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CIVILE

Cataldo Zuccaro, Professore ordinario di Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana

  Civile 
 mercoledì, 19 giugno 2019

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Premessa

L’itinerario che viene proposto ha come obiettivo quello di accostarsi all’evento del morire, interpretato in chiave teologica e morale. La speranza è quella di poter ricevere qualche indicazione che aiuti la comprensione di questo evento che non può essere eliminato dal contesto del vivere socialmente strutturato. La prospettiva non è tanto quella di parlare della morte, ma del morire, consapevoli e convinti che è solo il verbo che rende attuale il sostantivo: non la morte, dunque, ma il morire come atto del vivente. Pertanto, dopo un primo momento di ascolto dell’antropologia e della filosofia nella storia (I), verrà presentata la teologia della morte di Gesù (II) e, infine, su queste basi, si cercheranno elementi significativi per l’etica e il diritto, cioè per il vivere socialmente strutturato (III).

1. Ascoltando l’eco dell’esperienza: tra antropologia e metafisica

Particolare fortuna, lungo la storia, ha avuto il celebre detto di Epicuro: “La morte, che è il male che più ci spaventa, non è niente per noi; infatti, quando ci siamo noi, la morte non c’è; quando c’è la morte, non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci”[2]. L’immagine di Lucrezio, forse meno nota, è ancora più plastica: “Nella vera morte non ci sarà un altro se stesso che possa, da vivo, piangere la perdita di sé e, stando in piedi, lamentarsi di giacere a terra e d'essere sbranato o bruciato”[3]. Insomma, la morte è un ospite che non reca fastidio, perché non fa in tempo ad arrivare che già è andato via[4].

In realtà, il “sofisma dell’inesistenza della morte” si scioglie nel suo contrario, dal momento che è proprio quando noi ci siamo che c’è la morte, poiché quando noi non ci siamo più o non ci siamo ancora neanche la morte c’è. Il fatto è che solo l’essere cadavere è senza io. Il morire, al contrario, è sempre con l’io. Ecco perché è il verbo che dà vita al sostantivo. Ecco perché, come scrive il nostro Cesare Pavese, “verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Per Xavier Tilliette, compianto filosofo gesuita francese, l’io e la morte giocano a nascondino, perché si vedono sempre di spalle, sino a quando finalmente si incontrano in un “abbraccio incestuoso”, a causa della loro consanguineità. E Vladimir Jankélévitch, uno dei maestri di Tilliette, diventato in seguito suo amico, parla de “la mort intra-vital”, che cioè si nasconde e cresce nutrendosi della vita, al punto tale che “se si scava sotto le apparenze e, perforando la corteccia si entra dentro il rivestimento, si scopre il rovescio della parte dritta e l’altra faccia delle cose: una spaventosa carcassa che era travestita da epidermide”[5]. Dunque il morire è un atto del vivente, anzi, è l’atto con il quale l’uomo compie e realizza pienamente la sua vita, non solo in termini cronologici, ma anche sotto il profilo della realizzazione personale, come insegna Heidegger.

Di fatto, l’intera vita dell’uomo si trova racchiusa, come un’inclusione, tra il pianto del neonato e il rantolo del morente. Non sono soltanto espressioni biologiche, ma possono diventare una sorta di parabola metafisica dell’uomo che appare come un essere indigente, vulnerabile, che ha bisogno di chi raccolga il suo pianto per poter vivere. Ci sono varie forme storicamente determinate di vulnerabilità e di indigenza che spesso sono rese drammatiche -o addirittura create- dalle ingiustizie sociali. Esse vanno superate e vinte, nell’interesse di chi ha bisogno. Ma ci sono una vulnerabilità e un’indigenza che appartengono alla persona in quanto tale e che, pertanto, sono costitutive e strutturali. Esse sono le sentinelle che vegliano sull’uomo perché egli viva sempre nella consapevolezza di essere un “eterno mortale” che, da sé, non riuscirà mai a superare il limite della morte, con buona pace del progetto del postumanesimo.

Questa sorta di antropologia dell’indigenza e della vulnerabilità determina la domanda etica di decidere in coscienza quale senso dare alla propria condizione di bisogno e alla concomitante apertura all’altro[6]. Infatti, ciascuno si trova simultaneamente nella condizione di chi rivolge all’altro la propria domanda di essere per ricevere aiuto e di chi viene raggiunto dalla domanda di essere dell’altro che gli chiede aiuto. Per tornare alla metafora menzionata, la persona deve decidere se accogliere il pianto del neonato, provando a darvi risposta nella misura del concretamente possibile, oppure reagire con indifferenza o sopraffazione. Questa decisione è la scelta del paradigma etico radicale della propria vita: l’egoismo oppure l’altruismo. Ma, se ha senso l’intreccio inestricabile tra vivere e morire, questa decisione toccherà anche il senso del proprio morire.

Prima di procedere, è opportuno raccogliere alcune schematiche indicazioni: innanzitutto va ricordato che il morire fa parte del vivere e, pertanto, è oggetto di decisione di coscienza. Anzi, tale decisione ci rende radicalmente insostituibili, proprio come l’amore: nessuno può sostituire la persona amata con un’altra, nessuno può decidere per un altro, nessuno, sebbene possa dare la vita per un altro, può tuttavia vivere come propria la morte di lui. In secondo luogo, occorre prendere coscienza che l’autonomia di una tale decisione non avviene mai al di fuori di un contesto di relazione. Infatti, partendo dall’antropologia dell’indigenza, si capisce come la relazionalità sia costitutiva della persona e non solo accidentale. Fa parte del software e non è semplicemente una app. Non dipende dalla persona essere in relazione: dalla persona dipende come vivere e che senso dare alla relazione.

 

2. «E Gesù, emesso un alto grido, spirò» (Mt 27,50; Mc 15,37). L’eco del grido di Gesù

Dentro l’orizzonte antropologico diventa opportuno raccogliere la rivelazione della morte di Gesù, mostrando come in questo evento non solo sia possibile ritrovare gli elementi umani precedentemente emersi, ma coglierne anche alcuni che possano diventare significativi per gettare luce sul tema del fine vita sotto il profilo etico e giuridico. La teologia sottolinea come la morte di Gesù non sia stato un incidente di percorso e, sebbene sia avvenuta in seguito al suo rapporto critico con le istituzioni religiose e politiche del suo tempo, non trovi nemmeno qui la sua ragione profonda. La password che apre la comprensione dell’evento della croce è invece l’amore, inteso come relazione obbediente alla volontà del Padre e come relazione solidale, di vicinanza e di condivisione con gli uomini peccatori. A differenza del contesto religioso dei suoi contemporanei, che esigeva il rifiuto dei peccatori come condizione di adesione a Dio, Gesù mostra che, al contrario, è proprio l’adesione a Dio che esige la vicinanza con i fratelli peccatori. È quanto ricorda la lettera agli Ebrei:

“Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà»” (Eb 10, 5-7).

La morte di Gesù dunque è frutto di una decisione personale, presa in riferimento alla volontà del Padre e alla condizione dei fratelli, cioè di tutti gli uomini e le donne. Tale decisione, che consiste nel vivere come risposta al bisogno di essere degli altri, è il filo rosso che ha attraversato e motivato eventi e momenti della vita terrena di Gesù: una vita versata per gli altri in obbedienza alla volontà del Padre. Se la morte è l’eredità che di fatto e comunque ogni uomo è chiamato a fare propria, la decisione di vivere spendendosi per il bene di chi ha bisogno diventa una possibile ermeneutica della propria morte. Questa, infatti, appare il risultato logico di una vita donata, l’evento nel quale la donazione di sé si compie nella sua totalità.

Nel vangelo di Giovanni, il dinamismo della morte, intesa come totale dono di sé, si può scorgere nella frase iniziale con la quale l’evangelista introduce l’episodio della lavanda dei piedi (cfr. Gv 13): “Gesù avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine”. Lo stesso evangelista rivela al lettore il senso di quel “fino alla fine” ponendo sulla bocca di Gesù morente in croce come ultime parole “Ecco, ora davvero tutto è stato fatto” (Gv 19,30) [Ihsou/j ei=pen\ tete,lestai( kai. kli,naj th.n kefalh.n pare,dwken to. pneu/ma]. L’amore fino alla fine va inteso in senso cronologico, cioè fino all’ultimo respiro, ma anche in senso intensivo, cioè come un amore del quale non si può pensare uno più grande. Non solo, ma il verbo greco usato all’indicativo perfetto indica che, nell’evento della morte, Gesù ha compiuto l’atto di obbedienza che aveva promesso al Padre venendo nel mondo come uomo: “Ecco, io vengo, o Padre, per fare la tua volontà”. Solo ora, nell’atto del morire, Gesù può dire: “ho fatto ciò che mi chiedevi e che ti avevo promesso”.

Si potrebbe evidenziare un ulteriore aspetto del senso che il morire di Gesù assume nella tradizione cristiana: il legame con la finitezza e il limite, propri dell’uomo che si riconosce creatura di Dio. In qualche misura questa dimensione emerge maggiormente se -come suggerisce san Paolo- viene posta a confronto con lo sforzo prometeico di Adamo di rapinare e usurpare l’immortalità. Nella lettera ai Filippesi 2,6-11, l’apostolo mette a confronto l’atteggiamento di Adamo e quello di Cristo. Il primo, pur essendo uomo mortale, vuole vincere il limite della morte rivendicando l’immortalità e riscattando la sua autonomia dalla dipendenza di Dio. Gesù, al contrario, pur essendo Dio, ha vissuto la morte fino in fondo, accettandone il limite proprio di ogni uomo, in obbedienza alla volontà del Padre. Da una parte, il sogno di sempre di vincere la morte attraverso l’immortalità, cioè bypassando l’esperienza del morire, dall’altra parte, invece, la discesa nell’abisso metafisico della morte per vincerla dal di dentro, mediante la risurrezione. Il senso della morte di Gesù non consiste nella realizzazione dell’immortalità, perché la morte continua ad essere eredità di ogni uomo. La sua vicenda manifesta, piuttosto, che soltanto attraverso l’accettazione del limite estremo della morte è possibile il suo superamento. Pertanto, come in modo icastico scrive Paolo: “Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rom. 6,5).

È possibile sintetizzare quanto detto mettendo in risalto almeno tre spetti della morte di Gesù, i quali possono diventare significativi per la morte di ogni uomo: il legame con una vita vissuta come relazione di dono nei confronti degli altri, l’evento finale che compie in modo definitivo un compito ricevuto, l’accettazione del limite estremo che, per il credente, rende possibile l’evento della risurrezione.

3. Prolungamento interpretativo per un’etica del fine vita

           3.1. Oltre l’idolatria della vita e l’idolatria della morte

La prima luce che si può raccogliere dalla concezione antropologica e dalla narrazione teologica è il legame inestricabile tra il vivere e il morire. Pertanto, non si deve mai dimenticare che chi vive sta in realtà morendo, così come chi muore sta vivendo: il vivere, infatti, non è immortale e il morire non è mai senza vita. Il recupero dell’esperienza del morire dentro il dominio della vita determina il superamento di una sorta di «idolatria della vita», come se questa esperienza di vita non dovesse mai aver fine. Una tale ideologia assume diversi volti: dall’antico sogno dell’immortalità all’avveniristico progetto del posthuman, passando attraverso un vitalismo che si incarna nelle diverse forme di ostinazione terapeutica.

Ma il legame tra la morte del vivente e la vita del morente conduce anche alla necessità di assumere l’esperienza del morire come un evento che interpella la coscienza del morente e lo chiama a deciderne il senso. Da qui la necessità di interrogarsi sulla legittimità di alcune impostazioni etiche che sostituiscono l’oggetto della decisione sul fine vita con un contenuto di natura diversa. Si pensi, per esempio, a quando si decide di porre fine alla vita per evitare la sofferenza. In questo caso, in realtà, si tratta di due decisioni che vanno prese in modo distinto, sebbene abbiano un’innegabile legame l’una con l’altra. Infatti, l’oggetto della decisione circa la sofferenza non è, di per sé, lo stesso che riguardo l’evento del morire; confonderli rischia di strappare alla morte la sua profondità e il suo carattere di definitività. Lungi dal pensiero di sacralizzare una sofferenza inutile: il dolore va combattuto e la medicina palliativa ha fatto e sta facendo passi notevoli nella capacità di rispondere alle diverse tipologie di dolore. Nondimeno il morire non può essere svilito e declassato ad una specie di «decisione di sponda»: per non soffrire procuro la morte. Il piano della risposta (la morte) non è lo stesso piano della domanda (il dolore). Sulla base di queste osservazioni è possibile superare quegli atteggiamenti che, con termini ormai troppo carichi di ideologia, vengono comunemente indicati come accanimento terapeutico ed eutanasia. Non si può sottrarre il morire al vivere, perché non esiste una vita senza morte. Non si può sottrarre il vivere al morire, perché non esiste una morte senza vita. Occorre andare oltre «l’idolatria della vita» e «l’idolatria della morte».

         3.2. La decisione: sempre personale, ma mai solitaria

Ripensare l’evento del morire dentro il dominio della vita comporta anche la necessità di sottrarlo al regno dei fatti bruti, che accadono senza recare l’impronta della libera e consapevole responsabilità della persona. Il morire come atto supremo del vivente diventa, pertanto, oggetto di decisione di coscienza da parte del morente; egli è l’unico ermeneuta della sua morte. Ciò vuol dire che il malato terminale, nella misura in cui ne è capace e competente, è il titolare del discernimento circa le eventuali terapie da adottare, continuare o sospendere. Nel caso questo non accadesse, saremmo di fronte ad una «morte espropriata» del soggetto, che sarebbe privato di un diritto fondamentale.

La titolarità del malato terminale circa la decisone sulla sua morte non deve dimenticare la dimensione relazionale della persona e del dinamismo della decisione di coscienza. Da qui la consapevolezza che solo il paziente è titolare della decisione sulla propria morte, ma mai da solo. Nel dinamismo della decisione dovrà tener conto delle relazioni nelle quali è costituito e che deve assumere come moralmente significative per evitare che la sua coscienza vada incontro ad una scelta arbitraria e falsa. In tal senso, un ruolo importante è rappresentato dai medici con i quali si stabilisce un’alleanza terapeutica che aiuti il malato a capire la reale condizione in cui si trova e il medico a conoscere le convinzioni di vita del malato. Lo stesso va detto della relazione con la famiglia o con la figura di una persona designata i quali possono, eventualmente, diventare il prolungamento interpretativo della volontà del malato, ma mai sovrapporsi ad essa[7].

Alla luce della concezione cristiana della morte, intesa come risposta obbediente a Dio nel dono di sé ai fratelli, particolare importanza riveste il tema del discernimento per stabilire se e quando alcuni trattamenti di fine vita siano da considerarsi proporzionati o sproporzionati[8]. Nel processo del discernimento occorre tener presente la limitatezze delle risorse mediche e la loro distribuzione che, su scala mondiale, non è sempre omogenea[9]. La necessità di un riassetto globale dei sistemi sanitari diventa urgente, pur nella consapevolezza di tempi di realizzazione progressivi e non immediati. Non si vede come giustificare il fatto che lo stesso protocollo terapeutico possa essere sproporzionato dentro un sistema sanitario e proporzionato dentro un altro. Se è proporzionato alla cura di un malato con una particolare patologia, il mezzo terapeutico deve esserlo per tutti i malati che versano nelle stesse condizioni; diversamente per alcuni la rinuncia (forzata) ad esso si configura come un atto di eutanasia, se non nelle intenzioni, almeno nei fatti. In questo caso non si tratta di accettare il limite dell’uomo come essere mortale, ma di subire un processo storico che ha creato un’ingiusta disuguaglianza sociale.

 

Il limite invalicabile: accettazione e speranza (spiro/spero)

Prima di terminare queste suggestioni va segnalato come la questione del fine vita è certamente la prova più evidente della finitudine dell’uomo. Alla luce dell’esperienza di Gesù, questo limite non può essere bypassato, rimosso, ma va accettato e vissuto. Da qui l’invito alla ricerca, e in particolare alla medicina, ad impegnarsi non tanto sulla linea dell’immortalità, quanto piuttosto su quella della progressiva umanizzazione del fine vita. In questo senso è giusto affinare sempre meglio la cura contro il dolore, è giusta la ricerca per trovare risposte efficaci alle diverse forme di malattia. Ma non è logico e sarebbe pericoloso pensare che tutto questo possa alimentare un sogno di amortalità, quasi che ricacciando sempre più indietro la morte dall’esperienza della vita si intraveda la chimera dell’immortalità. A questo proposito rimane sensato il monito di Foucault, quando ricorda che se l'uomo muore non è per il fatto che si è ammalato, ma, al contrario, si ammala proprio perché fondamentalmente è mortale[10]. Non è dunque l’immortalità la strada che conduce alla vittoria sulla morte.

Eppure, non si può negare il desiderio che alberga dentro il cuore dell’uomo e gli fa sperare l’eternità[11]. Questa speranza nella risurrezione e nella vittoria della vita sulla morte nasce proprio dall'interno del lacerante «abisso metafisico dell'abbandono di Dio» che il seguace di Cristo sperimenta, come è accaduto al maestro. Alla fine e come risultato di una vita donata al bene degli altri, Gesù trova la morte in croce che, momentaneamente, segna la sconfessione e lo scacco di quel modo di vivere. Visto la fine che ha fatto sarebbe difficile pensare che la sua impostazione di vita abbia avuto un grande successo; al contrario è palesemente andata incontro al fallimento. Ma proprio all’interno di questo evento disastroso della morte in croce è scritto il germe della vittoria sulla morte che diventa manifesto nell’evento della risurrezione. Quest’ultima non va considerata come un doppio salto mortale rispetto alla vita e alla morte che l’hanno preceduta; in qualche modo ne è il prolungamento interpretativo. Infatti, già dentro la vita vissuta in obbedienza alla volontà del Padre e donata ai fratelli era presente, in germe, la sconfitta della morte. Pertanto, il logos scritto dentro una vita donata è quello della morte; ma il logos scritto dentro questo modo di morire è quello della vita, così che è possibile capire che il logos della risurrezione è già scritto dentro il morire per gli altri. Ecco perché è vero affermare che finché c’è vita c’è speranza; ma è forse ancora più vero dire che finché c’è speranza c’è vita; però è soprattutto vero concludere che finché c’è amore c’è speranza e c’è vita[12].



[1] Relazione tenuta al seminario “Fine vita tra diritto ed etica” che si è svolto il 5 giugno 2019 presso la sala Zuccari, palazzo Giustiniani.

[2] Ἐπίκουρος, Eπιστολὴ πρὸς Μενοικέα [Epicuro, Lettera a Meneceo].

[3] Lucrezio, De rerum natura, III, 880-885.

[4] Cfr. Seneca, Epistulae ad Lucilium, IV.

[5] V. Jankélévitch, La mort, Flammarion, Paris 1977, 46-47.

[6] Cfr. M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; A. MacIntyre, Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues, Open Court, Chicago 1999; E. C. Gilson, The Ethics of Vulnerability: A Feminist Analysis of Social Life and Practice, Routledge, London & New York 2014.

[7] “È anzitutto lui [il paziente] che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situa-zione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo” (Francesco, «Messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del “fine-vita”», 16-17 novembre 2017).

[8] “È dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito «proporzionalità delle cure»” (Ibid.).

[9] “Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura” (Ibid.).

[10] Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino 1969.

[11] “L'istinto del cuore lo (l'uomo) fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell'uomo il prolungamento della longevità biologica non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore che sta dentro invincibile nel suo cuore” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 7. XII. 1965, 18.

[12] Sia lecito segnalare riflessioni più ampie ed approfondite in C. Zuccaro, Il morire umano. Un invito alla teologia morale, Queriniana, Brescia 2002.

 

 
 
 
 
 
 

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