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PENALE

Caso Diciotti, reati ministeriali ed autorizzazione a procedere

  Penale 
 lunedì, 4 febbraio 2019

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Mario Cicala, Direttore della rivista Il diritto vivente

 
 

 

Con la richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro Matteo Salvini che il Tribunale per i ministri di Catania, in dissenso con la richiesta della Procura, ha indirizzato al Senato della Repubblica, viene al pettine il nodo più delicato e significativo dei rapporti fra giustizia e politica.
Siamo di fronte ad un conflitto potenzialmente grave che presenta profili del tutto nuovi.
Come già ho evidenziato in un precedente intervento, nella vicenda ‘mani pulite’ vi era nel Paese un diffuso “idem sentire” sui fatti e sui valori da applicare ai fatti: bastava perciò un avviso di reato della Procura di Milano e i politici cascavano come birilli. In sostanza, il potenziale conflitto fra magistratura e corpo elettorale veniva spontaneamente risolto dalla impopolarità che travolgeva i politici inquisiti.
Nello scontro ‘Berlusconi’ la convergenza sui valori è rimasta: i milioni di elettori che hanno continuato a votare per il Cavaliere non negano che i fatti a lui contestati, e che riguardano la sua “vita privata”, costituiscano, in via di principio, degli illeciti; ma lo ritenevano e lo ritengono innocente e magari perseguitato. Non pochi addirittura ammettono abbia violato qualche legge, ma ciò non ostante lo considerano il Presidente del Consiglio di cui aveva bisogno l’Italia (in fondo Machiavelli ci ha insegnato che un buon politico deve essere anche un poco “birbone”). E non è qui il caso di ripercorrere tutte le tappe del lungo conflitto e delle complesse vicende che ha generato la persistente popolarità dell’inquisito Berlusconi.
Il conflitto ‘Salvini’ è ancor più radicale; gli elettori che direttamente o indirettamente appoggiano Salvini, lo ritengono ‘colpevole’ dei fatti, posti in essere nell’esercizio delle funzioni di ministro, lui addebitati e lo sostengono proprio perché ‘colpevole’, perché condividono la politica di respingimento. Sono contrari alla scelta dell’accoglienza che possiamo intestare a Renzi ed a Papa Francesco.
Dunque, il conflitto non è più con un uomo politico “scomodo”, è con una linea politica che appare maggioritaria, e che potrebbe affermarsi nelle prossime elezioni europee. Del resto, anche il Tribunale di Catania scrupolosamente documenta che la contrarietà alla illimitata accoglienza dei migranti trova puntuale convergenze ideali e di fatto in tutti i paesi dell’Unione; anche in quelli che a parole continuano a predicare l’accoglienza. E proprio questa riluttanza dei Paesi europei a ospitare una proporzionale quota di migranti costituisce uno degli argomenti che, secondo la prospettazione del Governo, giustifica il trattenimento dei migranti stessi, al fine di sollecitare un minimo di solidarietà fra gli Stati.   
Appare quindi indispensabile incanalare nell’ambito delle procedure costituzionali simile potenziale ed inedito conflitto fra la magistratura e una diffusa volontà popolare espressa -come proprio la Costituzione stabilisce- dal voto elettorale. E vi sono le norme che saggiamente così impongono di fare.

L’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1989 ha riscritto l’art. 96 della Costituzione stabilendo che i ministri “per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni” sono soggetti “alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”. Dunque, come sottolinea la già citata motivazione del Tribunale, la legge del 1989 ha “segnato il passaggio da una giustizia politica ad un sistema che contempla una "giustificazione politica" del reato ministeriale”.
A sua volta l’art. 9 della medesima legge soggiunge che l'assemblea parlamentare può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l'autorizzazione a procedere ove reputi, “con valutazione insindacabile, che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo”.
La norma distingue con chiarezza compiti e responsabilità: spetta alla Procura della Repubblica e al Tribunale stabilire se vi siano elementi per contestare al ministro una ipotesi di reato (e, in caso di rilascio della autorizzazione, a giudicare se il reato vi sia); spetta la Parlamento stabilire se la procedura giudiziaria debba o meno essere arrestata in quanto l’inquisito ha agito a “tutela di un interesse dello Stato o per il perseguimento di un interesse pubblico”.
Questa valutazione del Parlamento è dichiarata dalla Costituzione “insindacabile”; parola che sarebbe priva di senso se non impedisse che la delibera del Parlamento possa essere impugnata per conflitto di poteri avanti alla Corte Costituzionale, o comunque superata o disattesa dal giudice ordinario. E perciò mi pare impossibile condividere l’opinione espressa su Qualegiustizia dal prof. Luca Masera secondo cui la Corte costituzionale potrebbe porre nel nulla l’”insindacabile” pronuncia del Parlamento.
In buona sostanza, a mio avviso, dobbiamo esser consapevoli che la convinta adesione al principio della separazione e reciproca indipendenza dei poteri, di per sé non risolve, anzi in qualche misura facilita ed esalta, la possibilità di conflitti fra giustizia e corpo elettorale; ben essendo possibile che il corpo elettorale voglia proiettare nel Governo del Paese persone che la magistratura ritiene di dover processare e magari anche condannare.
La Costituzione del 1948 aveva risolto il problema affermando la piena autonomia ed indipendenza della Magistratura, ma anche prevedendo che senatori e deputati inquisiti fossero protetti attraverso una possibile (e largamente utilizzata) mancata concessione della autorizzazione a procedere da parte dei loro colleghi; e delineando una specifica disciplina dei reati ministeriali.
Le radicali riforme intervenute sotto la spinta di “mani pulite” hanno fortemente accresciuto il ruolo ed il peso del potere giudiziario. Ma anche in quella sede si è ritenuto che vi siano scelte politiche di governo che possono essere ontologicamente incompatibili con certe prospettazioni accusatorie.
Lo Stato è uno, se trattenere per un certo tempo su navi i migranti è ingiustificabile sequestro di persona, e tale viene qualificato, anche solo come ipotesi accusatoria, dagli organi giudiziari dello Stato, non è concepibile che invece gli organi amministrativi e politici del medesimo Stato seguano un’altra linea e quindi attuino o tentino di attuare una prassi che la magistratura qualifica come criminosa. Ed è legittimo che la politica voglia che il potenziale conflitto sia rapidamente chiarito e risolto, specie quando la magistratura chiede di giudicare non episodi del passato, bensì comportamenti attuali, la cui interruzione o prosecuzione non sembra opportuno segua le indicazioni giudiziarie, strutturalmente e giustamente ondeggianti fino alla formazione di un giudicato (e magari anche oltre).
Si può discutere all’infinito se il voto di rifiuto della autorizzazione accerti la liceità della condotta del ministro, o soltanto impedisca che sia sottoposto a giudizio. Ma, si tratta di una sottigliezza incomprensibile per il comune cittadino. La sostanza che ora interessa mi appare però chiara: il Parlamento può affermare che il ministro ha agito  “a tutela di un interesse dello Stato”; e perciò non è  perseguibile.
Naturalmente è logico che il voto sia preparato da una legittima discussione nel Paese; in cui coloro che osteggiano la politica migratoria dell’attuale governo tentano di “convertire” quella larga parte di opinione pubblica che invece gradisce tale politica. E mi par ovvio che se il Parlamento autorizza il processo implicitamente esprime l’opinione che il Ministro non ha perseguito un interesse pubblico rilevante; e simile “voto di sfiducia”, può avere effetti incisivi sull’assetto politico generale e sulla politica italiana in materia di immigrazione.
In simile quadro, è indubbiamente necessario che soprattutto i gruppi associati di magistrati si astengano da qualunque intervento che attizzi i sospetti secondo cui l’appartenenza a una di queste associazioni incide sull’esercizio della giustizia.
Prese di posizione di Area,   proprio sul “caso Diciotti”, indirizzate all’interno ed all’esterno della magistratura hanno già del resto stuzzicato e legittimato la domanda che corre sui social: “a che gruppo associativo fanno capo i giudici di Catania?”. E questo interrogativo ha in sé una potenzialità delegittimante della magistratura ben superiore a quella insita nelle passate polemiche animate da Silvio Berlusconi.

 
 
 
 
 
 

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