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PENALE

Modelli di gestione amministrativa di carcere e misure alternative alla pena detentiva: le peculiarità dell’ordinamento italiano nel quadro europeo

  Penale 
 martedì, 11 settembre 2018

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Anna Ferrari

Magistrato del Ministero della Giustizia componente del Consiglio di Cooperazione Penalogica (PC-CP) del Consiglio d’Europa e del Gruppo di Lavoro del Consiglio di Cooperazione Penalogica (WG PC-CP) del Consiglio d’Europa

 

1. L’iter normativo. Nell’ambito dell’esecuzione penale, uno dei temi attualmente oggetto di discussione a livello europeo è quello sulla preferenza da accordare a modelli di gestione unitaria o separata fra «prison» e «probation»[1]:  i concreti risvolti sono evidenti in termini di lotta al sovraffollamento carcerario, garanzia di dignità delle condizioni di detenzione, risocializzazione e responsabilizzazione del condannato.

L’opzione dell'Italia per la separazione fra amministrazione del sistema penitenziario rispetto alla gestione delle misure alternative alla detenzione si è sviluppata con un iter complesso avviato nel 2015: anteriormente l’ordinamento italiano aveva optato per la gestione unitaria e, così, al solo Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria facevano capo  entrambi i settori[2].

La scelta del modello separato si ricollega alla cd sentenza pilota sul caso Torreggiani[3]; come è noto, si tratta di quella particolare forma di pronuncia che la Corte EDU utilizzata quando ci si trova di fronte ad un problema strutturale della legislazione di un determinato Stato. In questi casi, la Corte non si limita ad individuare il problema  e a condannare lo Stato convenuto ma si spinge ad indicare, nel dispositivo, le misure più idonee che il Paese interessato è chiamato a realizzare per porre rimedio alla criticità rilevata: segue uno stretto monitoraggio della Corte EDU sulla adozione o meno di tali misure. E fra le misure adottate dall’Italia[4] va annoverata la riorganizzazione del sistema di «probation» che, attraverso la separazione dalla gestione degli istituti di pena, è stato posto su di un piano di autonomia rispetto all’esecuzione inframuraria.

In specie, il D.P.R. 15 giugno 2015, n. 84 di riorganizzazione del Ministero della Giustizia recante «Regolamento di riorganizzazione del Ministero della giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche» nel prevedere un’articolazione amministrativa suddivisa in quattro Dipartimenti ha attribuito al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità l’intero sistema di «probation»: quanto ai destinatari, si occupa degli adulti e dei minori di età; quanto alla tipologia di misure, spazia dall’istituto della messa alla prova fino alle misure alternative alla pena detentiva.

Il processo di separazione del «probation» dall’amministrazione penitenziaria è proseguito con il D.M. 17 novembre 2015 con cui sono stati individuati presso il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità gli uffici di livello dirigenziale non generale, definendone i compiti, nonché le articolazioni dirigenziali territoriali in esecuzione di quanto previsto dall’art. 16 D.P.R. n. 84/2015.

Il D.M. 23 febbraio 2017 ha, poi, fatto degli Uffici Locali di esecuzione penale esterna la capillare articolazione sul territorio del sistema di «probation». Inoltre, il D.M. 1° dicembre 2017 ha dotato i servizi di «probation» di un ruolo del Corpo di Polizia Penitenziaria[5].

2. «Comunità» e collocazione europea. La scelta del termine «Comunità» che compare nella denominazione del nuovo Dipartimento non è casuale e affonda le radici nell'esperienza di «probation» europea compendiata nella Raccomandazione Rec (2017)3 sulle sanzioni e misure di comunità adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel marzo 2017. Quest’ultima adotta una definizione molto ampia di «misure e sanzioni di comunità» posto che comprende tutti quegli istituti giuridici che se, da una parte, incidono sulla libertà personale dell’interessato attraverso restrizioni quali l’imposizione di obblighi o la sottoposizione a condizioni, tuttavia, mantengono la persona sul territorio e fuori dal circuito carcerario[6]. Nel nostro ordinamento, rientrano nella nozione di «misure e sanzioni di comunità» sia le misure alternative alla detenzione disciplinate nella legge di ordinamento penitenziario[7],  che le misure di sicurezza non custodiali come la libertà vigilata ma anche l’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168bis cod. pen. ed il lavoro di pubblica utilità. La competenza del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, infatti, si estende anche a tali ultimi istituti che prescindono dalla sentenza di condanna definitiva ma che tuttavia incidono sensibilmente sulla libertà personale al di fuori del circuito carcerario. Un ambito di operatività che, pertanto, si sovrappone a quello della citata raccomandazione e proietta il Dipartimento in dimensione europea.

3. La gestione del minorile. La denominazione data al nuovo Dipartimento fotografa un  tratto essenziale del modello  separato italiano che costituisce una particolarità che non ha paralleli in Europa: si ha, invero, una gestione amministrativa congiunta fra «probation» per gli adulti e per i minori di età pur se attraverso due distinte Direzioni generali. 

Ma vi è un’ulteriore importante peculiarità che non trova riscontro in altri Paesi europei: non soltanto il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità  gestisce congiuntamente  «probation» per adulti e  minorenni, ma anche il sistema degli istituti di pena per i minori di età. L’intervento normativo che ha separato l’amministrazione penitenziaria e le misure alternative in Italia si è, infatti, sviluppato mantenendo la pregressa unitarietà con riguardo all’autore di reato  minorenne[8]: si è  innestato, se così si può dire, sul minorile il settore del «probation» per adulti.

Si potrebbe obiettare che si sia trattato di un’operazione di mero maquillage: in realtà, la ratio di tale scelta pare sia maturata nella considerazione che il sistema di esecuzione penale minorile ha dato impulso, almeno dall’entrata in vigore del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 sul nuovo processo penale minorile[9], ad istituti normativi e prassi virtuose che rappresentano il modello attuale di «probation» per gli adulti. Si pensi all’istituto della messa alla prova che ha avuto origine proprio nel settore minorile, ove rappresenta la regola e non l’eccezione[10]. La messa alla prova per gli adulti si sviluppa, infatti, a partire  dalla L. 28 aprile 2014, n. 67 recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili»; e si modella sulla base dell’esperienza minorile pur con tratti peculiari, primo fra tutti la possibilità di ricorrervi solo per talune tipologie di reato[11].

Lo stesso può dirsi per l’istituto della mediazione penale, una faccia della giustizia riparativa che non conosce nel nostro ordinamento una disciplina organica[12], che nasce come mediazione penale minorile e da lì è mutuato per gli adulti. Il citato Decreto n. 448 del 1988 all’art. 28 ha, infatti, previsto la possibilità per il giudice di promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. E nella messa alla prova, l’art. 464bis cod. proc. pen. stabilisce che il programma preveda le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.

Tutti motivi questi che spiegano perché la gestione separata scelta dall’ordinamento italiano per l’autore di reato maggiorenne[13] diventa, tuttavia, unitaria quanto alla gestione del settore minorile.

4. Forme di coordinamento fra «prison» e «probation». Il nuovo modello organizzativo che ha separato la gestione degli istituti di pena dal sistema delle misure alternative alla detenzione in carcere conosce forme di coordinamento e di interazione reciproca fra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità: ciò avviene  attraverso più strumenti, quali le circolari interdipartimentali e la formazione congiunta del personale.

In particolare e con riguardo al primo profilo, con la circolare interdipartimentale[14] del 29 settembre 2016  si è regolata l’attività di collaborazione nel trattamento penitenziario tra Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna e  Provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono state, così, introdotte linee guida comuni di indirizzo alle strutture operative dei due Dipartimenti con la finalità di prevenire il sovraffollamento carcerario. Queste linee guida comprendono la previsione di accordi territoriali fra Provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria e Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna aventi ad oggetto modalità operative volte al miglior utilizzo delle risorse umane in una prospettiva di integrazione e collaborazione  ai sensi dell’art. 4 Reg. Esec. Ord. Penit[15].

Così come nella medesima circolare si è previsto che nei servizi di «probation» sia introdotta  la figura del funzionario di servizio sociale referente per i rapporti con gli istituti di pena ed incaricato dei procedimenti  relativi alla popolazione detenuta. In parallelo, all’interno dell’istituto penitenziario viene individuato un funzionario che cura i rapporti con i referenti dei servizi di Esecuzione Penale e Esterna soprattutto per fare emergere le priorità d’intervento: quali, ad esempio, l’osservazione dei detenuti con presupposti oggettivi e soggettivi che consentono, quanto meno teoricamente, l’accesso a misure alternative, nonché il trattamento dei detenuti con particolari problematiche personali, sanitarie e famigliari. Il sistema penitenziario dell’Estonia conosce una figura analoga che ha sviluppato ed amplificato nelle competenze fino a farle assumere un ruolo chiave nella risocializzazione del detenuto. Si tratta della cd «persona di contatto», di formazione universitaria, che redige il piano di trattamento ed è determinante per il passaggio alla fase dell’esecuzione extramuraria; la persona di contatto ha anche la potestà disciplinare e decisionale sui colloqui e permessi concessi al condannato. Detto operatore penitenziario gestisce un numero massimo di trenta detenuti di cui ha, dunque, una conoscenza diretta: il tema del rapporto immediato col condannato è particolarmente sentito a livello europeo.  Si pensi che in Svezia ogni agente di «probation» gestisce al massimo venticinque soggetti.

Tornando all’ordinamento italiano ed all’aspetto della formazione del personale quale ulteriore forma di coordinamento fra i due Dipartimenti, va osservato che se il reclutamento del personale è di norma separato,  tuttavia il personale di Polizia Penitenziaria è reclutato unitariamente per gli istituti di pena e gli Uffici di Esecuzione Penale esterna; solo in una fase successiva alla assunzione viene svolto un interpello che seleziona -sulla base di una domanda volontaria- il personale della Polizia Penitenziaria da distaccare presso i servizi di «probation»[16].

Con la formazione continua, però, si torna alla scelta unitaria: questa è gestita dalla Direzione generale della formazione che è un’articolazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La programmazione delle attività formative è annuale sulla base delle esigenze formative segnalate anche dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità.

 

 

 

 

 

 

DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 15 giugno 2015 , n. 84: «Regolamento



[1] Il tema è stato al centro della 23^ Conferenza dei Direttori dei servizi di prison e probation del Consiglio d’Europa, Estonia, 19-20 giugno 2018.

[2] L’Irlanda e la Grecia hanno sistemi separati mentre Finlandia, Bulgaria ed Estonia sono esempi di modelli unitari.

[3] Corte EDU, Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia.

[4] Oltre a molti altri strumenti quali l’istituto della liberazione anticipata speciale, l’ampliamento dell’applicabilità della detenzione domiciliare, i rimedi risarcitori e compensativi per far fronte alla detenzione degradante, l’introduzione del Garante nazionale diritti persone detenute o private della libertà personale.

[5] Recante «Misure per l’Organizzazione del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria negli Uffici di esecuzione penale esterna, nonché per l’individuazione dei compiti e per la selezione del medesimo personale».

[6] E’ importante notare che la raccomandazione si rivolge anche all’indagato e all’imputato e, quindi, non soltanto all’esecuzione penale in senso stretto che, nel nostro ordinamento, è di competenza della magistratura di sorveglianza. Ed infatti, la raccomandazione afferma espressamente che detta regole per qualunque misura assunta prima della definitività della decisione oltre che per ogni sanzione irrogata da un’autorità giudiziaria o amministrativa consistente in restrizioni alla libertà personale da eseguire fuori dal carcere: la raccomandazione si rivolge, pertanto, anche i giudici di cognizione.

[7] Come l’affidamento in prova al servizio sociale.

[8] Il Dipartimento per la Giustizia Minorile gestiva, infatti, sia gli istituti minorili che le misure alternative alla detenzione.

[9] Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante «Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni».

[10] Si pensi, ad esempio, che la messa alla prova per i minori di età non conosce limite in relazione al tipo di reato commesso, esperibile anche per l’omicidio volontario. Le tipologie di reati rispetto alle quali la mediazione penale minorile appare maggiormente indicata sono: reati procedibili a querela di parte; reati evocativi di conflitti di prossimità ove di fatto è mancata, nella vicenda umana, la comunicazione; delitti familiari; delitti in contesti ambientali ristretti (scuola, luoghi di svago e ricreazione); reati caratterizzati da condotta reiterata di sopraffazione con vittima cd soggetto debole: è il caso del bullismo e del cyberbullismo in cui la mediazione può coinvolgere l’intera comunità scolastica; delitti di deturpamento e imbrattamento di beni immobili o mezzi di trasporto ovvero laddove il bene pubblico è una vittima cd istituzionale. Per i reati di sangue, di violenza sessuale, di estorsione, nel contesto della criminalità organizzata, va tenuto presente il rispetto del tempus adeguato a intraprendere un percorso di mediazione penale: è fortemente sconsigliato l’intervento della mediazione nella fase immediatamente successiva al fatto di reato nei delitti più gravi. Pare ulite in tali casi, differire la mediazione penale alla fase dell’esecuzione della pena, a processo terminato.

[11] Qui opera il principio delle preclusioni derivanti dal tipo di reato per cui si procede ed al limite edittale della pena (anni quattro).

[12] Pur se vi sono stati progetti di legge in tal senso come il decreto recante «Disposizioni in materia di giustizia ripartiva e mediazione reo-vittima in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83, 85, lett. F), della L. 23 giugno 2017, n. 103» che all’art. 1 stabilisce che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è previsto per tutti i condannati e gli internati, senza sbarramenti oggettivi o preclusioni soggettive.

[13] Istituti di pena al Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, misure alternative alla detenzione al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità.

[14] Del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

[15] Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 recante «Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà».

[16] Si è sopra citato il relativo recente decreto ministeriale che assegna ai servizi di probation un contingente ad hoc.

 

 
 
 
 
 
 

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