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CIVILE

Garanzia per i vizi nel contratto di appalto e onere della prova

  Civile 
 mercoledì, 25 marzo 2020

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Simona Gambacorta, Giudice Tribunale di Torino

 
 

 

Sommario: 1. Garanzia per i vizi e onere della prova nella compravendita e nell’appalto: dalla decisione delle Sezioni Unite in materia di compravendita all’emersione di un nuovo contrasto giurisprudenziale in materia di appalto - 2. Il punto di vista di Cass. n. 19146/2013 circa il rilevato contrasto - 3. Vaglio sull’utilizzabilità del percorso argomentativo utilizzato dalle Sezioni Unite n. 11748/2019 al contratto di appalto - 4. Conclusioni

 

 

1. Garanzia per i vizi e onere della prova nella compravendita e nell’appalto: dalla decisione delle Sezioni Unite in materia di compravendita all’emersione di un nuovo contrasto giurisprudenziale in materia di appalto

Recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 11748/2019, ha risolto il contrasto giurisprudenziale formatosi circa il soggetto tenuto a provare l’esistenza dei vizi della cosa nel contratto di compravendita (venditore o compratore), ove l’acquirente intenda avvalersi in giudizio della garanzia prevista dall’art. 1490 c.c.

Analogo interrogativo si pone in materia di appalto, con riguardo alla garanzia per i vizi dell’opera disciplinata dagli artt. 1667, 1668, 1669 c.c.

Scorrendo le pronunce della Cassazione sul tema indicato, si rileva, infatti, un contrasto di giurisprudenza, proprio come in materia di compravendita (prima della risoluzione ad opera delle Sezioni Unite).

Ci sono infatti sentenze che affermano che l’onere probatorio sia in capo al committente (ad esempio, Cass. n. 5250/2004 e n. 21269/2009) ed altre che affermano il contrario, trasponendo, alla materia in questione, il principio generale in tema di riparto dell’onere probatorio nella responsabilità contrattuale fissato dalla nota sentenza Cass. Sez. Un. n. 13533/2001.

Così, ad esempio, Cass. n. 5250/2004 afferma: “incombe al committente l'onere probatorio in ordine alla sussistenza dei vizi dedotti a fondamento della domanda di risoluzione del contratto di appalto, mentre compete all'appaltatore addurre l'esistenza di eventuali cause che impediscano al committente di far valere il suo diritto”;

Diversamente, Cass. n. 936/2010 si esprime nei seguenti termini: “In tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell'opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all'art. 1667 cod. civ., ma non derogano al principio generale che governa l'adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che l'appaltatore, il quale agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto, abbia l'onere - allorché il committente sollevi l'eccezione di inadempimento di cui al terzo comma di detta disposizione - di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte”.

 

2. Il punto di vista di Cass. n. 19146/2013 circa il rilevato contrasto

Del rilevato contrasto giurisprudenziale tratta la sentenza della Cassazione n. 19146/2013, la quale tuttavia, pur dando atto dei divergenti orientamenti, ritiene di non dover rimettere la questione alle Sezioni Unite poiché si tratterebbe di un contrasto solo apparente.

In questa sentenza, infatti, la Suprema Corte sottolinea la peculiarità della fattispecie oggetto della sentenza n. 936/2010, caratterizzata dal fatto che il collaudo dell’opera aveva avuto esito negativo, per cui l’opera non era mai stata accettata dal committente ex art. 1665 c.c. E’ questa particolarità, secondo la Cassazione, a comportare l’onere dell’appaltatore di provare l’esattezza del proprio adempimento e a ritenere il contrasto di giurisprudenza solo apparente, sostenendo che “la diversità di soluzioni, apparentemente rinvenibili nelle massime riconducibili all’uno o all’altro indirizzo, sia in realtà il risultato, o la conseguenza, della diversa fase negoziale in cui la questione dell’onere probatorio fra le parti può venire in gioco”.

La Cassazione, ripercorrendo il quadro normativo di cui agli artt. 1665 e 1667 c.c., in cui l’accettazione dell’opera ha conseguenze sullo stesso ambito della garanzia per le difformità e i vizi dell’opera, arriva ad individuare il momento dell’accettazione (anche tacita) dell’opera, come “spartiacque ai fini della distribuzione dell’onere della prova tra le parti”. Questa la massima:

In tema di garanzia per difformità e vizi nell'appalto, l'accettazione dell'opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell'onere della prova, nel senso che, fino a quando l'opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell'esistenza dei vizi, gravando sull'appaltatore l'onere di provare di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte, mentre, una volta che l'opera sia stata positivamente verificata, anche "per facta concludentia", spetta al committente, che l'ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l'esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate, giacché l'art. 1667 cod. civ. indica nel medesimo committente la parte gravata dall'onere della prova di tempestiva denuncia dei vizi ed essendo questo risultato ermeneutico in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova”.

Il ragionamento che fa la Cassazione è il seguente: finché l’opera non sia, espressamente o tacitamente accettata, l’applicazione all’appalto del principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive importa che, sorta contestazione sull’esattezza dell’adempimento dell’obbligazione (nel caso specifico, perché il collaudo aveva avuto esito negativo), al committente che faccia valere in giudizio la garanzia per i vizi dell’opera è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore, debitore della prestazione, l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte. Invece, una volta verificata positivamente l’opera, anche per facta concludentia, è il committente che accetta e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica a dover dimostrare l’esistenza dei vizi.

La Suprema Corte, dunque, fonda il proprio orientamento sul principio, riconducibile all’art. 24 Cost. ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’agire in giudizio, di vicinanza della prova.

E’ interessante notare che la citata sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11748/2019 in materia di onere probatorio dei vizi nella compravendita, nella parte finale della motivazione, osserva che l’orientamento prescelto (che addossa all’acquirente l’onere di provare l’esistenza dei vizi) è armonico rispetto alle “analoghe soluzioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in materia di prova dei vizi della cosa nel contratto di appalto e nel contratto di locazione” e, con riguardo al contratto di appalto,  richiama proprio la sentenza n. 19146/2013 sopra esaminata, sembrando quindi dare per scontato che sia questo l’orientamento da seguire in materia di appalto.

 

3. Vaglio sull’utilizzabilità del percorso argomentativo utilizzato dalle Sezioni Unite n. 11748/2019 al contratto di appalto

Certamente le due garanzie per i vizi, nella compravendita e nell’appalto, presentano delle analogie e pertanto può essere utile interrogarsi sulla spendibilità delle argomentazioni utilizzate dalle Sezioni Unite in materia di compravendita anche con riferimento al contratto di appalto.

Al riguardo può evidenziarsi che la decisione delle Sezioni Unite si basa su tre snodi motivazionali di cui almeno due, quello fondato sul principio di vicinanza della prova e quello ispirato al principio negativa non sunt servanda, restano pienamente validi ed applicabili anche alla materia dell’appalto.

Quanto al primo, le Sezioni Unite rammentano come il principio di vicinanza della prova è alla base anche della sentenza n. 13533/2001 che detta le regole generali in tema di riparto dell’onere probatorio nelle obbligazioni contrattuali e, in materia di vendita, sottolinea come il compratore, avendo la disponibilità materiale della cosa, è la parte che può meglio accertare il vizio. Il medesimo ragionamento può farsi rispetto al committente che, avendo accettato l’opera, ha la disponibilità materiale e giuridica della stessa, argomento che come si è visto si rinviene nella sentenza n. 19146/2013.

Il principio di vicinanza della prova assume portata centrale nella materia del riparto dell’onere probatorio, per la sua matrice costituzionale (art. 24 Cost.) ed il suo aggancio al principio di effettività della tutela giurisdizionale di derivazione europea che trova riconoscimento negli artt. 19 Trattato sull’Unione Europea, art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 263 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sua declinazione particolare di divieto di adottare una disciplina della tutela giurisdizionale che renda praticamente impossibile o eccessivamente gravoso l'esercizio dei diritti attribuiti al singolo.

Difatti le Sezioni Unite in materia di compravendita rimarcano come l’orientamento prescelto sia conforme alla disciplina dei contratti dei consumatori di derivazione europea, osservando come anche il diritto dell’Unione Europea addossi all’acquirente l’onere di provare la difformità della cosa dalla relativa descrizione contrattuale.

La Direttiva 1999/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio prevede infatti – all’art. 2, paragrafo 2 – una presunzione iuris tantum di conformità al contratto dei beni venduti, qualora ricorrano le condizioni ivi elencate;  essa inoltre – all’art. 3, paragrafo 1 - pone in capo al venditore la responsabilità per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. Tali disposizioni – che trovano corrispondenza nell’art. 129, comma 2, e rispettivamente, nell’art. 130, comma 1, del codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) – sono state interpretate nella sentenza CGUE 4.6.15 C-497/13 nel senso che dal loro combinato disposto “si evince che, in linea di principio, è compito del consumatore produrre la prova che esiste un difetto di conformità e che quest’ultimo esisteva alla data di consegna del bene” (p. 52). La Corte di Giustizia ha, peraltro, precisato che il suddetto principio viene derogato, per il caso in cui il difetto di conformità si sia manifestato entro sei mesi dalla consegna del bene, dalla presunzione di esistenza del difetto di conformità al momento della consegna prevista dall’art. 5, paragrafo 3, della medesima direttiva 1999/44 (a cui corrisponde l’art. 132, comma 3, del codice del consumo) e non è privo di rilievo che detta deroga sia stata spiegata dalla Corte di Lussemburgo proprio con riferimento al principio di vicinanza della prova (cfr. p. 54: “questo alleggerimento dell’onere della prova a favore del consumatore è fondato sulla constatazione che, qualora il difetto di conformità emerga solo successivamente alla data di consegna del bene, fornire la prova che tale difetto esisteva già a tale data può rivelarsi “un ostacolo insormontabile per il consumatore”, mentre di solito è molto più facile per il professionista dimostrare che il difetto di conformità non era presente al momento della consegna e che esso risulta, per esempio, da un cattivo uso del bene fatto dal consumatore”).

Quanto al principio negativa non sunt probanda, anche questo, ricordano le Sezioni Unite, ispira la sentenza n. 13533/2001, e sottolineano che la prova dell’esistenza del vizio della cosa è una prova positiva, più agevole di quella negativa di inesistenza del vizio medesimo. Il medesimo principio è certamente valido anche in materia di appalto, potendo al riguardo altresì evidenziarsi che il vizio, rispetto al concetto di inadempimento in generale, ha un sostrato materiale che rende piana l’applicazione dell’art. 2967 c.c.

Ciò basterebbe a ritenere che l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione in materia di vizi nella compravendita debba trovare applicazione anche in materia di appalto (con i distinguo fatti da Cass. n. 19146/2013 riguardo all’avvenuta, o meno, accettazione dell’opera); tuttavia per completezza si esamina anche l’ulteriore punto motivazionale utilizzato delle Sezioni Unite per arrivare ad affermare che sia il compratore a dover dare la prova dei vizi, per poi chiedersi se il medesimo ragionamento possa valere anche in materia di appalto.

Nella sentenza n. 11748/2019 le Sezioni Unite, pur dichiarando di non condividere l’orientamento dottrinale che ricostruisce la garanzia per i vizi come un rimedio di tipo assicurativo, affermano tuttavia che non vi è per il venditore alcun obbligo di prestazione relativo alla immunità della cosa dai vizi, perché il venditore ha solo l’obbligo di consegnare la cosa nello stato in cui si trova al momento dello scambio dei consensi ed a prescindere dalla presenza di vizi. In altri termini, le Sezioni Unite sostengono che la consegna di cosa viziata, pur essendo violazione della lex contractus, non configura inadempimento di obbligazioni, ciò che appunto giustifica la mancata applicazione dei principi generali in materia di riparto dell’onere della prova in tema di inadempimento contrattuale sanciti da Cass. n. 13533/2001.

Dunque, le Sezioni Unite sanciscono che: la garanzia per i vizi a cui è tenuto il venditore non integra un’obbligazione, dà vita ad una responsabilità contrattuale speciale, disciplinata appunto dalle norme sulla garanzia per i vizi e determina, per il venditore, non già un obbligo ma una situazione di soggezione alle azioni edilizie che l’acquirente può esperire.

Questo punto motivazionale è forse meno spendibile in materia di appalto, poiché dovrebbe negarsi che l’appaltatore abbia l’obbligo di costruire un’opera esente da vizi, avendo solo l’obbligo di costruire l’opera, ma tale affermazione desta quanto meno delle perplessità, considerando che l’obbligazione dell’appaltatore è proprio un’obbligazione di facere che deve svolgersi nel rispetto delle buone regole dell’arte tecnica.

Ad ogni modo, gli altri due punti motivazionali appaiono prevalenti, anche per essere proiezione, come visto, di principi costituzionali ed europei.

 

4. Conclusioni

In conclusione, l’orientamento sulla materia in trattazione che attualmente appare più convincente perché armonico rispetto ad una lettura costituzionalmente orientata ed al diritto europeo, è quello di cui alla sentenza n. 19146/2013 (richiamato anche da Cass. Sez. Un. 11748/2019) per cui, ogni volta che il committente abbia accettato l’opera, anche in maniera tacita (come quando la riceve senza riserve, art. 1665 comma 4 c.c.), è lo stesso committente a dover provare l’esistenza dei vizi.

La questione esaminata non è solo teorica; può apprezzarsene, infatti, il rilievo pratico in diverse situazioni tutt’altro che infrequenti nella pratica giurisdizionale, ad esempio:

- vi è stato un mutamento dello stato dei luoghi, si determina quindi l’impossibilità di accertare i vizi; questa situazione è proprio quella che ricorreva nel caso preso in esame da Cass. n. 19146/2013, in cui il CTU era stato nell’impossibilità di verificare la sussistenza dei vizi in un negozio ristrutturato di Torino perché nel frattempo vi era stato un cambio di gestione con un mutamento della situazione dei luoghi; dice la Cassazione: “tale mancato accertamento, essendo incontroversa l’avvenuta consegna dell’opera da parte dell’appaltatore, non poteva che ricadere sul committente”; si pensi pure ai casi non infrequenti in cui, prima della modificazione dello stato dei luoghi, non venga fatto un ATP e il committente chieda una prova testimoniale che poi non riesce effettivamente ad accertare i vizi;

- aspetti tecnici che la CTU comunque non riesca a dirimere, sia sotto il profilo fattuale, sia sotto quello della riconducibilità causale del difetto all’opera dell’appaltatore; anche in tal caso il mancato accertamento, aderendo all’orientamento indicato, deve ricadere sul committente;

- caso, forse il più frequente (si pensi ad opposizioni a decreto ingiuntivo di carattere dilatorio) di allegazioni generiche dei vizi (vizi descritti solo genericamente, mancanza di perizia tecnica di parte etc.); in tutte queste ipotesi, partendo dal presupposto dell’onere probatorio dei vizi in capo al committente, la motivazione del giudice è certamente rafforzata nel valutare una richiesta di CTU esplorativa e nel sottolineare il carattere generico delle allegazioni.

Infine, è il caso di osservare che, una volta assolto da parte del committente l'onere di provare l'esistenza dei difetti, sorge a carico dell'appaltatore l'onere di provare che la cattiva esecuzione dell'opera è stata determinata dall'impossibilità di un esatto adempimento della prestazione derivante da causa ad esso non imputabile. La colpa dell’appaltatore è infatti presunta, in aderenza alla regola generale di cui all’art. 1218 c.c.

 

 

 
 
 
 
 
 

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