in corso la flagranza di uno dei reati previsti dall’art.266 c.p.p.  quanto - a prescindere dalla flagranza del reato -  nel caso in cui gli elementi, valutati ex ante, siano tali da rendere verosimile la commissione del reato. In particolare l’attuale formula introdotta dalla riforma impone di ritenere, per ammettere l’uso dei captatori, che non debba essere logicamente escluso il fatto che nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. si stia svolgendo l’attività criminosa.

Si tratta di una condizione priva di un riferimento normativo, nonché di un riscontro pratico: basti pensare all’assoluta legittimità di un’intercettazione domiciliare – coordinata con un provvedimento di ritardato sequestro e arresto ai sensi dell’art. 98 d.P.R. 309/1990 – posta in essere ove si possa ragionevolmente presumere che nel luogo nel quale la captazione deve essere disposta possa avvenire un atto di cessione di sostanza stupefacente, destinata a realizzarsi nel volgere di pochi attimi. Si pensi, nel settore di specie, ad accordi continuativi qualificabili come atti di corruzione o concussione.

Inoltre, la condizione consistente nel fondato motivo di ritenere lo svolgimento dell'attività criminosa non potrebbe dirsi non soddisfatta per il fatto che tale presunta attività risulti essere ulteriore rispetto ai fatti criminosi già emersi a seguito delle indagini pregresse, non essendo siffatta limitazione prevista né espressamente né implicitamente dalla legge (Cass. Sez. VI, 17.2.1998, CED 210316).

Per la S.C., il “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”, non postula che detta attività debba essere stata effettivamente sussistente, dovendosi considerare sufficiente, sulla base del testuale dettato normativo (oltre che dall’evidente ratio legis), che dell’attività in questione possa, con giudizio ex ante, ragionevolmente ritenersi la sussistenza all’atto dell’emanazione del provvedimento di autorizzazione all’effettuazione delle operazioni (Cass. Sez. I, n. 1367, 12.12.1994, CED 200242)

L'attività diretta all’assicurazione del profitto del reato, pur essendo posta in essere post delictum, atterrebbe comunque alla condotta delittuosa consumata, costituendone il completamento economico o, se si vuole, una delle conseguenze ulteriori, così che sarebbe possibile definirla attività criminosa ai sensi e per gli effetti dell'art. 266, comma 2, c.p.p. (Cass. Sez. VI, n. 3093, 29.11.1999, CED 215279). Una situazione riscontrabile, ad esempio, nel caso di un sequestro di persona a scopo di estorsione, laddove le operazioni di intercettazione ambientale siano attivate dopo la liberazione dell'ostaggio, al fine sia di individuare gli autori del reato sia di accertare la loro attività diretta ad assicurare il prezzo del riscatto.

 

5-                      Il coordinamento con la disciplina transitoria

 

Il discorso sull’attuazione della delega in tema di Disposizioni per la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, di cui all’art. 6 del d.lgs. 216/2017 non può che concludersi con un richiamo alla disciplina transitoria.

L’art. 9 (Disposizione transitoria) del provvedimento di attuazione della delega prevede che le disposizioni di cui agli articoli 2, 3 4, 5 e 7 acquistano efficacia decorsi centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo. Pertanto, anche se l’art. 6 è immediatamente efficace, il fatto che il legislatore abbia introdotto contestualmente all’entrata in vigore del provvedimento oggetto del presente commento la possibilità di utilizzo dei captatori informatici in relazione alle operazione relative a delitti contro la pubblica amministrazione senza che le stesse siano inserite – almeno per centottanta giorni – nel contesto normativo generale con il quale la riforma ha disciplinato il problema rappresenta un’inequivoca criticità di sistema.

Ci troviamo, di fatto, a fronte di uno strumento pienamente legittimo in astratto ma non disciplinato in concreto, atteso che il complesso delle disposizioni – giuridiche e tecniche – finalizzate a delinearne le modalità di utilizzo parrebbero destinate, per un periodo non breve, a rimanere lettera morta.

 

 

 

 
 
 
 
 
 

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