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PENALE

Efficienza a costo zero: l’abolizione del divieto di reformatio in peius

  Penale 
 venerdì, 17 febbraio 2017

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Giovanni Maria Flick

Presidente emerito della Corte Costituzionale

 
 

 

Sommario: 1. L’abolizione del divieto di reformatio in peius: un passo indietro non a costo zero. - 2. Appello, princìpio di legalità e diritto di difesa. - 3. Il consolidamento del divieto ... - 4. (segue) ...e il suo fondamento. - 5. La funzione dell’appello incidentale. - 6. Rimodulare l’appello invece di comprimere il diritto di difesa.

 

1.       Nel quadro di una riflessione complessiva sui profili organizzativi del processo penale e sulla sua risposta di efficienza, oggi largamente carente, il Congresso dedica una domanda specifica e stimolante alla possibilità di rispondere a talune disfunzioni dell’appello con l’abolizione del divieto di reformatio in peius, a “costo zero”.

La domanda non è nuova. Sotto forme diverse - in questo caso il risparmio di spesa per incentivare l’efficienza - ripropone un tema che ciclicamente viene ad abbattersi sul mondo del processo e della sua riforma, quando alcune condizioni ne assecondino l’emersione.

Oggi, quelle condizioni sono rappresentate dal paludoso arresto, nelle sabbie mobili parlamentari, delle iniziative sulla riforma del processo penale in genere e della prescrizione in particolare: prescrizione - va detto - che è causa della vergognosa vanificazione di tanti processi e delle censure che ci provengono a livello comunitario, specie dopo il noto caso Taricco, recentemente scrutinato dalla nostra Corte costituzionale con un esito di non liquet allo stato.

In sostanza, dal momento che l’appello costituisce indubbiamente una strettoia processuale, all’interno della quale si incanalano pressoché automaticamente tutte le pronunce sfavorevoli all’imputato; e poiché le risorse della giustizia sono quello che sono (in termini di risorse e di personale), i tempi tecnici di definizione dei processi subiscono una diluizione consistente; con gli ovvii epiloghi che ne scaturiscono sul piano della prescrizione dei reati, specie della fascia medio bassa di gravità.

In questo quadro, come è evidente, si assiste ad esempio - tra le varie patologie che ne conseguono - ad una sostanziale vanificazione di tutto l’apparato contravvenzionale; con la conseguenza di indurre verso un “innalzamento” della risposta sanzionatoria, a discapito di sistemi sanzionatoli più flessibili e di pronta attuazione. O si assiste ad una rincorsa verso l’alto delle previsioni attuali di pena edittale per delitti di particolare allarme sociale, a scopo emblematico e soprattutto di ostacolo al maturare della prescrizione.

Il tema di una seria riforma delle impugnazioni in genere e dell’appello in specie è sotto l’attenzione dei giuristi da moltissimi anni. Il problema della “coerenza” dell’appello è rimasto intonso dai tempi del codice Rocco, poiché il codice Vassalli non ha introdotto significative modifiche a questo rimedio, solo concettualmente “parzialmente devolutivo”. Tuttavia la risposta - secondo il parere di alcuni - è soltanto quella di rendere in sé “rischioso” questo mezzo di gravame, attraverso la eliminazione del più che tradizionale (non a torto, vista la nostra cultura di ispirazione liberale, non scardinata neppure dalle deformazioni massimaliste dell’epoca fascista) principio del divieto di reformatio in peius.

Se vuoi appellare - sostengono gli assertori di questa tesi - devi pagare il “dazio” di un possibile riesame sfavorevole della sentenza, a prescindere dal contenuto della domanda impugnatoria che idealmente dovrebbe costituire l’oggetto del giudizio. Chiedi giustizia sollecitando un abbassamento della pena o la concessione di attenuanti; ti si risponde “picche” aggravando la pena inflitta o applicando una aggravante che il primo giudice aveva escluso. Il tutto sulla base di un “potere di giudizio” del tutto officioso (essendo rimasta silente sul punto la parte pubblica), che - come incisivamente afferma Cordero - degraderebbe il primo giudizio ad una mera “ipotesi” di sentenza. C’è qualcosa che evidentemente non toma.

Si tratta a ben vedere di un piccolo - ma non tanto - passo indietro che non può essere giustificato neppure dall’apprezzabile intento di recuperare efficienza a “costo zero”, facendo leva sulla mancata costituzionalizzazione della garanzia del secondo grado di giudizio di merito. Esistono infatti alcuni valori di fondo nel processo che costituiscono altrettanti punti fermi di sistema, con i quali ci si deve necessariamente misurare.

Il primo - e, a mio avviso, fondamentale - fra essi è che il processo “tollera” la assoluzione “ingiusta,” mentre non tollera la condanna “ingiusta”. H principio di legalità deve infatti assistere la condanna, che può essere pronunciata soltanto in base ad una “legge” che deve essere “legalmente” applicata attraverso un “giusto processo”. Ed il processo è “giusto” solo se e nei limiti in cui condanni un determinato soggetto “giustamente” oltre che legalmente, per un fatto previsto dalla legge come reato.

Il secondo di tali valori, più in generale, è rappresentato dal rifiuto di una logica esasperata di efficientismo (non di efficienza) e di profitto. La prima rischia di risolvere l’amministrazione della giustizia soltanto in risultati statistici, trascurando la componente umana e valoriale. La seconda logica rischia di risolverla, ad esempio, soltanto in una negoziazione sull’esercizio dell’azione penale o sul patteggiamento e sul risarcimento del danno, alla luce di certe esperienze di oltreoceano nel contesto del rapporto fra la giustizia e l’impresa; o alla luce di certe forme di risarcimento pecuniario di recente introduzione, per l’espiazione della pena detentiva in condizioni di sovraffollamento contrarie al senso di umanità.

 

2.       Il favor rei, non è un paradigma meramente teorico privo di base normativa e soprattutto costituzionale, dal momento che è la stessa Carta fondamentale e le varie Carte sui diritti dell’uomo che pongono l’imputato in una condizione ontologicamente protetta da garanzie che - in senso inverso - non potrebbero trovare le stesse giustificazioni e la stessa base giuridica. D princìpio di parità delle parti è, quindi nel processo penale un criterio soltanto orientativo, per misurare i diversi poteri processuali; ma non ha nulla a che vedere con una dimensione sostanziale dei livelli di protezione.

Ciò è tanto vero che il nostro sistema - non da oggi - prevede la revisione soltanto in favor, a differenza di quanto avviene in altri Paesi - ad esempio la Gran Bretagna - ove in determinati casi è possibile un nuovo giudizio in sfavor. Allo stesso modo, la riparazione per gli “errori” giudiziari viene vista come un naturale corollario del diritto di difesa, al punto da trovare sede costituzionale proprio nell’art. 24, mentre 1’“errore di assoluzione” è in sé privo di risalto costituzionale.

In questo quadro di riferimento sembra, dunque, più che coerente mantenere una regola la quale impedisca di utilizzare strumentalmente l’appello del solo imputato, per conseguire riforme sfavorevoli della sentenza da lui solo impugnata; una regola che impedisca di avvalersi di tale strumentalizzazione per riconvertirla in uno spauracchio altrettanto strumentale di segno opposto, teso a comprimere il ricorso a quel rimedio impugnatorio.

Ma, ovviamente, qualcosa di più si può dire proprio sul piano del sistema. D processo moderno è, come tutti sappiamo, un processo di parti: e il giudice è chiamato a misurarsi sulle pretese fatte valere dai protagonisti necessari, i quali sollecitano la sua pronuncia su un tema che vede ciascuna delle parti animata da una prospettiva peculiare.

Il pubblico ministero - come titolare del munus della azione penale - è portatore di una prospettiva di legalità (l’azione penale è per definizione il “motore propulsivo” della legalità sostanziale). Poiché l’esercizio della azione presuppone la coltivabilità della accusa in dibattimento, è del tutto evidente che - una volta intervenuta la pronuncia di primo grado - l’impugnazione si proietti come semplice prosecuzione di quella stessa istanza di legalità che costituisce l’anima del potere di agire. Ciò prescinde ovviamente dallo specifico tipo di domanda impugnatoria che lo stesso pubblico ministero intenda proporre al giudice del gravame. Il principio, infatti, non soffre limitazioni anche nella ipotesi in cui, per avventura, il pubblico ministero ritenesse di proporre una impugnazione “in favore” dello stesso imputato.

L’imputato invece è portatore del diritto di difesa, nel cui ambito si colloca e si giustifica il diritto di impugnazione. La domanda di appello è ontologicamente una richiesta di revisione del precedente giudizio, saldata alla integralità della sfera entro cui quel diritto può trovare espressione secondo il diritto positivo.

Concettualmente, dunque, non è il contenuto in sé di quella domanda a rappresentare il limite del potere del giudice della impugnazione; questo lo può stabilire il legislatore, tracciando appunto il limite del tantum devolutum quantum appellatum. Il vero confine “sistematico” dell’appello è invece rappresentato proprio dal diritto che quella domanda esprime.

Se quel diritto è rappresentato dal diritto costituzionale di “difendersi provando”, non v’è dubbio che - starei per dire “ontologicamente” - il diritto di difesa preclude al giudice dell’appello qualsiasi riforma “in peggio” della sentenza di primo grado, appellata “in propria difesa” dal solo imputato. In parole semplici, la diversità ontologica delle due forme di appello del pubblico ministero e dell’imputato è legata al fatto che Luna è volta a soddisfare il princìpio di legalità sostanziale di cui è portatore il pubblico ministero. L’altra è volta a soddisfare il diritto della difesa dell’imputato.

Discende da questa duplice e differente premessa il corollario secondo cui riconoscere al giudice dell’appello sua sponte il potere di aggravare la posizione dell’imputato finisce per non soddisfare né le esigenze e le attese di legalità del pubblico ministero; né quelle di difesa dell’imputato. Non possono essere entrambe surrogate dalla iniziativa del giudice; in realtà e in ultima analisi, la reformatio in peius finisce per annullare e vanificare il significato della sentenza di primo grado.

L’eliminazione del divieto di reformatio in peius d’altra parte renderebbe davvero incongrua la pretesa del codice di richiedere, anche nei casi di appello del solo imputato, il requisito della specificità dei motivi. Un simile requisito suonerebbe incongruo ove al giudice fosse consentito uno spazio officioso di totale devoluzione, al punto da poter integralmente sovvertire la pronuncia di primo grado. I motivi di impugnazione finirebbero in tal modo per degradarsi a mera occasione di pronuncia, più che rilevare quale oggetto di pronuncia.

Per altro verso, risulterebbe totalmente frustrato lo stesso diritto al contraddittorio. Un potere integrale di revisione in capo al giudice del gravame renderebbe impossibile all’imputato di interloquire sulle ragioni (sconosciute prima della sentenza) che possono militare a favore di una pronuncia sfavorevole nei suoi confronti.

 

Last but non least, risulterebbero del tutto vanificate le numerose cautele che la nostra giurisprudenza di legittimità e quella della CEDU mostrano per il caso in cui, su impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento, il giudice di appello ritenga di condannare l’imputato, ove si ammettesse il superamento della regola del divieto di reformatio in peius. Il tutto, a testimonianza di come l’ordinamento non possa fare a meno di quella garanzia, figlia dei principi che si sono dianzi indicati.

 

3.       La tradizione del divieto della reformatio in peius conferma questa impostazione, nella sua breve ma complessa storia a partire dal c. p. p. del 1913 il cui art. 480 prevedeva il divieto di reformatio in peius in danno dell’imputato, quando non vi fosse appello del pubblico ministero.

Il divieto venne invece contestato dal Guardasigilli nel progetto di c.p.p. del 1930, che propose di riconoscere al giudice d’appello il potere-dovere di aumentare la pena inflitta in primo grado - se da esso fosse stata ritenuta inadeguata - una volta mantenuto in vita il processo ancorché per scelta dell’imputato: sia per una ragione logico-giuridica; sia per ragioni d’ordine pratico. Si voleva così eliminare la possibilità di esercitare la facoltà di appello senza rischio; anzi, col vantaggio di differire comunque l’esecuzione della pena.

A fronte delle decise e molteplici opposizioni rispetto a questa soluzione drastica, il Guardasigilli riconobbe che effettivamente il piano in tal modo proposto per gli appelli “temerari e dilatori” avrebbe vanificato - su decisione unilaterale della parte privata - la portata decisoria della sentenza di primo grado. Propose quindi al posto dell’eliminazione del divieto di reformatio in peius l’introduzione dell’appello incidentale; essa venne accolta allo specifico e dichiarato fine di limitare comunque la portata del divieto di reformatio in peius.

Le polemiche che accompagnarono l’istituto dell’appello incidentale - sia allora; sia nei successivi lavori di riforma del c.p.p. fino al progetto definitivo di riforma ed al c.p.p. vigente - non incisero tuttavia sul divieto di reformatio in peius in caso di appello del solo imputato. Esso anzi venne annoverato fra i «princìpi fondamentali del processo penale», in un obiter estremamente sintetico della sentenza n. 3 del 1974 della Corte Costituzionale.

Inoltre la nuova disciplina del divieto nell’art. 597 3° comma c.p.p. - rispetto al precedente dell’art. 515 c.p.p. 1930 - estese la sua portata all’applicazione di misure nuove o più gravi di quelle contenute nella sentenza appellata e al proscioglimento dell’imputato per una causa meno favorevole rispetto alla precedente decisione. Tale disciplina previde altresì la diminuzione della pena complessivamente irrogata, qualora fosse stato accolto l’appello dell’imputato su circostanze o reati concorrenti (art. 597 4° comma c.p.p.).

 

Come è stato osservato, non v’è dunque un semplice “travaso passivo” e tralati ciò del divieto da un codice all’altro, ma un suo ampliamento con l’aggiunta della preclusione a introdurre delle situazioni di svantaggio giuridico o di fatto per l’appellante a quella di modificare in peius la pena.

Allo stato il divieto di reformatio in peius appare perciò consolidato nella storia del processo penale, nonostante il suo carattere di eccezionalità e la disarmonia che esso introduce in un processo che dovrebbe essere ispirato ai princìpi di oralità e di immediatezza. Ma questo è un problema più ampio; è legato al ripensamento dell’appello, attraverso un suo contenimento che non ne intralci la funzione di controllo della sentenza impugnata. E un problema che richiederebbe perciò di riconoscere al controllore gli stessi poteri di cognizione e di decisione attribuiti al controllato, di fronte a sentenze frutto di errore o di ingiustizia.

In questa prospettiva soltanto potrebbe trovare accoglimento l’eliminazione del divieto di reformatio in peius, come ad esempio è previsto dalla Direttiva n. 8 di un Progetto di riforma inedito, elaborato in sede universitaria e presentato nel 2011 (.Appello e giusto processo: odierne aporie e prospettive di riforma, a cura di Bargis e Belluta). È un progetto ispirato alla logica del contenimento del secondo grado di giudizio e della sua razionalizzazione, eliminando il vincolo ai poteri decisori del giudice: così da trasformare anche l’appello del solo imputato in un controllo effettivo sulla prima decisione e da evitare la proposizione di appelli strumentali per ritardare l’esecutività della sentenza.

4.       La ricerca del fondamento del divieto di reformatio in peius sembra condurre a conclusioni analoghe a quelle che vengono suggerite dal suo tradizionale consolidamento nel sistema dell’appello.

Secondo la tesi più tradizionale, il divieto si fonda sul princìpio dispositivo che non consente al giudice di pronunciarsi ultra petita. La specifica richiesta dell’appellante - circoscritta nell’ambito di una modifica in mitins della precedente decisione - in mancanza di un’impugnazione del Pubblico Ministero “consolida” la sentenza appellata a favore dell’imputato.

Tuttavia è agevole replicare che il princìpio dispositivo e l’iniziativa di parte sono condizioni di esercizio del potere del giudice nel processo civile; non in quello penale, nel quale il potere decisorio non è vincolato ad unpetitum in senso tecnico e ad una istanza.

E agevole replicare altresì alla tesi di chi rinviene il fondamento del divieto nell’interesse ad impugnare. L’interesse in questione è presupposto e limite della ammissibilità della domanda, ma non può produrre limitazioni nel potere dell’organo chiamato a decidere.

 

In realtà, secondo l’orientamento dominante, a fondamento del divieto sembra doversi porre una previsione eccezionale ispirata al favor rei e rivolta a rafforzare le garanzie del doppio grado di giurisdizione nel merito. Si tratta di una ulteriore espressione del diritto di difesa, attraverso una limitazione del potere decisionale del giudice, fondata su una espressa disposizione di legge ed avente una natura eccezionale rispetto alla simmetria tra poteri cognitivi e poteri decisori.

A conferma del carattere eccezionale e di strumento difensivo del divieto si possono richiamare almeno due corollari significativi. Per un verso i limiti posti al giudice dell’appello riguardano esclusivamente il dispositivo e non la motivazione e le valutazioni e qualificazioni in essa contenute, né la correttezza di queste ultime sotto il profilo giuridico. Per un altro verso il divieto ha il solo scopo di impedire un trattamento sanzionatorio più severo di quello inflitto dal primo giudice. Si pensi ad esempio alla possibilità - riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità al giudice di appello - di ravvisare una responsabilità dell’imputato a titolo di dolo anziché a titolo di colpa, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di primo grado.

H riferimento prioritario dell’art. 596 3° comma c.p.p. alla “pena più grave per specie o quantità”; la tipizzazione normativa esplicita delle ulteriori ipotesi di divieto; i contrasti e l’elaborazione giurisprudenziale sulla casistica di tale divieto: sono tutti sintomi evidenti del suo carattere difensivo e in certo qual modo della sua posizione compromissoria rispetto al potere- dovere di decisione del giudice d’appello.

5.       Conclusioni identiche a quelle desumibili dalla ricerca del fondamento del divieto di reformatio in peius si traggono infine dal rapporto fra esso e l’istituto dell’appello incidentale. La storia di quest’ultimo - più complessa di quella del divieto di reformatio in peius - è efficacemente sintetizzata dalla sentenza n. 280 del 1995 della Corte Costituzionale in sé e nel suo collegamento con tale divieto.

Anche l’appello incidentale venne proposto nell’elaborazione del c.p.p. del 1913, ma non venne accolto a differenza del divieto di reformatio in peius ad esso antagonista; fu poi oggetto di contestazioni nell’elaborazione del c.p.p. del 1930. Venne introdotto in quest’ultimo all’art. 515, per frenare comunque la facoltà di impugnazione dell’imputato, al fine di consentire una reformatio in peius su appello del pubblico ministero che non lo avesse originariamente proposto; per consentire l’aumento di pena, la revoca di benefici o l’applicazione di pene accessorie, con riferimento ai soli capi della decisione di primo grado investiti dall’appello principale dell’imputato.

L’appello incidentale del pubblico ministero non venne modificato con la riforma del processo introdotta con L. n. 517 del 1955. Venne invece dichiarato incostituzionale nel contesto di alterne vicende, con la sentenza n. 177 del 1971. Fu successivamente reintrodotto nella stesura definitiva del c.p.p. vigente, estendendolo a tutte le parti diverse dal pubblico ministero e prevedendone la perdita di efficacia nel caso di inammissibilità o rinuncia all’appello principale.

Ad avviso della Corte Costituzionale «è del tutto fuorviante... guardare all’appello incidentale con la stessa ottica con cui si guarda all’appello principale...». Non si può considerare quell’appello soltanto come un «deterrente» riconosciuto al Pubblico Ministero per scoraggiare la presentazione dell’appello principale da parte dell’imputato al fine di migliorare la propria posizione; o quanto meno al fine di perseguire la prescrizione del reato, senza correre il rischio di perdere il risultato già acquisito con la sentenza di primo grado.

Una simile conseguenza per la Corte è di «scarso rilievo... un effetto collaterale e non necessario dell’istituto dell’appello incidentale del Pubblico Ministero». Invece le due forme di appello esprimono poteri e momenti diversi: il primo (l’appello principale) guarda al passato e agli effetti della sentenza impugnata; il secondo (l’appello incidentale) guarda al futuro e alla prevenzione di ulteriori e diversi effetti possibili come conseguenza della riforma della sentenza.

Secondo la Corte ciascuna delle parti può impugnare la decisione di primo grado che non risponda alle sue aspettative o farvi acquiescenza. Invece, di fronte alla sentenza di secondo grado resa possibile dall’appello di una parte, è giustificato che la parte in precedenza risoltasi a fare acquiescenza abbia a disposizione lo strumento dell’appello incidentale, se non intende sacrificare le proprie ragioni al di là di quanto già accettato con la propria acquiescenza. In ultima analisi, la Corte considera l’appello incidentale del Pubblico Ministero come un onere rivolto a cercare di impedire gli eventuali effetti favorevoli che potrebbero derivare per l’imputato dall’accoglimento del suo appello principale; non come uno strumento per disincentivare la proposizione di quell’appello.

6.       La nuova prospettiva formulata dalla Corte Costituzionale per l’appello incidentale consente di guardare al divieto di reformatio in peius come espressione del favor rei, al pari delle prospettive desumibili rispettivamente dal suo consolidamento nel processo e dal suo fondamento. Secondo tale prospettiva quel divieto è un’ulteriore proiezione del diritto di difesa; è un suo rafforzamento voluto dal legislatore per la garanzia offerta dal doppio grado di giurisdizione di merito, ancorché non costituzionalizzato.

Non è in sé una scelta costituzionalmente imposta; ma è comunque perseguita dal legislatore attraverso la delimitazione esplicita del potere decisorio in peius del giudice d’appello. Quel potere è sottratto - secondo uno sviluppo logico e coerente dell’indicazione della Corte Costituzionale - alla volontà di introdurre un meccanismo limitativo delle possibilità di scelta difensiva dell’imputato. Non è prevista la sua trasformazione in una sorta di “ricatto” o quanto meno di un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, che vengano rimessi alla discrezionalità del pubblico ministero.

Quest’ultimo, per proporre un appello incidentale come quello principale, per decidere se impugnare la sentenza, «deve interrogare la propria coscienza... e determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia», al pari di quanto gli è prescritto per l’appello principale: con riferimento specifico, per l’appello incidentale, alle conclusioni cui potrebbe pervenire la sentenza di secondo grado in accoglimento di quello principale dell’imputato. Così si esprime la sentenza n. 280 del 1995 della Corte Costituzionale, a proposito del potere di impugnazione del pubblico ministero. Esso non è in alcun modo collegato dalla Corte con l’obbligo di esercitare l’azione penale; ma non sembra neppure suscettibile di collegarsi con un potere e tanto meno con un obbligo di ridurre lo spazio dell’esercizio del potere di difesa da parte dell’imputato.

A questo punto diventa agevole la risposta negativa alla domanda con cui si sono introdotte la terza sessione del nostro incontro e la presente riflessione: se la riduzione del contenzioso derivante dalla abolizione a “costo zero” del divieto di reformatio in peius debba essere considerata «un’inaccettabile compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito o una semplice e auspicabile rimodulazione dell’ergonomia procedimentale».

Non sembra proprio che in questo caso si possa parlare di una semplice “rimodulazione”, ma piuttosto di una “compressione” che anche formalmente assume un rilievo paradossale: per limitare una forma di abuso dell’appello da parte dell’imputato se ne introduce un’altra antagonista da parte del pubblico ministero. E ciò invece di razionalizzare l’appello dell’imputato introducendovi dei limiti; o trasformandolo in un controllo effettivo sulla prima decisione ed in un esame sulla fondatezza dei motivi d’appello in vista di un reale interesse alla riforma di merito della decisione impugnata, anziché in un intervento strumentale ai fini della prescrizione del reato; oppure ed infine intervenendo direttamente su quest’ultima.

 



[1] * Intervento nella terza sessione del Congresso Nazionale di Magistratura Indipendente, Quale giustizia? Le proposte di MI. Torino, 4 febbraio 2017.

 

 
 
 
 
 
 

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