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DIRITTO PUBBLICO

Le fonti del diritto nel sistema dei raccordi dell’ordinamento statale con gli altri ordinamenti

  Diritto pubblico 
 mercoledì, 15 novembre 2017

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Paolo Spaziani, magistrato addetto all'ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione

 
 

 

 

1. La pluralità degli ordinamenti e le fonti del diritto.- 2. L’ordinamento statuale e le fonti interne. Perdurante applicabilità dei criteri di gerarchia, cronologia e specialità.- 3. I raccordi con gli ordinamenti internazionali e sovranazionali e le modalità con le quali le fonti di questi ordinamenti diventano operanti nell’ordinamento statuale. Raccordo con il diritto internazionale generale.- 4. Raccordo con gli ordinamenti sopranazionali cessionari di sovranità che perseguono gli obiettivi di cui all’art. 11 Cost. L’ordinamento dell’Unione europea.- 5. Raccordo con il diritto internazionale pattizio. La Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). - 6. I Raccordi con gli ordinamenti che si collocano all’interno di quello dello Stato. L’ordinamento regionale.

 

 

1. La pluralità degli ordinamenti e le fonti del diritto

 

Nell’epoca in cui ha trovato concreta realizzazione l’idea del Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti giuridici e la centralità dell’ordinamento statuale è messa in crisi da una molteplicità di altri ordinamenti che si collocano a vari livelli, all’esterno e all’interno di quello dello Stato[1], può parlarsi ancora di un sistema delle fonti del diritto?

È ancora possibile individuare nella Costituzione, se non una vera e propria Grundnorm alla quale tutte le altre fonti sono gerarchicamente subordinate, quanto meno una fonte ordinante che, attraverso la previsione di diversi raccordi (artt. 10, 11, 117)  consenta  l’applicabilità di criteri specifici (in particolare gerarchia e competenza) per la risoluzione delle possibili antinomie tra le norme introdotte dalle diverse fonti?

Oppure deve piuttosto negarsi l’esistenza di un sistema e il giudice deve cercare nel panorama disordinato delle fonti provenienti dai vari ordinamenti la norma applicabile in base allo standard più favorevole, in base al principio della “massima espansione della tutela dei diritti fondamentali”[2]?

Chi scrive non ha la presunzione di dare una risposta a questo quesito, non possedendo gli strumenti del costituzionalista. Da pratico del diritto - ed al solo fine di consentire al giudice comune di affrontare i problemi concreti che si pongono in sede applicativa - si accontenterà, invece, di tentare di realizzare un prospetto di carattere orientativo sulle  modalità attraverso le quali, mediante i raccordi previsti dalla Costituzione, le fonti degli altri ordinamenti, divenute operanti nell’ordinamento dello Stato, interagiscono con le fonti interne proprie di quest’ultimo.

Prima di compiere questo tentativo sono necessarie due osservazioni.

In primo luogo, occorre avvertire che il tentativo risentirà non solo dei limiti di un approccio da pratico del diritto ma anche di quelli derivanti dalla circostanza che l’autore si occupa esclusivamente di questioni di diritto civile come Magistrato dell’Ufficio del Massimario applicato alla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione. Il tentativo ricostruttivo sarà dunque compiuto avendo come cartina di tornasole fattispecie concrete (per lo più di diritto privato) che sono state - o che avrebbero potuto essere - poste all’attenzione delle Sezioni civili della Corte di Cassazione.

In secondo luogo è opportuno osservare che quando Vezio Crisafulli, ricostruito il sistema delle fonti del diritto, individuò i quattro criteri di soluzione delle antinomie (gerarchia, cronologia, specialità, competenza)[3], vi era già una pluralità di ordinamenti e di fonti normative esterne che si affiancavano alle fonti interne ma non vi era – o non era ancora così sviluppata ed importante – la pluralità di centri applicativi, e cioè di organi giurisdizionali operanti a vari livelli chiamati a fare applicazione delle medesime norme, poiché le (pressoché) uniche sentenze erano quelle della giurisdizione statuale.

 Oggi invece il giudice comune non solo è chiamato a risolvere le antinomie tra le norme poste dalle fonti interne e quelle poste dalle fonti esterne (e talora a fare diretta applicazione di queste ultime) ma deve tenere conto delle pronunce delle Corti sovranazionali, divenute sempre più importanti e numerose. Il tema del rapporto tra fonti (che evoca la presenza di un unico interprete posto dinanzi ad una pluralità di norme) sembra dunque superato dal tema del rapporto tra Corti (che evoca il dialogo tra giudici diversi sull’interpretazione ed applicazione delle medesime norme).

Chi scrive ritiene che entrambi i concetti vadano considerati e sviluppati in funzione della ricostruzione del sistema. Il tema del rapporto tra le fonti assume rilevanza soprattutto in relazione all’esigenza di armonizzazione tra fonti derivanti da ordinamenti diversi con i quali l’ordinamento statuale si raccorda attraverso i meccanismi previsti dalla Costituzione. Il tema del rapporto tra le Corti assume rilevanza in funzione della valorizzazione dei meccanismi di dialogo tra i diversi organi giurisdizionali, ed in particolare dell’istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (art. 267 TFUE) e del parere consultivo che i giudici di ultima istanza potranno preventivamente richiedere alla Corte EDU, ai sensi del Protocollo n. 16 alla Convenzione EDU[4] .

 

 

2. L’ordinamento statuale e le fonti interne. Perdurante applicabilità dei criteri di gerarchia, cronologia e specialità

 

Per esigenze espositive consideriamo anzitutto isolatamente l’ordinamento statuale e le fonti normative che promanano direttamente da esso, al di fuori della dinamica della pluralità degli ordinamenti distribuiti a livello sovranazionale o endostatale.

Le fonti promananti direttamente dall’ordinamento statuale (Costituzione, leggi ed atti con forza di legge, regolamenti) continuano a porre rilevanti problemi per l’interprete (si pensi ad es. alle questioni cui dà luogo il controllo di costituzionalità sui decreti-legge e sui decreti legislativi ovvero ai rapporti tra la potestà regolamentare e il principio di legalità) ma tra questi problemi non vi è quello dell’armonizzazione dei loro reciproci rapporti, che continuano ad essere regolati dai classici criteri della gerarchia, cronologia e specialità.

Sotto questo profilo qualche problema può sorgere unicamente con riguardo alla figura, relativamente nuova dopo la “privatizzazione” del pubblico impiego, dei contratti collettivi nazionali di lavoro pubblico stipulati secondo gli artt. 40 e ss. d.lgs. n. 165/2001.

  Come è noto, con riguardo al rapporto di lavoro privato, la mancata attuazione dell’art.39 Cost., nella parte in cui prevede sindacati registrati con personalità giuridica e con possibilità di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes, esclude che i contratti collettivi postcorporativi o di diritto comune (a differenza di quelli corporativi: art.1 disp. prel. c.c.), possano essere considerati fonti del diritto oggettivo ed induce, invece, a qualificare gli stessi come meri atti di autonomia privata.

Questa ricostruzione non è automaticamente trasferibile nell’ambito del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Occorre infatti prendere atto che il d.lgs. n.165/2001 costruisce, per i contratti ed accordi collettivi deputati alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico, un sistema particolare, del tutto diverso e persino incompatibile con il sistema dei contratti collettivi di diritto comune.

In primo luogo, lo stesso decreto legislativo n. 165/2001 include i contratti e accordi collettivi stipulati secondo le norme di cui agli artt.40 ss. nel sistema delle fonti (art.2, comma 2).

In secondo luogo, il procedimento di contrattazione collettiva culmina, per lo meno limitatamente ai contratti ed accordi collettivi nazionali, con la loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, con conseguente operatività del principio iura novit curia (art.47, comma 8).

In terzo luogo, infine, è contemplata la possibilità di ricorrere per cassazione per violazione o falsa applicazione delle norme in essi contenute (art.63, comma 5).

Sulla base di questo sistema, si può sostenere l’opinione volta ad attribuire ai contratti collettivi nazionali deputati alla disciplina del lavoro pubblico la natura di vere e proprie fonti del diritto oggettivo.

Questa opinione, sebbene non sia stata affermata expressis verbis, sembra aver trovato ingresso sia nella giurisprudenza della Corte Costituzionale[5] sia nella giurisprudenza della Corte di Cassazione[6].

L’inserimento dei contratti collettivi nazionali di lavoro pubblico nel sistema delle fonti del diritto non assume rilevanza meramente teorica e classificatoria, ma determina conseguenze concrete che assumono importanza determinante in sede applicativa.

Si pensi in primo luogo ai canoni da utilizzare ai fini dell’interpretazione delle norme contrattuali. Se si accede alla tesi secondo cui i contratti in esame sono fonti del diritto, l’interprete non deve applicare i criteri ermeneutici di cui agli artt.1362 s. c.c., pacificamente utilizzabili nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto privato, ma deve applicare l’art.12 disp. prel. c.c..

Si pensi ancora – e principalmente – al criterio da utilizzare ai fini della soluzione degli eventuali contrasti tra norma collettiva e norma di legge. La tradizionale qualificazione del contratto collettivo come atto negoziale induce necessariamente a fare riferimento alle classiche categorie dell’autonomia contrattuale (art.1322 c.c.) e della nullità (art.1418 c.c.). Precisamente, nell’ipotesi in cui la clausola collettiva sia in contrasto con una norma di legge derogabile, la clausola deve reputarsi prevalente, in quanto le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto anche in deroga a norme dispositive, mentre, nell’ipotesi in cui la clausola collettiva sia in contrasto con una norma di legge cogente, la clausola deve reputarsi nulla per contrarietà a norma imperativa, dalla quale viene automaticamente sostituita (art.1419 c.c.).

Queste categorie non possono essere applicate in funzione della soluzione delle antinomie eventualmente sussistenti tra contratto collettivo deputato alla disciplina del lavoro pubblico e legge, una volta che il primo sia stato qualificato come fonte del diritto oggettivo. Coerentemente con tale qualificazione, l’antinomia tra norma contrattuale e norma legislativa deve infatti essere risolta facendo ricorso ai tradizionali criteri di raccordo tra le fonti. Quanto alla scelta del criterio da utilizzare, la mancanza di una norma sulle fonti (analoga a quella contenuta nell’art.1 disp. prel. c.c., riferita alle norme corporative) che stabilisca la sussistenza di un rapporto di gerarchia tra le norme contrattuali e le norme di legge, impone di escludere il ricorso al criterio gerarchico, mentre la lettera dell’art.2, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n.165/2001, che espressamente utilizza la categoria dogmatica della “deroga” , impone, ad avviso di chi scrive, di fare ricorso al criterio della specialità inquinato da quello della competenza ritenendo le norme contrattuali, in quanto riferite a particolari comparti dell’amministrazione o a particolari categorie di pubblici dipendenti, speciali (e dunque prevalenti) rispetto a quelle di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, se ciò sia espressamente previsto dalla legge stessa (art. 2 d.lgs. n. 165/2001 come modificato dalla L. 4 marzo 2009, n. 15 e dal d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150).

 

 

3. I raccordi con gli ordinamenti internazionali e sovranazionali e le modalità con le quali le fonti di questi ordinamenti diventano operanti nell’ordinamento statuale. Raccordo con il diritto internazionale generale

 

Consideriamo ora l’ordinamento statuale non più isolatamente ma unitamente alla pluralità degli altri ordinamenti giuridici che si distribuiscono su diversi livelli, ed in particolare in relazione a quelli che si pongono a livello sovranazionale. Attraverso i raccordi con l’ordinamento statuale, le fonti proprie di questi ordinamenti diventano, «in un modo o in un altro»[7], operanti nell’ordinamento statuale.

Il raccordo tra l’ordinamento statuale e il diritto internazionale generale avviene sulla base dell’art. 10, primo comma, Cost., secondo il quale “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

Sul piano strutturale la norma di diritto internazionale generale (o consuetudinario) richiede due requisiti costitutivi, quello oggettivo o materiale (diuturnitas: continua ripetizione di un certo comportamento da parte della generalità dei soggetti) e quello subiettivo o psicologico (opinio iuris ac necessitatis: convinzione che il comportamento sia giuridicamente doveroso). Le norme consuetudinarie obbligano tutti i soggetti (anche il c.d. obiettore persistente) e per questo si dicono “generali” a differenza delle norme dei trattati che obbligano solo gli Stati stipulanti. Tra le due fonti non vi è rapporto di gerarchia in quanto, sebbene la vincolatività dei trattati trovi fondamento nel diritto consuetudinario (in particolare, nella norma pacta sunt servanda), tuttavia le norme consuetudinarie e le norme convenzionali sono reciprocamente derogabili. Ciò pone un problema teorico in quanto le norme internazionali pattizie entrano nell’ordinamento dello Stato mediante il diverso raccordo costituito, come si vedrà, dalla disposizione contenuta nell’art. 117 Cost.. In base a questo raccordo assumono, nell’ordinamento interno, un rango sub-costituzionale, ma nell’ordinamento di provenienza sono in grado di derogare alle norme consuetudinarie le quali vengono poste, mediante il recepimento ex art. 10 Cost., su un rango equivalente a quello costituzionale. Alla regola della derogabilità ad opera delle norme pattizie fanno eccezione soltanto alcune norme consuetudinarie che, per essere poste a tutela di beni o valori ritenuti fondamentali dalla comunità internazionale nel suo insieme, sono riconosciute come imperative, o inderogabili (Ius cogens). Espressione di questo zoccolo duro sono i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” richiamati dall’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, che si riconducono ai principi universalmente accettati (ad es. il rispetto della dignità umana), evocati per sanzionare le violazioni gravi (gross violations) come genocidio, crimini di guerra, apartheid.

a)    Rapporti tra le norme internazionali generali e le norme Costituzionali.

Si ritiene prevalentemente che il recepimento attraverso l’art. 10 Cost. attribuisca al diritto internazionale generale un rango equivalente a quello costituzionale. Al riguardo sono state prospettate due tesi: la prima tesi - cui ha aderito la Corte Costituzionale[8] - ritiene che il limite di ingresso delle norme internazionali generali, alle quali l’ordinamento italiano si conforma ex art. 10 Cost., è costituito dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale  e dai diritti inalienabili della persona, con la tutela dei quali le norme internazionali non possono contrastare; la seconda tesi afferma la preminenza assoluta delle norme internazionali generali che vengono proiettate in una dimensione supercostituzionale, sul rilievo che la regola dell’art. 10 non è limitabile in quanto con essa lo Stato semplicemente si adegua ad un principio dell’ordinamento internazionale[9].

Al riguardo si segnala la sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 2014.

Il Tribunale di Firenze aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati per gli atti compiuti iure imperii nel territorio dello Stato del giudice adìto, così come interpretata dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) nella sentenza Germania c. Italia del 3 febbraio 2012, nella parte in cui comprende tra gli atti iure imperii sottratti alla giurisdizione di cognizione anche i crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona, commessi in Italia e in Germania nei confronti di cittadini italiani nel periodo 1943-1945 dalle truppe del Terzo Reich.

La censura era stata formulata in riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., sul presupposto che, impedendo l’accertamento giurisdizionale e la valutazione della pretesa di risarcimento dei danni derivanti dalle gravi violazioni dei diritti fondamentali subite dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità, commessi da altro Stato, anche se nell’esercizio di poteri sovrani, la norma contrasterebbe con il principio di insopprimibile garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti, consacrato nell’art. 24 Cost., che rientrerebbe tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano e, quindi, costituirebbe un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute, ex art. 10 Cost., ed opererebbe come controlimite per le norme contenute nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall'art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni e oggetto di leggi di adattamento.

Nel delibare la questione la Corte ha statuito che:

a) spetta alla Corte Costituzionale verificare l’eventuale contrasto delle norme internazionali consuetudinarie con  i principi fondamentali e i diritti inviolabili  che, integrando principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale dello Stato, costituiscono un limite all’ingresso per il diritto internazionale generale ex art. 10 Cost. e operano come controlimiti rispetto alle norme promananti dai trattati istitutivi e dagli organi delle organizzazioni internazionali aventi gli scopi di cui all’art. 11 Cost.[10];

b) tale verifica di compatibilità va fatta in base al principio di conformità, cioè avuto riguardo al significato della norma internazionale come interpretata dalla Corte Internazionale di Giustizia[11];

 c) nell’ipotesi in cui il risultato della verifica dia effettivamente conto di un insanabile contrasto, non vi è spazio per una declaratoria di illegittimità della norma internazionale. Non si tratta infatti di togliere dall’ordinamento una norma illegittima perché quella norma non è mai entrata nell’ordinamento: il limite di ingresso ha operato nel senso di impedirne l’entrata. Dunque il giudice comune non deve applicarla. Ne deriva, per un verso, che il giudice comune deve adire la Corte Costituzionale perché la verifica del contrasto spetta ad essa; per altro verso, tuttavia, la questione di legittimità costituzionale va dichiarata infondata perché la norma censurata non è entrata nell’ordinamento[12].

Nel merito, la Corte ha ritenuto che effettivamente, nella specie, la norma internazionale consuetudinaria rendesse manifesto il denunciato contrasto atteso che il diritto alla tutela giurisdizionale rientra tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. La tutela di questo diritto può subire limitazioni solo in presenza di un preminente interesse pubblico il quale può sussistere, con riguardo agli atti compiuti iure imperii, solo in relazione a quelli che costituiscono legittimo esercizio della funzione sovrana nelle sue tipiche estrinsecazioni, non anche in relazione a quelli che degenerano in atti criminali contro l’umanità. Dunque attraverso il rinvio dell’art. 10 Cost. la norma consuetudinaria è entrata solo in parte nell’ordinamento statuale: è entrata nella parte in cui prevede l’immunità dalla giurisdizione per gli atti iure imperii che costituiscono legittimo esercizio della potestà sovrana, non anche per la parte che estende tale immunità agli atti che sono posti in essere in violazione del diritto internazionale e dei diritti fondamentali della persona[13].

 

 

4. Raccordo con gli ordinamenti sopranazionali cessionari di sovranità che perseguono gli obiettivi di cui all’art. 11 Cost. L’ordinamento dell’Unione europea

 

Il raccordo con questi ordinamenti (ONU, Unione europea) avviene sulla base  dell’art. 11 Cost., secondo il quale l'Italia … consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni[14].

Le fonti dell’ordinamento dell’Unione europea pongono norme direttamente efficaci nello Stato ma restano fonti estranee all’ordinamento statuale; esse includono i trattati istitutivi e modificativi, i regolamenti, le direttive, le sentenze della Corte di giustizia. Queste ultime, in particolare, sono fonti non in quanto producono nuove norme, ma in quanto chiariscono il significato di quelle esistenti con efficacia non limitata al processo in cui sono rese ma estesa ultra partes ed erga omnes. Esse inoltre sono retroattive, cioè si applicano sin dal momento in cui è entrata in vigore la norma comunitaria di cui chiariscono il significato, salvo che la stessa Corte ne escluda la retroattività.

a)    Rapporti tra norme di legge interna e norme UE.

            Per effetto dell’art. 11 Cost. le norme poste dalle fonti dell’ordinamento dell’UE acquistano efficacia obbligatoria diretta  nell’ordinamento nazionale. Esse assumono preminenza rispetto alle norme di legge interna,  in virtù del primato del diritto comunitario,  con il solo limite dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili della persona (cc.dd. controlimiti).

Il giudice nazionale deve verificare d’ufficio la compatibilità delle norme del diritto interno con quelle del diritto comunitario, procedendo, ove riscontri una antinomia, in primo luogo ad interpretare le prime in conformità alle seconde, eventualmente promuovendo (ma se si tratta del giudice nazionale di ultima istanza sussiste un vero e proprio obbligo in tal senso), il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Ove l’interpretazione conforme non sia possibile e l’antinomia non sia componibile, il giudice non deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 11 Cost.  ma deve direttamente applicare la norma europea  con contestuale disapplicazione della norma nazionale contrastante. La questione di legittimità costituzionale va peraltro sollevata nell’ipotesi in cui la norma europea non sia direttamente efficace[15].

b) Rapporti tra norme UE e norme costituzionali.

Nel momento in cui entra, attraverso l’art. 11 Cost., nell’ordinamento statuale, il diritto europeo prevale sul diritto interno in ragione della preminenza del diritto comunitario.

Secondo il tradizionale orientamento della Corte Costituzionale, tuttavia, il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento sovranazionale è costituito, come per il diritto internazionale generale recepito ex art. 10 Cost., dal rispetto dei diritti fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo[16].

Questi principi, mentre costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10 Cost.[17], operano invece come controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea, rappresentando gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla possibilità di revisione costituzionale[18].

Ne deriva che nell’ipotesi - improbabile ma pur sempre astrattamente possibile - di contrasto di una norma europea con tali principi, il giudice deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente l’ingresso di quella norma incompatibile con gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale[19].

Nel tema dei rapporti tra norme UE e norme costituzionali rientra la questione, di grande attualità nel diritto civile, relativa alla legittimità delle limitazioni normative del risarcimento del danno alla persona, liquidato ormai sotto la voce unitaria di danno non patrimoniale[20], che, in quanto danno derivante da lesioni di interessi insuscettibili di valutazione economica, deve necessariamente essere determinato con criterio equitativo (art. 1226 c.c.)[21].

  I criteri attualmente utilizzati per l’esercizio del potere giudiziale di liquidazione equitativa del danno alla persona sono costituiti dalle tabelle giudiziali e, per le lesioni derivanti da sinistri stradali, dalle tabelle ministeriali emesse in base agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (d.lgs. n. 209/2005, le quali, pur prevedendo percentuali di personalizzazione in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato nel caso concreto, fissano tuttavia un limite massimo.

Un limite massimo stabilisce altresì il d.d.l. recante “Modifiche alle disposizioni per l’attuazione del codice civile in materia di determinazione e risarcimento del danno non patrimoniale”, già approvato dalla Camera dei deputati ed attualmente all’esame della Commissione giustizia del Senato (AS 2755; AC 1063).

 Questo disegno di legge, precisamente, prevede l’introduzione, dopo l’art. 84 delle disposizioni di attuazione del codice civile, di un ulteriore norma (l’art. 84 bis), la quale dovrebbe prevedere, al primo comma, i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico-fisica e di quello derivante dalla perdita di un rapporto di tipo familiare, attraverso il rinvio alle tabelle contenute negli allegati alle medesime disposizioni, da aggiornarsi annualmente con decreto del Ministro della salute; mentre, al secondo comma,  dovrebbe prevedere che l’ammontare del danno così liquidato «può essere aumentato dal giudice in misura non superiore al 50 per cento con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato».

La previsione legislativa di un limite massimo alla liquidazione giudiziale del danno alla persona certamente collide con il principio del danno effettivo, alla stregua del quale il risarcimento deve coprire integralmente il pregiudizio subìto dalla vittima dell’illecito.

Si discute peraltro se tale principio abbia copertura costituzionale.

Mentre la dottrina appare divisa[22], la Corte Costituzionale ha dato soluzioni diversificate che sembrano lasciare il problema aperto:

a)  Coste Cost. 28 ottobre 2011, n. 157 ha dichiarato inammissibile per carenza di prospettazione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del Codice delle assicurazioni private, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost., nella parte in cui tale norma, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato su rigidi parametri fissati da tabelle ministeriali, non consentirebbe di giungere ad un’adeguata personalizzazione del danno;

b)  Corte Costituzionale 6 maggio 1985, n. 132  ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con l’art. 2 Cost., della legge di esecuzione della Convenzione di Varsavia sul trasporto aereo internazionale del 1929, nella parte in cui ha dato esecuzione all’art. 22 della Convenzione medesima, che prevede limitazioni alla responsabilità del vettore per i danni subìti dai passeggeri. Premesso che il legislatore deve soddisfare le esigenze di contemperamento tra la tutela del diritto al risarcimento integrale, quando il bene leso dal sinistro è l’incolumità fisica o la vita (che trova copertura costituzionale nell’art.2 Cost.) e quella dell’iniziativa economica connessa con il traffico aereo, la quale riveste indubbia e crescente utilità sociale, ed è anch’essa costituzionalmente protetta, fin dove giunge la guarentigia dell'art. 41 Cost. - e premesso pertanto che in tale prospettiva la limitazione della responsabilità del vettore si appalesa giustificata solo in quanto siano al tempo stesso predisposte adeguate garanzie di certezza od adeguatezza per il ristoro del danno - la Corte ha rilevato che le limitazioni risarcitorie previste dalla Convenzione di Varsavia, risalente al 1929, stipulata in un’epoca in cui l’industria del trasporto aereo, ancora all’inizio ed esposta a sensibile rischio, richiedeva adeguate misure protettive, non costituiscono strumento adeguato a soddisfare le predette esigenze e si traducono in una previsione ingiustificata nella quale difetta del tutto la tutela del danneggiato[23];

c) Corte Cost.16 ottobre 2014, n.235 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del codice delle assicurazioni, sul rilievo che l’introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno, attinente al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica, lascia spazio al giudice per personalizzare l’importo risarcitorio risultante dall’applicazione delle tabelle, che può essere maggiorato di un quinto avuto riguardo alle condizioni soggettive del danneggiato.

Con questa sentenza la Corte Costituzionale ha espressamente richiamato la pronuncia della Corte di Giustizia 23 gennaio 2014 C371/12, emessa in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, la quale aveva affermato la conformità alle direttive europee che regolano la materia dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dalla circolazione di autoveicoli, della legislazione nazionale volta a stabilire “un particolare sistema di risarcimento dei danni morali derivanti da lesioni corporali di lieve entità causate da sinistri stradali, che limita il risarcimento di tali danni rispetto a quanto ammesso in materia di risarcimento di danni identici risultanti da cause diverse da detti sinistri”.

La circostanza che al problema dell’eventuale copertura costituzionale del principio dell’integralità del risarcimento del danno alla persona non è stata data ancora una risposta definitiva da parte del giudice delle leggi, apre alla possibilità che la questione sia nuovamente sottoposta alla Corte Costituzionale, specie se dovesse entrare in vigore il nuovo disegno di legge volto a prevedere un tetto massimo in via generale, senza avere riguardo alle particolari circostanze del caso concreto.

La norma volta a prevedere una siffatta limitazione, in grado di pregiudicare la riparazione integrale del pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, potrebbe infatti essere ritenuta in contrasto con l’art. 2 Cost. in quanto lesiva della dignità della persona umana [24].

Essa, dunque, non solo sarebbe costituzionalmente illegittima ma si porrebbe in collisione con uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e cioè con un principio che opera come controlimite all’ingresso delle norme dell’Unione europea.

Si porrebbe allora il problema dell’eventuale contrasto tra la disciplina di diritto comunitario che trova fondamento nella decisione della Corte di Giustizia e nelle Direttive in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione stradale e la tutela assicurata da un principio costituzionale fondamentale.

  

 

5. Raccordo con il diritto internazionale pattizio. La Convenzione europea dei diritti umani (CEDU)

 

Il raccordo tra l’ordinamento statuale e il diritto internazionale pattizio avviene sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., secondo il quale la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali[25].

a)      Rapporti tra norme di legge interna e norme CEDU.

La nuova formulazione dell’art.117 Cost. impone che la potestà legislativa venga esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Per effetto di questa previsione, le norme di diritto internazionale pattizio, ed in particolare quelle della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (Convenzione EDU), hanno assunto la natura di regole interposte tra la legge e il parametro costituzionale che sono deputate ad integrare. In ragione di ciò, le eventuali antinomie tra norme interne e norme convenzionali non sono più regolate dal mero criterio cronologico di raccordo tra le fonti del diritto[26], ma dal diverso criterio in base al quale la prevalenza spetta sempre alla norma della convenzione, con la conseguenza che, sebbene al giudice non sia consentito procedere all’applicazione diretta di quest’ultima, tuttavia egli è tenuto ad interpretare le norme di diritto interno in senso conforme alle norme convenzionali, e, nei casi in cui l’interpretazione conforme non risulti possibile, a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione del citato parametro costituzionale, come integrato dalla norma convenzionale[27].

Il sistema non è mutato successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1°dicembre 2009) con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (già trattato istitutivo della Comunità Europea), in quanto la Corte Costituzionale non ritiene, allo stato, che l’avvenuta “comunitarizzazione” della Convenzione EDU – operata mediante il riconoscimento (art.6, par.1, nuova formulazione, del Trattato sull’Unione Europea) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza)[28] – consenta di ricondurre le norme della Convenzione sotto la copertura dell’art.11 Cost., e di accedere conseguentemente alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale, con contestuale disapplicazione della norma interna contrastante[29].

 Il significato da attribuire alle norme della CEDU (in funzione della soluzione delle eventuali antinomie con le regole di diritto interno attraverso l’interpretazione conforme e, quale extrema ratio, attraverso l’eccezione di illegittimità costituzionale) non è quello che risulta dal testo normativo in sé considerato, ma quello che esse assumono nelle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, quale organo giurisdizionale deputato a fornirne l’esatta interpretazione[30].

Un concreto esempio di interpretazione conforme si ravvisa nella lettura fornita da Cass. 7 giugno 2011 n.12408 dell’art. 1226 c.c. in tema di liquidazione equitativa del danno.

Con la sentenza 13 settembre 2011, Z. v. Serbia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito che profonde e persistenti incertezze negli orientamenti interpretativi di un organo giurisdizionale sono idonee a ledere il diritto ad un equo processo garantito dall’art.6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. Dinanzi ad un ricorso proposto da un cittadino serbo, i giudici di Strasburgo hanno chiarito che “per quanto un certo grado di difformità nell’interpretazione giurisprudenziale possa essere considerato un tipico connotato di ogni sistema giudiziario distribuito, come quello serbo, in una fitta rete di differenti organi giudiziari di primo e secondo grado, nel caso di specie le divergenti interpretazioni promanavano dalla medesima Autorità giudiziaria (la Corte distrettuale di Belgrado) e si traducevano nella differente soluzione di casi identici portati alla sua attenzione” (§ 44-47). In piena sintonia con tale giudizio, la Corte di cassazione, con la sentenza 7 giugno 2011 n.12408, in sede di interpretazione dell’art. 1226 c.c., prendendo le mosse da una nozione di equità, intesa non solo, tradizionalmente, come criterio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno (e dunque come criterio liquidatorio volto a garantire una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto), ma anche come regola volta ad assicurare uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, ha ritenuto che la predetta uniformità di trattamento è garantita dal riferimento al criterio di liquidazione predisposto dalle Tabelle milanesi elaborate a partire dal 2009, già ampiamente diffuso sul territorio nazionale, al quale deve quindi riconoscersi, in via generale, ai sensi dell’art.3 Cost., la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa operata dal giudice alle disposizioni di cui agli artt.1226 e 2056 c.c., salva la sussistenza, in concreto, di circostanze idonee a giustificare il ricorso ad un criterio diverso. L’ingiustificata applicazione di altro criterio liquidatorio, comportante  una quantificazione di minore entità, può dunque essere fatta valere nel giudizio di legittimità come vizio di violazione di legge, sempre che la questione sia stata già posta nel giudizio di merito, dapprima mediante tempestivo deposito in atti delle tabelle milanesi (ove il giudizio sia celebrato in un ufficio giudiziario diverso da quelli in cui esse tabelle sono già comunemente adottate), e successivamente mediante specifico motivo di ricorso in appello, con il quale sia stata proposta espressamente la doglianza circa la mancata applicazione del criterio liquidatorio previsto dalle tabelle medesime.

b) Rapporti tra norme CEDU norme costituzionali.

Dalla circostanza che il significato delle norme CEDU non può che essere quello da esse assunto nelle pronunce della Corte di Strasburgo, derivano implicazioni nell’ipotesi - eccezionale ma pur sempre possibile - di contrasto tra le norme convenzionali e le norme costituzionali. Con riguardo a questa ipotesi, infatti, la Corte Costituzionale, dopo aver chiarito che la regola di diritto internazionale interposta non può evidentemente prevalere su quella della Costituzione[31], ha escluso che il giudice comune possa ricorrere ad un interpretazione costituzionalmente orientata della norma convenzionale, attribuendole un contenuto diverso da quello assegnatole dalla giurisprudenza di Strasburgo, ed ha concluso che l’unica strada è quella del giudizio di legittimità costituzionale della legge di esecuzione[32].

Il contrasto tra norma CEDU e norma costituzionale può anzitutto manifestarsi nell’ipotesi in cui l’interpretazione conforme a CEDU della norma di legge interna conduca ad un risultato incostituzionale (la norma di legge interna, così interpretata, appare conforme alla CEDU ma in contrasto con uno o più parametri costituzionali). Più analiticamente, in questa ipotesi: esiste un diritto vivente in base al quale una norma interna viene interpretata in un certo modo ritenuto conforme a Costituzione. Interviene una sentenza della Corte di Strasburgo che attribuisce un certo significato ad una norma CEDU imponendo al giudice comune di interpretare la norma di diritto interno in senso conforme a quel significato ed in contrasto con il diritto vivente. L’interpretazione imposta dalla necessità di adeguare la norma interna alla norma CEDU, ai sensi dell’art. 117 Cost., conduce peraltro ad un risultato interpretativo illegittimo in relazione ad altri parametri costituzionali che tutelano interessi da ritenersi prevalenti, nel giudizio di bilanciamento, rispetto a quello tutelato dall’art. 117 Cost. come integrato dalla norma convenzionale. Con riguardo a questa ipotesi, la Corte Costituzionale:

a) anzitutto ha avvertito che il giudice nazionale, nel procedere ad interpretazione conforme, non è vincolato all’osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo ma invece alle sole sentenze costituenti “diritto consolidato” o alle “sentenze pilota” in senso stretto;

b) in secondo luogo ha ribadito la necessità che il dubbio di costituzionalità derivato dal raffronto tra le regole convenzionali e la Costituzione venga prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento e non con riferimento alla norma interna nel significato che assumerebbe attraverso l’interpretazione conforme alla CEDU[33].

Il contrasto tra norma CEDU e norma costituzionale può poi manifestarsi nell’ipotesi di una norma di legge interna, conforme a Costituzione, irriducibilmente contrastante con la CEDU. Attraverso la norma di legge interna trovano tutela uno o più interessi costituzionalmente rilevanti; la norma CEDU consente la tutela di un interesse che diviene costituzionalmente rilevante ex art. 117 Cost. nel momento in cui essa integra il parametro costituzionale. Non è possibile l’interpretazione conforme della norma interna alla CEDU sicché uno degli interessi costituzionalmente rilevanti in conflitto deve essere sacrificato. Si pone dunque il problema se debba essere espunta dall’ordinamento la norma interna irriducibilmente in contrasto con la CEDU.

In questa ipotesi la Corte Costituzionale:

a)  anzitutto ha ribadito che il confronto tra tutela prevista dalla Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie. Previo richiamo all’art. 53 CEDU (secondo cui l’interpretazione delle disposizioni convenzionali non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali), si è affermato che, con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa;

b) inoltre ha precisato che nel concetto di massima espansione della tutela dei diritti fondamentali deve essere compreso, come già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela. In altre parole, l’esigenza di massima espansione della tutela di singoli diritti potrebbe collidere con la necessità del loro bilanciamento  con altri interessi costituzionalmente protetti ai quali debba essere data prevalenza. Il compimento di tale bilanciamento spetta alla Corte Costituzionale la quale deve assicurare una tutela dei diritti fondamentali di tipo sistemico e non frazionato. Sebbene non possa sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo (ciò che determinerebbe l’indebito superamento dei confini delle proprie competenze) il giudice delle leggi è tuttavia tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui la Corte Costituzionale è istituzionalmente chiamata in tutti i giudizi di sua competenza[34].

5. I Raccordi con gli ordinamenti che si collocano all’interno di quello dello Stato. L’ordinamento regionale

 

Consideriamo ora l’ordinamento statuale in relazione agli ordinamenti giuridici che si distribuiscono a livello endostatale. Questi ordinamenti si distinguono in pubblici e privati[35]. Tra quelli pubblici assumono specifica rilevanza gli enti territoriali e, tra essi, in particolare, le regioni, dotate di potestà legislativa.

Alla stregua della teoria della pluralità degli ordinamenti, l’ordinamento regionale, analogamente agli ordinamenti sovranazionali e internazionali, dovrebbe reputarsi distinto rispetto a quello dello Stato e pertanto le fonti di tale ordinamento non dovrebbero ritenersi fonti del diritto statale ma fonti operanti nell’ordinamento dello Stato in virtù del raccordo tra questo ordinamento e quello regionale[36].

La Corte di Cassazione è peraltro orientata diversamente.

Investita della questione se sia possibile configurare una responsabilità dell’ente regione per i danni conseguenti all’approvazione di una legge regionale contenente norme dichiarate incostituzionali per violazione della potestà legislativa statale, come prefigurata dall’art. 117, secondo comma, Cost., la Suprema Corte ha infatti ritenuto che non è estensibile ai rapporti tra legislazione regionale e ordinamento statuale, lo schema ricostruttivo proprio dei rapporti tra legislazione statale e ordinamento comunitario, che consente di individuare - alla luce della nota giurisprudenza della Corte di Giustizia[37] - una responsabilità dello Stato nell’ipotesi di violazione, attraverso i propri organi legislativi, dei vincoli derivanti dal diritto europeo.

Movendo dal rilievo che in questa fattispecie (ad es. nel caso classico di omessa o tardiva trasposizione di direttive) al diritto degli interessati alla rifusione del danno conseguente alla violazione del diritto dell’Unione europea, fa riscontro un’obbligazione dello Stato che è di carattere indennitario per l’ordinamento interno (alla stregua del quale l’attività omissiva dello Stato  non assume carattere antigiuridico e dà pertanto luogo ad una responsabilità da atto lecito) e, invece, di carattere risarcitorio per l’ordinamento comunitario (alla stregua del quale l’omissione dell’organo statuale è suscettibile  di essere qualificata come antigiuridica, stante la primazia di tale ordinamento rispetto a quello del singolo Stato membro), la Corte di Cassazione, ha osservato che, non sussistendo tra l’ordinamento regionale e quello statuale la distinzione che esiste tra l’ordinamento statuale e l’ordinamento europeo (con il consequenziale rapporto di preminenza del secondo sul primo), non è neppure ipotizzabile la predetta duplicità di valutazione della condotta omissiva del legislatore regionale, la quale non può che essere valutata come atto lecito, suscettibile quindi di essere sindacata attraverso il giudizio di costituzionalità ma non anche di dar vita ad una obbligazione risarcitoria.

La non configurabilità di una responsabilità dell’ente regione per violazione della potestà legislativa statale troverebbe dunque fondamento, in ultima analisi, nell’impossibilità di considerare l’ordinamento statuale e quello regionale come ordinamenti distinti, dovendosi invece ritenere che essi si stemperano nell’unitarietà dell’ordinamento nazionale[38].

I rapporti tra le fonti regionali e quelle statali - entrambi aventi, sul piano gerarchico, la forza e il valore di legge primaria - sono regolati dal criterio della competenza, in quanto la Costituzione assegna talune materie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, Cost.), altre alla potestà ripartita tra lo Stato e la Regione (art. 117, terzo comma), alla quale spetta in via residuale la competenza in ordine alle materie non espressamente ricomprese né nella prima né nella seconda categoria (art. 117, quarto comma).

Nell’ipotesi in cui un intervento legislativo statale, giustificato dall’esigenza di disciplinare in modo unitario fenomeni sociali complessi, incida, in ragione della sua complessità, su una pluralità di materie attratte alla competenza dello Stato e della Regione, si determina una concorrenza di competenze,  la quale impone di contemperare le ragioni che hanno reso necessaria la disciplina unitaria con il rispetto delle prerogative costituzionalmente attribuite alle autonomie.

In tali casi, se risulti impossibile individuare la titolarità della competenza mediante il giudizio di prevalenza di una materia su tutte le altre, deve farsi applicazione del principio di leale collaborazione (artt. 5 e 120 Cost.), in base al quale il legislatore statale deve predisporre gli strumenti necessari per salvaguardare le competenze delle Regioni, coinvolgendole nell’attività legislativa[39].

 In particolare, secondo la Corte Costituzionale, strumento adeguato appare essere, al riguardo, l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, in quanto modalità con la quale si realizza al massimo livello la collaborazione tra i due ordinamenti nei casi di stretto intreccio di materie e competenze[40].

Si segnala, in proposito, tra le più recenti e significative, la sentenza n. 251 del 2016.

Con questa sentenza sono state dichiarate costituzionalmente illegittime, per contrasto con gli artt. 5 e 120 Cost., numerose disposizioni contenute nella legge 7 agosto 2015, n. 124 (deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) - in particolare quelle in tema di dirigenza pubblica regionale, di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, di partecipazione azionaria delle amministrazioni pubbliche, di servizi locali di interesse economico generale - nella parte in cui prevedevano che i decreti legislativi attuativi fossero  adottati previa acquisizione del mero parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato Regioni.

Nella motivazione è stato ricordato come già precedentemente la Corte avesse affermato che il sistema della conferenze rappresenta «il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale»[41] e «una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione»[42] e come avesse altresì riconosciuto nell’intesa in sede di Conferenza unificata lo strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie[43].

La Corte Costituzionale ha aggiunto, inoltre, che un’analoga esigenza di coinvolgere adeguatamente le Regioni e gli enti locali nella forma dell’intesa deve riconoscersi, oltre che nell’ipotesi di intreccio di competenze, anche in quella di attrazione in sussidiarietà della funzione legislativa allo Stato, in vista dell’urgenza di soddisfare esigenze unitarie, economicamente rilevanti, nonché connesse all’esercizio della funzione amministrativa[44].

Deve tuttavia osservarsi che la stessa decisione in esame ha posto il limite secondo cui il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo[45] e che, in una più recente pronuncia - nel dichiarare la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale di alcune norme del d.l. n. 78/2015, in tema di transito del personale di polizia provinciale nel ruolo degli enti locali per lo svolgimento di funzioni di polizia municipale -, la Corte Costituzionale non solo ha opportunamente chiarito che nessuna violazione del principio può essere imputata allo Stato ove non venga incisa alcuna competenza legislativa regionale, ma ha altresì evidenziato che l’accordo raggiunto in sede di Conferenza unificata non può condizionare l’esercizio della funzione legislativa statale[46].



[1] Per uno studio analitico sulle modalità con cui avviene il raccordo tra l’ordinamento statuale e gli altri ordinamenti, da quelli a carattere internazionale e sovranazionale a quelli operanti in ambito endostatale, nonché sulle modalità con cui le fonti di questi ordinamenti vengono rese operanti nell’ordinamento statuale, v. A. PIZZORUSSO, I raccordi tra gli ordinamenti giuridici e l’evoluzione dei sistemi delle fonti del diritto operanti negli ordinamenti statali, in Studi in onore di Franco Modugno, III, Napoli, 2011, 2639 ss.

[2] Il principio (di per sé labile ed insicuro atteso che non è semplice stabilire a priori quale sia la norma più favorevole) della “massima espansione della tutela dei diritti fondamentali” - già desumibile dall’art. 53 CEDU (secondo cui, con riferimento ad un diritto fondamentale garantito anche dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, l’applicazione di questa non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quella già predisposta dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa) ed oggi contemplato dall’art.53 della Carta di Nizza (secondo cui le disposizioni della Carta non possono interpretarsi come limitative dei diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali e dalle Costituzioni degli Stati membri) – è richiamato da varie sentenze della Corte Costituzionale, tra cui Corte Cost. 4 dicembre 2009, n. 317 e Corte Cost. 27 giugno 2012, n. 264, le quali, tuttavia, come si vedrà, stabiliscono criteri più precisi di risoluzione delle antinomie, che consentono di superare la labilità di tale principio.

[3] V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, 1. L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), Padova, 1984, 178 ss.

[4] Il protocollo n.16 è stato adottato dal Comitato dei Ministri nella seduta del 10 luglio 2013 ed aperto alla firma il 2 ottobre 2013. La sua entrata in vigore è subordinata alla ratifica di almeno 10 Stati membri del Consiglio d’Europa.

[5] La Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulla questione di legittimità costituzionale dell’art.64, comma 2, d.lgs. n.165/2001 (sull’accertamento pregiudiziale dell’efficacia, validità e interpretazione dei contratti collettivi), per contrasto con l’art. 3 Cost., sollevata sul presupposto dell’ingiustificata disparità della disciplina processuale applicabile al lavoratore privato rispetto al pubblico dipendente, cui, per effetto di questa norma sarebbe riservato un trattamento deteriore, ha  dichiarato infondata la questione medesima, sottolineando che “le peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego ... rendono evidente l’impossibilità di ritenere a priori irrazionali le peculiarità della disciplina del processo in cui quel contratto collettivo – ben diverso da quelli c.d. di diritto privato – deve essere applicato”: Corte Cost..5 giugno 2003 n.199, in Foro it., 2003, I, 2232.

[6] cfr. Cass. 16 settembre 2014 n. 19507: “La conoscibilità della fonte normativa si atteggia diversamente a seconda che si versi in un’ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico rispetto a quella in cui le questioni attengano ad un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego, atteso che, mentre in quest'ultimo caso il giudice procede con mezzi propri (secondo il principio "iura novit curia"), nel primo il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell'adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell'onere della prova e sul contraddittorio, che non vengono meno neppure nell'ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, quarto comma, c.p.c.”.

[7] A. PIZZORUSSO, cit., 2642.

[8] v., ad es., Corte Cost. n. 48/1979 e Corte Cost. n. 73/2001.

[9] v. PIZZORUSSO, cit., 2645, e, ivi, in particolare, nota 6.

[10]  Corte Cost. 22 ottobre 2014, n.238, par. 3.1. del Considerato in diritto: “Resta da verificare e risolvere il prospettato conflitto tra la norma internazionale da immettere ed applicare nell'ordinamento interno, così come interpretata nell'ordinamento internazionale, norma che ha rango equivalente a quello costituzionale, in virtù del rinvio di cui all'art. 10, primo comma, Cost., e norme e principi della Costituzione che con essa presentino elementi di contrasto tali da non essere superabili con gli strumenti ermeneutici. È ciò che si verifica con i principi qualificanti e irrinunciabili dell'assetto costituzionale dello Stato e, quindi, con i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali della persona. In tali ipotesi spetta al giudice nazionale, ed in particolare esclusivamente a questa Corte, una verifica di compatibilità costituzionale, nel caso concreto, che garantisca l’intangibilità di principi fondamentali dell'ordinamento interno ovvero ne riduca al minimo il sacrificio”; par. 3.2 del Considerato in diritto: “Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un limite all'ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l'ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma, della Costituzione ed operino quali “controlimiti” all'ingresso delle norme dell’Unione europea. Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale. In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali” .

[11] Corte Cost. 22 ottobre 2014, n.238, par. 3.1. del Considerato in diritto: “Dal thema decidendum sottoposto a questa Corte è stata esclusa dal giudice rimettente ogni valutazione sulla interpretazione da parte della CIG della norma internazionale consuetudinaria relativa all'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati. D'altra parte, la Corte non potrebbe procedere ad un tale scrutinio. Si tratta, infatti, di una norma di diritto internazionale, dunque esterna all'ordinamento giuridico italiano, la cui applicazione da parte dell'amministrazione e/o del giudice, in virtù del rinvio operato nella specie dall'art. 10, primo comma, Cost., deve essere effettuata in base al principio di conformità, e cioè nell'osservanza dell'interpretazione che ne è data nell'ordinamento di origine, che è l'ordinamento internazionale. In questa occasione, la norma che interessa è stata interpretata dalla CIG, precisamente in vista della definizione della controversia tra Germania ed Italia, avente ad oggetto la giurisdizione del giudice italiano su atti imputabili alla RFG. Con la sentenza del 3 febbraio 2012, la CIG ha affermato che, allo stato, non si rinvengono sufficienti elementi nella prassi internazionale per dedurre l'esistenza di una deroga alla norma sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati per atti ritenuti iure imperii relativa alle ipotesi, che ha ritenuto sussistenti nella specie, e come ammesso dalla stessa RFG, di crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona. La medesima Corte ha anche espressamente riconosciuto … che il difetto di giurisdizione dei giudici italiani comporta un sacrificio dei diritti fondamentali dei soggetti che hanno subito le conseguenze dei crimini commessi dallo Stato straniero ed ha individuato, sul piano del diritto internazionale, nell'apertura di un nuovo negoziato il solo strumento per definire la questione. Ora, deve riconoscersi che, sul piano del diritto internazionale, l'interpretazione da parte della CIG della norma consuetudinaria sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati per atti ritenuti iure imperii è un'interpretazione particolarmente qualificata, che non consente un sindacato da parte di amministrazioni e/o giudici nazionali, ivi compresa questa Corte”.

[12] Corte Cost. 22 ottobre 2014, n.238, par. 3.4. del Considerato in diritto: “Una simile verifica si rivela, peraltro, indispensabile alla luce dell'art. 10, primo comma, Cost., il quale impone a questa Corte di accertare se la norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta sull'immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri, come interpretata nell'ordinamento internazionale, possa entrare nell'ordinamento costituzionale, in quanto non contrastante con principi fondamentali e diritti inviolabili. Il verificarsi di tale ultima ipotesi, infatti, esclude l'operatività del rinvio alla norma internazionale, con la conseguenza inevitabile che la norma internazionale, per la parte confliggente con i principi ed i diritti inviolabili, non entra nell’ordinamento italiano e non può essere quindi applicata”.

[13] Corte Cost. 22 ottobre 2014, n.238, par.3.4. del Considerato in diritto: “Fin dalla sentenza n. 98 del 1965 in materia comunitaria, questa Corte affermò che il diritto alla tutela giurisdizionale è tra quelli inviolabili dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art. 2 ... In una meno remota occasione, questa Corte non ha esitato ad ascrivere il diritto alla tutela giurisdizionale tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio”. … “Questa Corte ha riconosciuto che nei rapporti con gli Stati stranieri il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale possa subire un limite ulteriore rispetto a quelli imposti dall'art. 10 Cost. Ma il limite deve essere giustificato da un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell'art. 24 Cost., annoverato tra i “principi supremi” dell'ordinamento costituzionale”. … “L’immunità dalla giurisdizione degli altri Stati, se ha un senso, logico prima ancora che giuridico, comunque tale da giustificare, sul piano costituzionale, il sacrificio del principio della tutela giurisdizionale dei diritti inviolabili garantito dalla Costituzione, deve collegarsi - nella sostanza e non solo nella forma - con la funzione sovrana dello Stato straniero, con l'esercizio tipico della sua potestà di governo”. … “L’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione del giudice italiano consentita dagli artt. 2 e 24 Cost. protegge la funzione, non anche comportamenti che non attengono all'esercizio tipico della potestà di governo, ma sono espressamente ritenuti e qualificati illegittimi, in quanto lesivi di diritti inviolabili, come riconosciuto, nel caso in esame, dalla stessa CIG”. Par. 3.5. del Considerato in diritto: “Tale contrasto, laddove la norma internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati comprende anche atti ritenuti iure imperii in violazione del diritto internazionale e dei diritti fondamentali della persona, impone a questa Corte di dichiarare che rispetto a quella norma, limitatamente alla parte in cui estende l'immunità alle azioni di danni provocati da atti corrispondenti a violazioni così gravi, non opera il rinvio di cui al primo comma dell'art.10 Cost. Ne consegue che la parte della norma sull'immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i predetti principi fondamentali non è entrata nell'ordinamento italiano e non vi spiega, quindi, alcun effetto. La questione prospettata dal giudice rimettente con riguardo alla norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati è, dunque, non fondata, considerato che la norma internazionale alla quale il nostro ordinamento si è conformato in virtù dell’art. 10, primo comma, Cost. non comprende l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile in relazione ad azioni di danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona, i quali risultano per ciò stesso non privi della necessaria tutela giurisdizionale effettiva”.

[14] v. PIZZORUSSO, cit., 2650; L.A. SCARANO, L’interpretazione conforme al diritto dell’UE nella giurisprudenza civile di legittimità, in L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea, Profili e limiti di un vincolo problematico, a cura di A. BERNARDI, Napoli, 2015, 190; M. CARTABIA, Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in AIC, 2017.

[15] Tra le tante, Corte Cost. 19 aprile 1985, n. 113; Corte Cost. 8 aprile 1991, n. 168; Corte Cost. 12 marzo 1999, n. 85; Corte Cost. 12 maggio 2010, n. 227.

[16] Corte Cost. 27 dicembre 1973, n. 183; Corte Cost. 8 giugno 1984, n. 170; Corte Cost. 21 aprile 1989, n. 232; Corte Cost. 18 dicembre 1995, n. 509.

[17] V. la sopra esaminata Corte Cost. 22 ottobre 2014, n. 238.

[18] L.A. SCARANO, cit., 200.

[19] Tra le molte decisioni della Corte Costituzionale sul tema v., da ultimo, Corte Cost., Ord. 26 gennaio 2017, n.24, sul famoso Caso Taricco: “Il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 11 Cost.; questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l'osservanza dei principi supremi dell'ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell'Unione possa essere applicato in Italia. Qualora si verificasse il caso, sommamente improbabile, che in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell'ipotesi normativa si realizzi”.

[20] Cass. Sez. Un., 11 novembre 2008 n.26972 e succ.

[21] Sul tema v., diffusamente, L.A. SCARANO, cit., 210.

[22] in senso positivo, L.A. SCARANO, cit., 210, e G. TRAVAGLINO, Il futuro del danno alla persona, in Danno e resp., 2011, 117; in senso negativo, tra gli altri, G. PONZANELLI, La irrilevanza costituzionale del principio di integrale riparazione del danno, in La responsabilità civile nella giurisprudenza costituzionale, a cura di M. BUSSANI, Napoli, 2006, 67 e ss.

[23] La disciplina censurata – conclude la Corte –  non è più sorretta dalle ragioni sottostanti all'originario assetto della Convenzione di Varsavia, e non è, d'altra parte, compensata, o accompagnata, da alcuna misura … in punto di salvaguardia della pretesa risarcitoria. Nei termini in cui essa è configurata, la norma che di fronte alle lesioni corporee e addirittura, come qui accade, di fronte alla perdita della vita umana, esclude il ristoro integrale del danno non è assistita da un idoneo titolo giustificativo. Occorre quindi concludere che essa lede la garanzia eretta dall'art. 2 Cost. a presidio inviolabile della persona”.

[24] L.A. SCARANO, cit., 210.

[25] V. PIZZORUSSO, cit., 2646.

[26] Il criterio cronologico, operante tra fonti di pari grado e fondato sulla prevalenza della fonte successiva rispetto alla precedente, era stato tradizionalmente ritenuto applicabile ai rapporti tra norme di legge interna e norme della  Convenzione Europea dei Diritti Umani, sul presupposto che queste ultime, avendo natura di norme di diritto internazionale pattizio, non trovassero una copertura costituzionale né nell’art.10 della Costituzione (riferibile esclusivamente alle norme di diritto internazionale consuetudinario) né nell’art.11 della Costituzione (la cui operatività presuppone una limitazione di sovranità nazionale non riscontrabile nella mera attuazione di un trattato) ed assumessero pertanto il medesimo rango della legge di esecuzione (v., per tutte, Corte Cost. 22 dicembre 1980, n.188).

[27] Cfr. Corte Cost.24 ottobre 2007 n.348,  la quale, al par. 3.3. del Considerato in diritto, ribadisce la differenza tra le norme di fonte comunitaria (che trovano copertura costituzionale nell’art.11 Cost. e che sono dunque suscettibili di diretta applicazione in tutti gli Stati membri) e le norme della CEDU, le quali, “pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” ; cfr., inoltre, Corte Cost. 24 ottobre 2007 n.349, par. 6.2 del Considerato in diritto: “al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norme interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art.117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione”. Nello stesso senso Corte Cost.26 novembre 2009 n.311, par. 6 del Considerato in diritto: “Nel caso si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della convenzione europea, il giudice comune deve … procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto ed avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica … Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante … deve sollevare la questione di costituzionalità … con riferimento al parametro dell’art.117, primo comma, Cost.”.

[28] Precisamente, il “nuovo” art.6, par. 1, del Trattato sull’Unione Europea, come sostituito dal Trattato di Lisbona, recita: “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.

  I “nuovi” parr. 2 e 3 del predetto art.6 del Trattato sull’Unione Europea, come sostituito dal Trattato di Lisbona, confermano la previsione, secondo cui “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali … I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. 

[29] Cfr. Corte Cost.11 marzo 2011, n.80; Corte Cost. 7 aprile 2011, n.113,; Corte Cost. 22 luglio 2011, n.236.

[30] La sentenza n.348/2007 parla “di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte Europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia” (par. 4.6 del Considerato in diritto), mentre la sentenza n.349/2007 precisa che “la definitiva uniformità di applicazione è garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima” (par. 6.2 del Considerato in diritto).

[31] Cfr. Corte Cost.24 ottobre 2007 n.348, par. 4.7 del Considerato in diritto: “L’esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta”.

[32] Cfr. ancora Corte Cost.24 ottobre 2007 n.348, par. 4.7 del Considerato in diritto: “Nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”. Cfr. ancora Corte Cost.26 novembre 2009 n.311, par. 6 del Considerato in diritto: “Questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte Costituzionale compete, questo sì,  di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art.117, primo comma, Cost.; e non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta allo stato l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento”.  In Corte Cost.4 dicembre 2009 n.317, cit., il sistema viene così riassunto, in motivazione, par. 7 del Considerato in diritto: “Il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è il frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU – nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art.32 della Convenzione – l’obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l’obbligo che infine incombe sulla Corte Costituzionale - nell’ipotesi di impossibilità di una interpretazione adeguatrice - di non consentire che continui ad avere efficacia nell’ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale”.

[33] Corte Cost. n. 49/2015: “La questione è …  inammissibile per l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il giudice nazionale sarebbe vincolato all'osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti “diritto consolidato” o delle “sentenze pilota” in senso stretto”. E ancora: “Il dubbio di costituzionalità, derivato dall'interpretazione della norma impugnata alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Varvara c. Italia) e conseguente alla determinazione di un assetto che garantirebbe la massima protezione del diritto di proprietà a fronte del sacrificio di principi costituzionali di rango superiore, avrebbe dovuto essere prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento, risultando inconferente il riferimento alla norma censurata. Il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento”. Nella specie era stata prospettata l’illegittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui - interpretato conformemente alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, ed in contrasto con il diritto vivente - vieterebbe di applicare la confisca urbanistica nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, dovendo la stessa essere qualificata come “pena”, ai sensi dell’art. 7 CEDU e potendo quindi essere irrogata solo in caso di condanna penale. La Corte ha dichiarato inammissibile la questione sia per l’erroneità della premessa interpretativa, che garantisce la massima protezione del diritto di proprietà con il sacrificio di principi costituzionali di rango superiore; sia per l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il giudice nazionale sarebbe vincolato all’osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti “diritto consolidato” o delle “sentenze pilota” in senso stretto; sia, infine, per inconferenza della norma censurata e per difetto di motivazione sulla rilevanza, sul presupposto che il dubbio di costituzionalità  avrebbe dovuto essere prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento, non con riguardo alla norma ritenuta illegittima per effetto dell’interpretazione conforme a CEDU.

[34] Cfr. Corte Cost. n. 264/2012: “Il richiamo al <<margine di apprezzamento>> nazionale - elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, e rilevante come temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea - deve essere sempre presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”.

La sentenza è stata emessa a conclusione di una vicenda che aveva riguardato alcuni cittadini italiani, i quali avevano vissuto e lavorato per molti anni in Svizzera prima di andare in pensione in Italia. Al loro ritorno in Italia l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) aveva deciso di rimodulare i loro diritti a pensione per tenere conto dei bassi contributi che essi avevano pagato quando lavoravano in Svizzera (dove i contributi ammontavano all’8 per cento del salario, contro il 32,7 per cento in Italia). I lavoratori avevano dunque instaurato procedimenti per contestare tale metodo di calcolo dei loro diritti a pensione, ma su tali procedimenti era intervenuta la legge n. 296 del dicembre 2006, la quale aveva dato sostegno alla interpretazione data dall’INPS alla legislazione pertinente. (L’art 1, c. 777, della legge n. 296 del 2006,  aveva previsto che “L’articolo 5, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che, in caso di trasferimento presso l’assicurazione generale obbligatoria italiana dei contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale, la retribuzione pensionabile relativa ai periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri è determinata moltiplicando l’importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l’aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti in vigore nel periodo cui i contributi si riferiscono. Sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data di entrata in vigore della presente legge”).

La disposizione contenuta nella legge n. 296 del 2006 - che aveva consentito all’INPS di chiudere vittoriosamente le vertenze con i lavoratori - aveva superato il vaglio di costituzionalità (v. sent. n. 172 del 2008). La Corte di Strasburgo ha invece ritenuto che, benché non sia precluso al legislatore di disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio di preminenza del diritto e la nozione di processo equo contenuti nell’articolo 6 impediscono, tranne che per impellenti motivi di interesse generale, ogni ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influire sulla conclusione giudiziaria di una lite. La Corte europea ha dunque affermato che  lo Stato italiano aveva violato l’art. 6 par. 1 CEDU, essendo intervenuto con una norma ad hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi di cui era parte.

Dinanzi a tale sentenza la Sezione lavoro della Corte di cassazione ha nuovamente sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 777, della legge n. 296 del 2006, per contrasto con l’art. 117 Cost. come integrato dall’art. 6 CEDU.

La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione statuendo:  “Va dichiarata la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevata dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, in riferimento all'articolo 117, primo comma, della Costituzione in relazione all'articolo 6, paragrafo 1, della CEDU e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. L'evoluzione legislativa sulla questione delle cosiddette "pensioni svizzere" ha avuto molteplici tappe, l'ultima della quali è rappresentata dall'intervento della Corte EDU, la quale, con la sentenza del 31 maggio 2011, resa nel caso Maggio ed altri contro Italia, ha ritenuto che con tale disposizione lo Stato italiano abbia violato i diritti dei ricorrenti intervenendo in modo decisivo per garantire che l'esito del procedimento in cui esso era parte gli fosse favorevole. È proprio sulla base delle argomentazioni della citata sentenza Maggio che il rimettente sospetta ora la illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 777, della legge n. 296 del 2006 per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU come interpretato dalla pronuncia medesima. Dai principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alla efficacia e al ruolo delle norme CEDU chiamate ad integrare il parametro dell'articolo 117, primo comma, Cost., a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, si desume che la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è  chiamata in tutti i giudizi di sua competenza. Operazioni volte non già all'affermazione della primazia dell'ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele. Nell'attività di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti cui, anche in questo caso è chiamata questa Corte, rispetto alla tutela dell'interesse sotteso al parametro come sopra integrato prevale quella degli interessi antagonisti, di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata. In relazione alla quale sussistono, quindi quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva. Ricorso che appare giustificato perché trattandosi di una normativa previdenziale essa garantisce il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali”. Detto in altri termini: “Nell'attività di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti cui, come dianzi chiarito, anche in questo caso è chiamata questa Corte, rispetto alla tutela dell'interesse sotteso al parametro come sopra integrato prevale quella degli interessi antagonisti, di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata. In relazione alla quale sussistono, quindi quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva. Ed infatti, gli effetti di detta disposizione ricadono nell'ambito di un sistema previdenziale tendente alla corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate, anche in ossequio al vincolo imposto dall'articolo 81  della Costituzione, ed assicura la razionalità complessiva del sistema stesso (sent. n. 172 del 2008), impedendo alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, e così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali. È ispirata, invero, ai principi di uguaglianza e di proporzionalità una legge che tenga conto della circostanza che i contributi versati in Svizzera siano quattro volte inferiori a quelli versati in Italia e operi, quindi, una riparametrazione diretta a rendere i contributi proporzionati alle prestazioni, a livellare i trattamenti, per evitare sperequazioni e a rendere sostenibile l'equilibrio del sistema previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni. … La legge n. 296 del 2006 persegue un interesse pubblico, quello di fornire un metodo di calcolo della pensione armonizzato, al fine di garantire un sistema previdenziale sostenibile e bilanciato, evitando che i ricorrenti possano beneficiare di vantaggi ingiustificati, e che il sacrificio subito da costoro non è tale da pregiudicarne i diritti pensionistici nella loro essenza, avendo essi perso solo un ammontare parziale della pensione.    A differenza della Corte EDU, questa Corte, come dianzi precisato, opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante, che, nella specie, dà appunto luogo alla soluzione indicata. E ciò anche considerando, a contrario, che una declaratoria che non fosse di infondatezza della questione, e che espungesse, quindi, la norma censurata dall'ordinamento, inciderebbe necessariamente sul regime pensionistico in esame, così contraddicendo non solo il sistema nazionale di valori nella loro interazione, ma anche la sostanza della decisione della Corte EDU di cui si tratta, che ha negato accoglimento alla domanda dei ricorrenti di riconoscimento del criterio di calcolo della contribuzione ad essi più favorevole. Conclusivamente, la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in epigrafe deve essere dichiarata non fondata”.

 

 

[35] A. PIZZORUSSO, cit., 2656.

[36] V. A. PIZZORUSSO, cit., 2653 s., il quale parla di ordinamenti operanti all’interno di quello dello Stato, dotati di poteri normativi autonomi rispetto all’ordinamento statale  con cui si trovano in rapporto.

[37] Corte di giustizia, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90 Francovich e a.; Corte di giustizia, 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame; Corte di giustizia, 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler.

[38] Cass. 22 novembre 2016, n. 23730: “In virtù dell’insindacabilità dell’attività esplicativa di funzioni legislative, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale di legge regionale, per violazione della potestà legislativa statale, non è ipotizzabile alcun danno risarcibile, a differenza di quanto previsto per la responsabilità dello Stato italiano nell’ipotesi di violazione del diritto dell'Unione europea, non essendo ravvisabile, nella specie, quella distinzione tra ordinamenti - con prevalenza di uno sull’altro - che costituisce il fondamento di tale ipotesi di responsabilità”.

[39] Corte Cost. 24 marzo 2016, n. 65; Corte Cost. 10 aprile 2014, n.88; Corte Cost. 4 giugno 2012, n. 139.

[40] Corte Cost. 11 febbraio 2016, n. 21; Corte Cost. 14 gennaio 2016, n. 1.

[41] Corte Cost. 23 novembre 2007, n. 401.

[42] Corte Cost. 1° febbraio 2006, n. 31.

[43] Corte Cost. 10 aprile 2014, n. 88;  Corte Cost. 11 dicembre 2012, n. 297; Corte Cost. 27 giugno 2012, n.163.

[44] Corte Cost. 25 novembre 2016, n. 251: “Secondo la giurisprudenza costituzionale, nell’evenienza di uno stretto intreccio fra materie e competenze dello Stato e delle Regioni, la leale collaborazione costituisce principio guida e l’intesa la soluzione che meglio incarna la collaborazione. Tale principio è tanto più apprezzabile nella «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi» e diviene dirimente nella considerazione di interessi sempre più complessi, di cui gli enti territoriali si fanno portatori. L’esigenza di coinvolgere adeguatamente le Regioni e gli enti locali nella forma dell’intesa è stata riconosciuta anche nella ipotesi della attrazione in sussidiarietà della funzione legislativa allo Stato, in vista dell’urgenza di soddisfare esigenze unitarie, economicamente rilevanti, oltre che connesse all’esercizio della funzione amministrativa. In tal caso, l’esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale - e giustificare la deroga al riparto di competenze contenuto nel Titolo V Cost. - solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà. Il sistema delle conferenze rappresenta il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale e una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione. L’intesa in sede di Conferenza unificata è stata più volte riconosciuta strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie, qualora non siano coinvolti interessi esclusivamente e individualmente imputabili al singolo ente autonomo. Nel quadro evolutivo del sistema delle conferenze, le procedure di consultazione devono prevedere meccanismi per il superamento delle divergenze, basati sulla reiterazione delle trattative o su specifici strumenti di mediazione, senza prefigurare una drastica previsione, in caso di mancata intesa, della decisività della volontà di una sola delle parti (la quale ridurrebbe all’espressione di un parere il ruolo dell’altra). La reiterazione delle trattative, al fine di raggiungere un esito consensuale, non comporta in alcun modo che lo Stato abdichi al suo ruolo di decisore, nell’ipotesi in cui le strategie concertative abbiano esito negativo e non conducano a un accordo”.

 

[45] Corte Cost. 25 novembre 2016, n. 251, par. 3 del Considerato in diritto.

[46] Corte Cost. 9 febbraio 2017, n. 32.

 

 
 
 
 
 
 

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