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Emergenza coronavirus, misure penitenziarie e magistratura di sorveglianza

 giovedì, 26 marzo 2020

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di Filippo SCAPELLATO, Magistrato del Tribunale di sorveglianza di Ancona

 
 

Sommario: 1. Carceri e rischio-contagio. Le misure che non comportano scarcerazione. - 2. Carceri e rischio-contagio: la misura deflattiva prevista dal governo e le alternative possibili. - 3. Problemi di efficacia della detenzione domiciliare. - 4. Problemi di sovraccarico (e di sovraesposizione) per la magistratura di sorveglianza. L’alternativa possibile.

 

 

1. Carceri e rischio-contagio. Le misure che non comportano scarcerazione

Sin dall’inizio dell’emergenza Covid-19 sono emerse preoccupazioni per l’eventuale diffusione del contagio all’interno degli istituti di pena giacché al loro interno si verificano quelle condizioni che in ambiente esterno le autorità sanitarie raccomandano in ogni modo di evitare in quanto favoriscono la trasmissione del virus da persona a persona.

Il riferimento è ovviamente all’impossibilità, o comunque estrema difficoltà, di mantenere la prescritta distanza fra gli individui (quella minima dovrebbe essere di un metro, ma in molti la giudicano insufficiente), di evitare gli assembramenti, di impedire contatti fra le persone o comunque delle persone con oggetti ed ambienti eventualmente contaminati da altri. In proposito non è ancora chiaro per quanto tempo (comunque si parla quantomeno di ore) il virus resti vitale sulle superfici, ciò che sembra dipendere anche dal tipo di materiale, e all’interno degli ambienti, ciò che dipende tra l’altro dal grado di aerazione dei locali.

Gli istituti di pena si caratterizzano per la compresenza e convivenza di una moltitudine di persone all’interno di un unico edificio o di un complesso organico di edifici, dove si condividono camere di pernottamento, locali di passaggio (corridoi, ingresso, pianerottoli), locali destinati alle attività lavorative, formative, culturali e ricreative (aule di scuola, laboratori, biblioteche, teatro, palestra, sale per la socialità), ma anche locali infermeria, cucine, lavanderia, cappella, e così via. Non si devono dimenticare poi gli uffici del personale amministrativo e della polizia penitenziaria, ma neppure gli ambienti esterni, specie se di ridotte dimensioni e molto frequentati (locali destinati al “passeggio”, cioè alle ore all’aperto).

Le linee di intervento su cui l’amministrazione penitenziaria si può muovere sembrano essere dunque di due tipi, il primo volto a limitare il contatto all’interno degli istituti, il secondo volto a limitare i contatti tra l’esterno e l’interno degli stessi.

Sotto il primo profilo si potrebbe, per fare qualche esempio, mantenere stabili le composizioni delle camere di pernottamento (celle) senza assegnazione di detenuti ad una nuova cella, con altre persone, se non davvero indispensabile (ad esempio a seguito di liti violente), sospendere, analogamente a quanto disposto per l’ambiente libero, le attività trattamentali in comune (classi di scuola, gruppi di lavoro), ecc. Si potrebbe anche pensare alla temporanea sospensione del regime di sorveglianza dinamica, con le celle aperte per svariate ore al giorno e con i detenuti che passano da un locale all’altro all’interno della sezione di appartenenza, così come della socialità in apposite sale dedicate. Tuttavia si tratta di soluzioni spesso impraticabili o comunque inutili a causa di altre, ineliminabili, occasioni di potenziale contagio: se un detenuto è scarcerato la composizione della cella è per forza modificata perché un altro detenuto prende il posto di quello, locali come la cucina vedono l’impiego e quindi il contatto di detenuti provenienti da diverse sezioni, così come la maggioranza degli altri locali destinati ad attività in comune o comunque non separati per sezioni (teatro, infermeria); all’interno di una stessa sezione la sospensione del regime delle “celle aperte” causerebbe, specie nel momento emergenziale, un surplus di ansia e malumore, e comunque non sarebbe risolutivo perché le porte delle celle (una contigua all’altra) non possono restare ermeticamente chiuse anche di giorno, vi sono detenuti lavoranti che hanno necessariamente contatti con tutti gli altri (portavitto), l’aerazione dei locali non può esser tale da garantire l’immediata scomparsa del virus ove presente.

Sotto il profilo dei contatti con l’esterno, il d.l. 8 marzo 2020, n.11, ha introdotto norme destinate a ridurre le occasioni di contagio provenienti dall’ambiente extramurario, mentre altre accortezze possono essere previste dall’amministrazione. Così l’art.2, c.8, d.l. citato, ha stabilito che i colloqui visivi dei condannati, degli internati e degli imputati con i congiunti ed altre persone si svolgano a distanza, cioè con sistemi di collegamento, anche video, o siano sostituiti da telefonate, che verranno autorizzate anche in numero superiore a quelle ordinariamente previste. La stessa norma ha previsto, al comma 9, la possibilità per la magistratura di sorveglianza di sospendere “la concessione” dei permessi premio e del regime di semilibertà. Questa previsione potrebbe essere considerata come alquanto singolare perché il permesso, premio o di necessità, è beneficio concesso e governato dal Magistrato di Sorveglianza che può senz’altro decidere, anche senza la previsione del d.l., di sospenderne la concessione o l’esecuzione, tanto che sul punto la previsione in discorso sarebbe da considerare come avente non tanto natura normativa quanto di “suggerimento”; più probabilmente però si tratta di consentire al Magistrato di Sorveglianza di respingere, richiamando la situazione emergenziale e senza incorrere in possibili riforme in sede di reclamo ai sensi dell’art.30bis o.p., l’istanza del detenuto anche in presenza di tutti i requisiti (si pensi, per il permesso di necessità, al caso di uno stretto congiunto in imminente pericolo di vita e senza che risultino motivi ostativi legati alla pericolosità del detenuto stesso; si pensi, per il permesso premio, al caso del detenuto che fruisce regolarmente degli stessi da molto tempo e che, senza alcuna regressione comportamentale, se ne vede interrompere la concessione in spregio al principio di continuità trattamentale). Per quanto riguarda la semilibertà, la previsione della possibile sospensione della sua “concessione” pone problemi interpretativi più ardui perché alla lettera sembrerebbe trattarsi unicamente della possibilità di rinviare la decisione (almeno se di accoglimento) delle istanze dei detenuti volte ad ottenere detta misura alternativa, quindi la norma servirebbe solamente a rendere non censurabile, più che altro dal punto di vista disciplinare, il rinvio della decisione in un procedimento già istruito e maturo per l’adozione del provvedimento; certo, la ratio non perfettamente comprensibile del disposto in esame non potrà escludere interpretazioni meno letterali, anche se rispondenti alla ratio della norma (evitare uscite e rientri dall’istituto di pena), quali quella secondo cui la disposizione in questione facoltizza il Magistrato di Sorveglianza a sospendere (non solo la concessione ma) anche l’esecuzione della semilibertà già concessa aggiungendosi così un nuovo caso di sospensione ai casi finora previsti dalla legge, cioè il venir meno dei requisiti legati al titolo di reato ed al quantum di pena già espiata (ciò che si può verificare a seguito della sopravvenuta irrevocabilità di nuovi titoli esecutivi: art.51bis o.p.) o il sopravvenire di motivi legati alla condotta ed alla pericolosità del soggetto (art.51ter o.p.); o quella secondo cui detta sospensione potrebbe avere il senso di legittimare il magistrato a sospendere/revocare temporaneamente la già avvenuta approvazione da parte sua del programma di trattamento, quello che con le sue previsioni consente la concreta operatività della misura alternativa e quindi l’uscita ed il rientro del detenuto semilibero: si eviterebbe così di dover dichiarare la cessazione della misura, che comporta la necessità una volta finita l’emergenza di una nuova istanza di semilibertà del detenuto e di un’udienza per la sua nuova concessione.

Successivamente il d.l. 17 marzo 2020, n.18, ha previsto, all’art.124, la possibilità di concedere ai semiliberi licenze straordinarie, in numero eccedente gli ordinari 45 giorni all’anno previsti, fino alla fine del mese di giugno 2020; questa possibilità va utilizzata con estrema cautela perché i detenuti semiliberi molto spesso sono soggetti con un curriculum penale allarmante, a volte con una pena residua niente affatto trascurabile o addirittura in espiazione dell’ergastolo, senza considerare che altrettanto spesso si tratta di detenuti ai quali nessun’altra misura è stata concessa perché non ritenuta abbastanza contenitiva in relazione al loro livello di affidabilità e di pericolosità residua; inoltre consentire ad un semilibero di restarsene continuativamente in ambiente libero per mesi può significare, soprattutto quando la pena residua sia “importante”, che alla fine dell’emergenza diventi insofferente alle restrizioni nuovamente applicate, con conseguente pericolo sia di fuga che di violazione delle prescrizioni o addirittura della legge penale. Comunque nel far ricorso a questa “licenza straordinaria” bisognerà valutare attentamente e concretamente il rischio di contagio che il regime di semilibertà comporta nella particolare e specifica situazione; infatti, a parte il fatto che la chiusura di molte attività impedisce il proseguimento dell’attività di lavoro svolta e quindi impone la sospensione della misura in vista della dichiarazione della sua cessazione (cioè la revoca non colpevole) oppure una temporanea sospensione di fatto mediante variazione del programma di trattamento, in molti istituti di pena i semiliberi non sono allocati nelle sezioni con gli altri detenuti, ma occupano addirittura edifici separati, senza contatti con gli altri reclusi, ragion per cui il rischio di contagio è ridottissimo e tale da non giustificare il ricorso allo strumento di cui al citato art. 124.  

Per quanto riguarda le misure che possono essere adottate dall’amministrazione penitenziaria, analoghe iniziative di sospensione (che non necessitano di una espressa norma di legge) possono riguardare in primo luogo il lavoro all’esterno ex art.21 o.p., che presenta forti analogie sostanziali con la semilibertà per il fatto che anche in questo caso il detenuto è ammesso ad uscire durante il giorno per recarsi a lavorare fuori del carcere per poi farvi rientro alla fine della prestazione lavorativa (magari dopo esser passato presso l’abitazione dei familiari per incontrarli); la Direzione può dunque modificare il programma di trattamento sospendendo il lavoro all’esterno e sottoporlo al Magistrato di Sorveglianza per l’approvazione. In secondo luogo la Direzione può agire nello stesso modo (variazione del programma di trattamento e sua sottoposizione al Magistrato di Sorveglianza per l’approvazione) anche per la semilibertà, considerazione, questa, che può contribuire a spiegare la menzione, nell’art.124 cit., della sola possibilità per il Magistrato di Sorveglianza di sospendere la concessione della semilibertà, senza alcun riferimento alla sospensione della sua esecuzione.

Anche sotto il profilo delle misure volte ad evitare i contatti tra l’esterno e l’interno del carcere comunque vi sono delle situazioni impossibili da affrontare in maniera efficace: basti pensare per tutte all’ingresso di nuovi detenuti e al quotidiano ingresso e uscita del personale che lavora all’interno del carcere. Si tratta di fattori che tolgono gran parte di utilità alle misure introdotte dai decreti legge suindicati e a quelle adottabili dall’amministrazione.

 

 

2. Carceri e rischio-contagio: la misura deflattiva prevista dal governo e le alternative possibili.

Il passo immediatamente successivo è stato perciò quello di incidere sul numero dei detenuti all’interno del sistema penitenziario. Per un verso con lo scopo di ridurre, in caso di diffusione del contagio, il danno costituito dal numero dei potenziali infettati; per altro verso, si è sostenuto, con lo scopo di garantire in maggior misura il mantenimento di quelle accortezze igieniche raccomandate da sanitari ed esperti (distanza interpersonale di uno o più metri, evitare lo scambio di oggetti personali, ecc. ecc.). Merita appena di essere evidenziato che i sostenitori del riduzionismo carcerario a tutti i costi (o meglio dell’abolizionismo carcerario con l’eccezione di alcuni delitti) non hanno perso tempo nello sfruttare anche l’emergenza sanitaria per tornare alla carica gridando al sovraffollamento delle carceri e invocare nuovi interventi per svuotarle, probabilmente fomentando così anche i malumori e le vere e proprie sommosse che si sono verificate all’interno degli istituti di pena da parte di gruppi di detenuti che, dal canto loro, non aspettavano altro che l’occasione e la scusa per dimostrare –ci si perdoni l’ironia- la piena efficacia nei loro confronti dell’opera di rieducazione svolta dagli operatori penitenziari.

Il fatto è che il sovraffollamento, a ben vedere, c’entra ben poco con i rischi connessi al coronavirus. La diffusione del contagio invero non sembra possa essere evitata o limitata per la semplice osservanza della capienza regolamentare delle carceri: se in una cella per quattro persone si collocano cinque detenuti o se la sezione per un totale di cento detenuti ne ospita in realtà centodieci le conseguenze sul rischio di contagio, in termini di aumento del rischio stesso, paiono prossime allo zero perché la diffusione del virus –assai facile, dicono gli esperti, giacché avviene anche solo per via aerea e per contatto con oggetti già contaminati- è determinata dalla convivenza negli stessi spazi e dall’utilizzo degli stessi locali e spesso dal maneggiare gli stessi oggetti, ciò che all’interno di una cella, di una sezione, di un carcere non può in alcun modo essere evitato a prescindere dal numero, regolamentare o meno, dei detenuti presenti. Se un detenuto è portatore del virus quasi certamente lo trasmetterà ai suoi compagni di cella sia che questi siano tre sia che siano quattro sia che siano cinque. Quindi a nostro avviso l’utilità della riduzione del numero di detenuti nell’emergenza sanitaria è riconducibile unicamente al fatto che in caso di contagio il numero di infettati sarà minore, mentre non è pensabile che la presenza di un minor numero di detenuti possa evitare la diffusione del virus una volta che esso sia entrato in un istituto di pena, con l’eccezione, forse (in realtà non è certo neppure in questo caso, come sopra si diceva), delle sole carceri nelle quali le camere di pernottamento sono tutte singole.

A definitiva conferma che i “riduzionisti/abolizionisti” hanno colto al volo l’occasione del coronavirus per riproporre le loro istanze senza una vera connessione con il problema emergenziale in corso basta considerare il tipo di interventi da loro richiesti, spesso sganciati dalla possibilità di una scarcerazione immediata (l’unico obiettivo comprensibile: l’emergenza è adesso!), ma destinati invece a ridurre la pena un po’ a tutti su vasta scala: il riferimento è evidentemente alla richiesta, di cui in questi giorni si legge, di riesumare la “liberazione anticipata speciale”, cioè un aumento dell’abbuono semestrale di pena per buona condotta (ci si perdoni la formula riassuntiva) che dovrebbe passare, secondo le proposte, da 45 giorni a 60, 75, ecc. E’ chiaro che moltissimi detenuti otterrebbero un ulteriore sconto di pena senza poter essere subito scarcerati, ma “monetizzando” questo vantaggio fra anni, senza alcun nesso con l’emergenza coronavirus. Tra l’altro si tratterebbe dell’ennesima tegola sulla testa dei Magistrati di Sorveglianza, che sarebbero sommersi da valanghe di istanze da istruire e decidere come accadde ai tempi delle misure straordinarie per ridurre il sovraffollamento a seguito della sentenza Torreggiani della CEDU.

 

Premesse queste considerazioni sull’utilità di ridurre il numero di presenze in carcere e sulle istanze levatesi a richiedere interventi di deflazione carceraria, si deve mettere in rilievo che da subito la magistratura di sorveglianza aveva da più parti avvertito che sarebbe stato insostenibile -per le sue concrete possibilità date dall’organico dei magistrati e del personale realmente in servizio rispetto agli organici teorici nonché dalle complessive, scarse, risorse a sua disposizione- raggiungere tale obiettivo mediante interventi che riversassero ancora una volta sulle sue spalle il peso delle emergenze penitenziarie.

Per perseguire l’obiettivo della riduzione dei detenuti senza aggravare il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza le strade percorribili potevano essere due. La prima costituita da una legge clemenziale (amnistia o indulto), che avrebbe facilmente raggiunto l’obiettivo voluto individuando con esattezza i requisiti di applicazione. La seconda consistente nella previsione di una misura demandata sì all’intervento della magistratura di sorveglianza, ma “automatica”, cioè concedibile previa esclusiva verifica di requisiti oggettivi, immediatamente rilevabili, e senza alcuna valutazione discrezionale circa la meritevolezza o meno del singolo detenuto.

Così non è stato, perché da un lato il parlamento non ha manifestato alcuna intenzione di lavorare su un testo di legge di amnistia o indulto, dall’altro lato l’art. 123 del d.l. n.18/2020 redatto dal governo ha introdotto un rimedio per un verso caratterizzato da marcata timidezza (e quindi limitata efficacia), per altro verso gravante ancora una volta in maniera eccessiva sulla magistratura di sorveglianza.

Si tratta della riedizione dell’esecuzione presso il domicilio, quella sorta di detenzione domiciliare ideata nel 2010 con la legge n. 199 tra gli strumenti deflattivi volti a ridurre il sovraffollamento carcerario a seguito delle note pronunce della CEDU. In realtà si tratta di una misura i cui caratteri di rapidità si esauriscono nel rito de plano (comunque previo parere del PM) e, teoricamente, in quella che il legislatore anche allora presentò come una concedibilità quasi automatica al ricorrere di alcuni requisiti di facile verificabilità; di fatto tuttavia la necessità di valutare l’assenza di elementi concreti indicanti il pericolo di fuga o di commissione di nuovi reati costituiva un appesantimento notevole per il magistrato di sorveglianza e per l’istruttoria da espletare, ma rispondeva ad un ben preciso orientamento della corte costituzionale che, perfino in relazione al cd. indultino di cui alla legge n. 207/2003, ebbe modo di puntualizzare con la sentenza n. 255/2006 che andava riconosciuta all’istituto natura di misura alternativa, con la conseguenza che la sua concessione non poteva prescindere da un giudizio circa la meritevolezza del condannato.

 

 

3. Problemi di efficacia della detenzione domiciliare.

La previsione, oggi, della stessa misura (chiamata tuttavia “detenzione domiciliare”), seppur con alcune modifiche circa i requisiti richiesti, si traduce in uno strumento lento e poco efficace per le finalità avute di mira.

Lo strumento (applicabile su istanza di parte e perciò non anche d’ufficio come le altre misure alternative) è poco efficace perché, a parte l’ovvia ed indispensabile verifica dell’esistenza, disponibilità ed idoneità del domicilio indicato dall’istante:

a)                 è applicabile solo per pene, anche residue, non superiori a 18 mesi e dunque riferibili a detenuti già ritenuti pericolosi o senza risorsa alcuna in ambiente extramurario (magari neppure un domicilio idoneo), giacché in caso contrario avrebbero già avuto accesso ad una misura alternativa;

b)                 è prevista l’esclusione dei soggetti riconosciuti portatori di pericolosità qualificata (delinquenti abituali, professionali o per tendenza; non invece i contravventori abituali), per i quali la legge prevede tra l’altro la sottoposizione a misura di sicurezza;

c)                 è prevista l’esclusione dei detenuti condannati per reati indicati nell’art.4bis o.p. e per i reati di cui agli artt. 572 e 612bis c.p.; alla consueta esclusione per i reati “ostativi” di cui all’art.4bis perciò si aggiunge quella dei reati di maltrattamenti ed atti persecutori, ciò che difficilmente si comprende se si tiene conto che gli autori di maltrattamenti, in particolare, potrebbero disporre di un domicilio dove andrebbero a vivere da soli e quindi senza rischio di reiterazione del reato, senza contare che la presenza di potenziali vittime va in ogni caso valutata, a prescindere dal reato commesso, come criterio di accertamento dell’idoneità del domicilio indicato nell’istanza; non è specificato se si debba procedere o meno allo scioglimento del cumulo in caso di pene relative a più reati alcuni dei quali esclusi dal beneficio, ma data la natura emergenziale dell’istituto è preferibile la soluzione negativa in quanto, dal punto di vista giuridico, per le misure di questo tipo la giurisprudenza di legittimità ha in passato escluso tale operazione e, dal punto di vista pratico, nel caso contrario l’attività dei magistrati sorveglianza e delle cancellerie verrebbe paralizzata dall’istruttoria necessaria ad acquisire le sentenze di condanna e dai calcoli necessari per verificare qual è la parte di pena riferibile a ciascun reato;

d)                 è prevista l’esclusione - del tutto correttamente - di coloro che sono stati sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14bis o.p. perché pericolosi per la sicurezza interna dell’istituto di pena, siano stati protagonisti in carcere di recenti (cioè commesse nell’ultimo anno) infrazioni disciplinari caratterizzate da violenza ed aggressività (sintomo di persistente pericolosità) e di coloro che siano stati destinatari di rapporto disciplinare (anche non ancora sfociato in sanzione) perché coinvolti (a qualunque titolo: promotori, capi, partecipi, ecc.) nei recenti episodi di sommossa avvenuti all’interno di alcune carceri proprio per pretendere misure comportanti la scarcerazione; è evidente che lo Stato non può accordare alcun beneficio, fosse anche caratterizzato da scopi emergenziali di igiene e sanità, a chi abbia messo a ferro e fuoco il carcere come ricatto nei suoi confronti; per questo deve ritenersi che l’esclusione resti operante anche quando il reclamo contro la sanzione disciplinare sia stato accolto non per motivi di merito ma per motivi di forma attinenti al procedimento disciplinare, ove resti comunque accertata la commissione del fatto;

e)                 vi è la previsione - inedita nel settore penitenziario - della necessaria applicazione del braccialetto elettronico per chi ha pene residue tra i 6 e i 18 mesi (che deve manifestare il consenso previamente, cioè prima della decisione dell’istanza), con ineseguibilità della misura fino alla disponibilità di detti dispositivi di controllo; trattasi di condizione di eseguibilità e non di concedibilità della misura, perché la magistratura di sorveglianza non ha alcun controllo sulla disponibilità dei dispositivi di controllo elettronico e soprattutto vi è la previsione espressa di una vera e propria lista d’attesa laddove si stabilisce che la “esecuzione” avviene progressivamente a partire dai detenuti con pena residua inferiore (comma 1, n.5, ultimo periodo). E’ chiaro che tale previsione, considerata la scarsa disponibilità dei predetti dispositivi di controllo, rende oltremodo inefficace la misura introdotta e rischia di far lavorare a vuoto i Magistrati di Sorveglianza.

f)                  con il richiamo nei limiti della compatibilità (comma 8) alle disposizioni dell’art. 1, legge n. 199/2010, diverse da quelle di cui ai commi 1, 2 e 4, vengono poi esclusi dal beneficio coloro che si siano visti revocare una misura alternativa secondo la disciplina dell’art. 58quater o.p.

 

Aver limitato la misura a pene di entità ridotta e l’esclusione di determinate categorie di detenuti è frutto di una precisa scelta politica volta ad evitare la reimmissione in ambiente esterno di un numero di detenuti con pene elevate e in ogni caso presumibilmente portatori di una pericolosità non trascurabile, ma si scontra pesantemente con la finalità deflattiva della norma. Per di più l’infelice formulazione della prima parte dell’art. 123 (“in deroga al disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’art.1 della legge 26 novembre 2010, n. 199”) ha già fatto sorgere due diverse interpretazioni, la prima che esclude l’applicabilità, fino al 30 giugno 2020, dell’originaria esecuzione presso il domicilio, la seconda che continua ad ammetterla. Entrambe le soluzioni hanno alcuni elementi a favore, in particolare la prima evita che possano essere scarcerati fra gli altri i detenuti coinvolti nelle recenti rivolte, la seconda consente di scarcerare, grazie alla concessione di quella misura “originaria”, categorie di detenuti ora escluse, andando comunque nella direzione deflattiva perseguita dal governo, anche se, va detto, resta comunque impregiudicata la possibilità di concedere anche in via monocratica provvisoria le altre misure alternative previste dall’ordinamento, per le quali un problema di sopravvivenza sicuramente non si pone.

 

 

4. Problemi di sovraccarico (e di sovraesposizione) per la magistratura di sorveglianza. L’alternativa possibile.

Oltre a presentare problemi di reale efficacia deflattiva, questa nuova esecuzione presso il domicilio va a gravare sulla magistratura di sorveglianza -già pesantemente e progressivamente oberata ed ora in situazione di emergenza per i malumori dei detenuti, la crisi sanitaria e le misure già introdotte- perché rispetto alla bozza che da qualche giorno circolava, nella quale le valutazioni da effettuare erano caratterizzate da oggettività, è stato alla fine introdotto, nel decreto legge effettivamente varato, un elemento di ampia discrezionalità costituito dall’assenza di “gravi motivi ostativi” (comma 2). Ciò comporta che la previsione di quella che doveva essere un’istruttoria limitata e demandata agli istituti di pena ed alla polizia penitenziaria (su pena residua, titolo di reato, sanzioni disciplinari per infrazioni determinate, disponibilità di idoneo domicilio, senza necessità di una relazione di sintesi sull’osservazione del detenuto) viene vanificata dalla necessità di valutare che non sussistano motivi ostativi alla concessione della misura: il tutto si traduce nella necessità di acquisire quantomeno i certificati dei carichi pendenti del luogo d’origine e/o di commissione dei reati e gli eventuali precedenti provvedimenti della magistratura di sorveglianza, ma anche -non sarebbe da escludere- le relazioni delle forze dell’ordine e informazioni dal carcere, perché possono esservi episodi concreti che, pur non sfociati per i motivi più vari in sanzioni disciplinari, potrebbero essere rilevanti per individuare i predetti motivi ostativi.

E’ allora prevedibile che, data la finalità del decreto legge, parte dei magistrati di sorveglianza si orienti per un’interpretazione “riduttiva” circa la necessità di valutare la presenza di quei motivi ostativi, mentre altra parte adotti una linea più “prudente” e conduca un’istruttoria più ampia che però porterà a vanificare la finalità di sfollare rapidamente le carceri. Dunque l’alternativa sarà tra assumersi il rischio di scarcerazioni non precedute da attenta valutazione o vanificare al contrario lo spirito della norma approfondendo aspetti legati alla meritevolezza del detenuto.

 

In conclusione la magistratura di sorveglianza dovrà supplire, a proprio rischio e con le ridottissime risorse di cui dispone, alla inerzia del parlamento che avrebbe potuto provvedere con amnistia o indulto ed alla timidezza del governo, che non ha inteso prevedere una misura ad applicazione automatica con l’evidente intento di scaricare sulla magistratura il rischio di nuove azioni delittuose dei soggetti scarcerati, che verranno addebitate all’incapacità dei giudici o alla loro eccessiva “morbidezza” verso i condannati.

Per di più il danno costituito dall’enorme lavoro che la magistratura di sorveglianza dovrà compiere sarà prevedibilmente accompagnato in moltissimi casi dalla beffa rappresentata dalla mancata esecuzione della misura concessa per difetto dei mezzi di controllo elettronico e dalla messa in “lista d’attesa” dei detenuti scarcerandi finché non si renda disponibile uno di detti strumenti.

 

Il problema di fondo è rappresentato dal ricorso ad una misura a tutti gli effetti alternativa, che come tale, come stabilito dalla corte costituzionale già in riferimento al vecchio “indultino”, non può prescindere da un giudizio esteso, in certa misura, alla meritevolezza.

Si sarebbe dovuto invece prevedere una misura del tutto svincolata da detta meritevolezza se non a monte, nella scelta da parte del legislatore dei requisiti necessari alla sua concessione (non inerenza della pena a determinati delitti, pena massima non superiore ad un certo limite, non coinvolgimento nelle recenti sommosse, assenza di recenti revoche di misure alternative).

Una misura deflattiva di questo tipo poteva modellarsi sulla detenzione domiciliare di durata temporanea di cui all’art.47ter, c.1ter, o.p., detta “a tempo” o “sostitutiva”, in quanto applicabile per un periodo determinato in luogo del differimento dell’esecuzione della pena detentiva quando vi siano i presupposti (generalmente legati a gravi ragioni di salute) di tale differimento (artt.146 e 147 c.p.). Più precisamente si sarebbe potuto introdurre, fino ad una data determinata, una nuova ipotesi di detenzione domiciliare “sostitutiva”, obbligatoria come le ipotesi di cui all’art.146 c.p., costituita dalla necessità di prevenire il contagio da coronavirus. Il primo vantaggio sarebbe stato che la sua durata avrebbe potuto essere commisurata alla effettiva persistenza dell’emergenza sanitaria (con ciò riducendo di molto le preoccupazioni legate alla scarcerazione di condannati con pene superiori ai 18 mesi, che avrebbero così potuto essere inclusi fra i destinatari) stabilendo una durata ad esempio di tre mesi, eventualmente prorogabile in caso di  persistenza dell’emergenza stessa; al riguardo, in effetti, la misura prevista dal governo pare sovrabbondante rispetto alle esigenze perseguite perché non si vede la ragione per la quale a fine giugno, magari con il rischio-contagio al termine, si possa concedere la misura a un condannato che deve ancora espiare 18 mesi di pena detentiva. Il secondo pregio di questa soluzione è, soprattutto, che per la sua concessione non è richiesto alcun giudizio di meritevolezza, ciò che avrebbe evitato alla magistratura di sorveglianza questo nuovo, ulteriore aggravio di carichi lavorativi ed anche, data l’obbligatoria concessione della misura in discorso, il rischio legato alle eventuali condotte illecite dei soggetti ad essa ammessi. Quanto ad eventuali preoccupazioni connesse a possibili condotte illecite dei soggetti beneficiari di questa detenzione domiciliare “a tempo”, si può osservare che l’obbligatorietà ben può intendersi riferita alla prima concessione della misura stessa, ma non certo al suo mantenimento (e quindi all’impossibilità di revoca). In altre parole se per la concessione non andrà valutata la meritevolezza, questa tornerà in rilievo quando nel corso della misura la condotta del condannato ne palesi con evidenza la mancanza.

 

 
 
 
 
 
 

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