ultimo aggiornamento
mercoledì, 10 aprile 2024 10:27

CIVILE

I principali profili giuridici del diritto di cronaca e di critica nei più recenti interventi giurisprudenziali delle sezioni civili della Corte di cassazione

  Civile 
 lunedì, 29 ottobre 2018

Print Friendly and PDF

Corrado Mistri, Sostituto procuratore generale della Corte di cassazione
Maria Cristina de Angelis, tirocinante ex articolo 37 D.L. n. 98 del 2011, presso la Procura Generale della Corte di cassazione

 

 
 

 

Gli autori affrontano i principali aspetti legati al diritto di cronaca e di critica ed al diritto alla tutela della riservatezza e della reputazione esaminando i principali ed i più recenti arresti delle sezioni civili della Corte di cassazione.

 

 

1.                      Premessa.     I diritti legati all’informazione rappresentano uno dei centri del dibattito sociale, politico e giuridico attuale, poiché strettamente legati alla quotidianità della società civile: il diritto di cronaca, o diritto di informare, infatti, costituisce una delle articolazioni della libertà di manifestazione del pensiero che si concreta nel diritto di esporre e divulgare informazioni afferenti a fatti considerati di pubblico interesse.

La protezione offerta dall’articolo 21 della Costituzione non è tuttavia sufficiente a garantire un pacifico esplicarsi del diritto di cronaca, trovando necessario contrappeso nell’altrettanto tutelato diritto alla riservatezza dei consociati nonché nelle norme penali relative ai delitti contro l’onore, tanto è vero che la cronaca, soprattutto a mezzo stampa, per un lato rappresenta espressione di libertà costituzionalmente tutelate dell’individuo e, come tale, è anche causa di giustificazione rispetto all’antigiuridicità di una condotta penalmente rilevante, per l’altro costituisce circostanza aggravante di tutti quei reati lesivi dell’onore della persona, come bene giuridico protetto del dettato di cui all’articolo 2 della Costituzione.

Il diritto di cronaca come diritto di informare e di essere informati è, come noto, espressamente tutelato dall’articolo 21 della Carta Costituzionale, al qual proposito va ricordato come, sin dalla sentenza n. 105 del 10 luglio 1972, la Corte Costituzionale abbia ritenuto <<esiste un interesse generale all’informazione>> che, quale manifestazione dei diritti propri di una democrazia <<implica una pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee>>.

La libertà di informazione, e per essa il diritto di cronaca quale espressione della libertà di pensiero, è tutelata anche in ambito sovranazionale dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e dall’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dalla Carta di Nizza, che, all’articolo 11, riconosce non solo la libertà di ricevere e di comunicare informazioni ma anche il pluralismo dei mezzi di informazione.

  Anche il diritto di critica, quale valutazione soggettiva che viene sviluppata di quel fatto storico oggetto della cronaca, viene ricondotto all’alveo delle libertà costituzionalmente tutelate dall’articolo 21 Cost.: esso non si manifesta solamente nella semplice esposizione dell’opinione del giornalista su determinate circostanze, ma si caratterizza per essere una interpretazione di fatti considerati di pubblico interesse, avendo di mira non l’informare, bensì l’interpretare l’informazione e, partendo dal fatto storico, il fornire giudizi e valutazioni di carattere personale.

Pur presentando tra loro sostanziali differenze, la disciplina del diritto di cronaca e di critica si muove parallelamente, sotto la protezione o con i limiti derivanti dalle stesse norme e per tale ragione i due aspetti verranno trattati congiuntamente.

 

2.                      L’informazione a mezzo stampa e la sua evoluzione.   Il principale veicolo per la circolazione delle notizie di interesse pubblico è costituito dalla stampa, settore di cui la legge n. 47 del 1948 rappresenta tutt’oggi la primaria fonte normativa e secondo la quale sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione.

Stante l’evoluzione dei mezzi di diffusione delle informazioni, peraltro, non solo per ciò che concerne la televisione, ma soprattutto per il nuovo mondo della comunicazione digitale, si sono resi necessari interventi di ammodernamento della disciplina, prima fra tutti la legge n. 62 del 2001: ‘Nuove norme sull’editoria e i prodotti editoriali’, che definisce il concetto di prodotto editoriale, quale prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici.  

Conseguentemente, ai sensi della predetta legge ed in accordo con la giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte di cassazione[1], la tutela costituzionale offerta dall’articolo 21 Cost. deve considerarsi estesa anche a quei mezzi di informazione digitali (in primis i quotidiani online) caratterizzati da una testata, diffusi o aggiornati con regolarità, organizzati in una struttura con un direttore responsabile, una redazione ed un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione, finalizzati all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati; pertanto <<nel caso in cui sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie ivi contenute, il giornale pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto, in tutto o in parte, di provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione, ferma restando la tutela eventualmente concorrente prevista in tema di protezione dei dati personali>>.

La prospettazione giurisprudenziale muove dalla rilevabilità delle caratteristiche proprie della stampa cartacea, così come definite dalla legge n. 47 del 1948, anche nell’ambito della stampa online, laddove il requisito della riproduzione delle informazioni destinate alla divulgazione possa dirsi sussistente anche in presenza del semplice trasferimento dei dati ovvero della lettura degli stessi dalla pagina on line del quotidiano alla schermata web del lettore; il concetto di stampa diventa quindi di più ampio respiro, essendo centrale la connotazione finalistica del mezzo stampa, ovvero la destinazione al pubblico dell’informazione, per cui i requisiti strutturali possono adattarsi al mezzo stesso della comunicazione.

Inoltre, anche le Corti sovranazionali, in primis la Corte di Giustizia UE, hanno da tempo equiparato la stampa su carta e la stampa online, attese le medesime finalità divulgative.

Va pertanto tenuta ben distinta l'area dell'informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica online, dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo; le forme di comunicazione telematica richiamate sono certamente espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma non possono godere delle specifiche garanzie costituzionali previste per la stampa.

Solamente il giornale telematico, sia se riproduzione di quello cartaceo, sia se unica e autonoma fonte di informazione professionale, è sottoposto alla normativa sulla stampa, in quanto ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea, da ciò conseguendo che la « stampa telematica », al pari di quella tradizionale, in quanto emancipata da qualsiasi forma di censura, non può essere sottoposta a sequestro preventivo, se non nei casi eccezionali espressamente previsti dalla legge, e soggiace alle norme che disciplinano la responsabilità per gli illeciti commessi.

Le garanzie e le responsabilità previste, per la stampa, dalle disposizioni sia di rango costituzionale, sia di livello ordinario, devono essere ovviamente riferite ai soli contenuti redazionali e non anche ad eventuali commenti inseriti dagli utenti, che attivano un forum, vale a dire una discussione su uno o più articoli pubblicati.

Con riferimento, infatti, ai nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, news-group, mailing list, pagine Facebook), a prescindere dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi, viene rimarcata la loro diversa disciplina e tutela rispetto alla stampa, riconducendo i medesimi alla generale categoria degli altri mezzi di pubblicità, di talché si ritiene ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex articolo 321 cod. proc. pen., di un sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata.

 

3.                      La diffamazione a mezzo stampa.      Come previamente accennato, esiste una relazione di contiguità fra la libertà di informare - id est diritto di cronaca - ed il reato di diffamazione, laddove le libertà di manifestare il proprio pensiero e di divulgarlo non possono sfociare nella libertà di diffamare l’altrui personalità: detto reato è infatti aggravato dall’uso della stampa in ragione della pubblicità di tale strumento, che consente di comunicare l’offesa a più persone con conseguente maggiore lesione del bene giuridico tutelato dalla norma, l’onore della persona offesa, riconducibile ai diritti della personalità protetti dall’articolo 2 della Costituzione.

La recente giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità[2] ha esteso la tutela dell’onore a tutte le condotte offensive dell’altrui reputazione perpetrate mediante l’uso di mezzi di pubblicità, concetto comprendente tutti quei sistemi di comunicazione e diffusione, dai fax ai social media, che rendono possibile, grazie all’evoluzione tecnologica, la trasmissione di dati e di notizie a un numero elevato di persone, ritenendo in particolare che l’uso dei social networks, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integri un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'articolo 595, comma 3, cod. pen., trattandosi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione.

Analogamente la pubblicazione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca facebook (o altra piattaforma) con l'attribuzione di un fatto determinato configura il reato di cui all'articolo 595, commi 2 e 3, cod. pen., ed è inclusa nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità e non nella diversa ipotesi del mezzo della stampa, giustapposta dal legislatore nel medesimo comma; deve, infatti, tenersi distinta, come ricordato più sopra, l'area dell'informazione di tipo professionale, diffusa per il tramite di una testata giornalistica online, dall'ambito, più vasto ed eterogeneo, della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo, di talché, in caso di diffamazione mediante l'utilizzo di un social network, non è applicabile la disciplina prevista dalla l. n. 47 del 1948, ed in particolare la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'articolo 13 della legge da ultimo citata.

Sebbene la diffamazione a mezzo stampa rappresenti ipotesi di illecito penale, il soggetto leso, con sempre maggiore frequenza rispetto all’azione penale, agisce per il risarcimento dei danni in sede civile, principalmente per evitare lo strepitus fori inevitabilmente connesso alla celebrazione di un procedimento penale.

Presupposto affinché possa essere riconosciuta la pretesa risarcitoria è, in primo luogo, che la condotta diffamatoria comporti una effettiva lesione dell’onore e del prestigio goduto fra i consociati[3], non essendo sufficiente il solo pregiudizio dell’opinione che ciascuno ha di sé; la condotta asseritamente diffamatoria della persona non va valutata, quindi, quam suis, bensì come effettiva lesione dell'onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati.

Il danno all’onore e alla reputazione non diviene, poi, risarcibile in re ipsa[4], in quanto la lesione del bene giuridico individuale onore è protetta in sede penale: in sede civile acquisteranno rilievo le conseguenze di tale lesione, ovvero le conseguenze della notizia diffamatoria fra il pubblico e dei comportamenti di questo nei confronti del soggetto leso.

Il danno, in altre parole, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento anche se è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima.

Va da ultimo evidenziato che una recente decisione della Corte di legittimità[5], sulla base di orientamento consolidato dalla pronuncia di Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 3727, rimarca ulteriormente come <<la portata della violazione, sotto il profilo della limitatezza e della marginalità […] va apprezzata dal giudice di merito […] sul piano civilistico, di quello della irrisarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità, espressione del principio di solidarietà di cui all'articolo 2 Cost., di tolleranza della lesione minima, e la relativa valutazione è  incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata>>.

 

4.                      I limiti del diritto di cronaca.      La necessità di bilanciare l’interesse alla libertà di informazione e quello della protezione della sfera personale di ogni individuo ha portato la giurisprudenza, all’esito di un lungo processo interpretativo, a delineare caratteri e limiti del diritto di cronaca, che è necessario rispettare affinché il suo esercizio possa essere qualificato quale scriminate per l’eventuale antigiuridicità della condotta del giornalista.

La nozione di limiti del diritto di cronaca è stata elaborata dalla Suprema Corte di cassazione, come noto, in pronunciati oramai risalenti nel tempo, che hanno individuato i criteri in base ai quali l’esercizio del diritto di cronaca può prevalere sul diritto alla riservatezza e all’onore del soggetto protagonista della notizia; tali requisiti sono la continenza, la pertinenza e la veridicità dell’informazione.

-  La verità della notizia

Il limite della veridicità assume una duplice accezione relativamente alla pubblicazione della notizia: il giornalista deve infatti garantire non solo che il fatto sia vero, o quantomeno ragionevolmente vero rispetto alle fonti da cui proviene[6], ma anche che questo non sia stato esagerato nel resoconto delle circostanze effettuato da lui o da terzi.

Il giornalista è quindi sempre chiamato a verificare la fondatezza delle informazioni, sia quando sono state da lui stesso ricavate sia quando gli sono state riferite da un terzo: in questo secondo caso è necessario che il giornalista non si limiti a ricevere passivamente la notizia, ma si attivi nell’accertamento dell’attendibilità dei fatti lui pervenuti secondo i doveri di correttezza che la sua professione gli impone; è quindi legittimo l’esercizio del diritto di cronaca quando sia riportata la verità oggettiva (o anche solo putativa) purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca dei fatti esposti, che non può ritenersi rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche soltanto colposamente taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato[7], per cui <<ogni accostamento di notizie vere può considerarsi lecito se esso non produce un ulteriore significato che le trascenda e abbia autonoma attitudine lesiva>>.

Quanto al giornalismo di inchiesta, connotato dalla ricerca ed acquisizione autonoma, diretta ed attiva, della notizia da parte del professionista, la Corte  di Cassazione[8] ha formulato il principio di diritto secondo cui esso gode di ampia tutela ordinamentale <<tale da comportare, in relazione ai limiti regolatori dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa, e comunque diversa, applicazione della condizione di attendibilità della fonte della notizia; venendo meno, in tal caso, l'esigenza di valutare la veridicità della provenienza della notizia, che non è mediata dalla ricezione "passiva" di informazioni esterne, ma ricercata, appunto, direttamente dal giornalista, il quale, nell'attingerla, deve ispirarsi ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali, tra l'altro, menzionati nella l. 3 febbraio 1963 n. 69 e nella Carta dei doveri del giornalista>>; conseguentemente questa modalità di fare informazione non comporta violazione dell'onore e del prestigio di soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorrano l'oggettivo interesse a rendere consapevole l'opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti, l'uso di un linguaggio non offensivo e il rispetto della correttezza professionale.

Al proposito, in un caso recentemente delibato[9] è stato respinto il ricorso di chi lamentava il non corretto esercizio del diritto di cronaca da parte di una giornalista autrice di un articolo relativo al presunto coinvolgimento di un alto funzionario dello Stato in un’inchiesta per associazione mafiosa, avendo la giornalista, nel rispetto della verità oggettiva del fatto storico, della fedeltà della notizia al contenuto del provvedimento giudiziario, dell’attualità dell’articolo e della continenza espositiva, raccolto contestualmente e pubblicato le dichiarazioni dell’interessato sulla vicenda riferita, con equilibrio informativo e correttezza del servizio giornalistico.

Il requisito della verità priva quindi dell’efficacia scriminante tutte le narrazioni, che, pur veritiere, sovvertano il significato del fatto storico perché svincolate dalla vicenda considerata nella sua interezza; al proposito la più recente giurisprudenza ha ricondotto il carattere diffamatorio dell’informazione non già alla lettura di singole espressioni del testo, bensì all’analisi dell’articolo nella sua interezza[10], con particolare attenzione al titolo ed al sottotitolo dell’articolo, essendo questi in grado di attirare l’attenzione del lettore o di fuorviarlo circa in contenuto dello stesso.

In tema di esercizio dell'attività giornalistica, infatti, il carattere diffamatorio di un articolo non va valutato sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni, ma con riferimento all'intero contesto della comunicazione, comprensiva di titoli e sottotitoli e di tutti gli altri elementi che rendono esplicito, nell'immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo, come tali in grado di fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi, dovendosi dunque riconoscere particolare rilievo alla titolazione, in quanto specificamente idonea, in ragione della sua icastica perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore, ingenerando giudizi lesivi dell'altrui reputazione.

Il requisito della verità va poi valutato rispetto alle circostanze che rappresentano l’effettivo nucleo del fatto riportato, non essendo necessario estendere il campo di indagine agli elementi secondari o meramente accidentali del fatto storico, ove questi non alterino la portata della notizia[11], atteso che la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali che non modifichino, nel contesto dell'articolo o di altro mezzo di diffusione, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili: la capacità diffamatoria va quindi valutata per il c.d. fatto principale quando questo, indipendentemente da vicende aggiuntive, risulta lesivo degli altrui diritti tutelati dall’ordinamento.

Il criterio della veridicità della notizia divulgata vuole, quale suo necessario corollario, quello della temporaneità: la verità dell’informazione viene infatti valutata avuto riguardo e con riferimento al momento in cui le notizie sono state divulgate, non potendo assumere alcun rilievo le eventuali evoluzioni successive delle circostanze oggetto di narrazione[12]; tale corollario è di particolare importanza soprattutto in tema di cronaca giudiziaria, settore nel quale l’effettiva falsità della notizia - o il suo scostamento dal vero - devono essere accertati rispetto al momento di diffusione della stessa e non per le susseguenti fasi d’indagine o del processo, che ben potrebbero condurre, come sovente accade, a risultati differenti da quelli presentatisi in prima battuta[13].  

Con recente ed interessante pronuncia la Corte di legittimità[14] ha peraltro ritenuto integri <<diffamazione a mezzo stampa, per l'insussistenza dell'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, l'attribuzione ad un soggetto nell'ambito di un articolo giornalistico della falsa posizione di imputato, anziché di indagato, in quanto il giornalista riferisca di un'avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell'avviso di conclusioni delle indagini preliminari di cui all'art. 415 -bis cod. proc. pen., non potendo detti atti reputarsi equivalenti, dal momento che quest'ultimo, a differenza del primo, non comporta esercizio dell'azione penale ed ha lo scopo di consentire all'indagato l'esercizio del diritto di difesa con la possibilità di un approfondimento delle stesse indagini>>.

Rispetto alla verità dell’informazione esposta, assume poi rilievo anche l’individuabilità del soggetto, in applicazione del principio per cui soltanto un soggetto individuato può dirsi leso dall’esercizio della cronaca giornalistica; peraltro, anche qualora il soggetto non risulti effettivamente nominato, non si può affermare che lo stesso non sia identificabile mediante riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto oppure deducibili, in termini di affidabile certezza, dal contesto in cui la notizia è inserita[15], mentre altrettanto non può dirsi nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili.

L’individuazione del soggetto coinvolto nella notizia non necessita quindi di una puntuale indicazione nominale, essendo sufficiente che gli elementi relativi alle circostanze raccontate permettano alla comunità di riferimento di poterlo facilmente individuare sulla base di pregresse informazioni condivise[16].

In un recente caso, in particolare[17], è stato disatteso il ricorso di chi lamentava la pubblicazione, in un articolo relativo a inchieste per pedofilia, del proprio nome, omonimo di uno dei soggetti effettivamente condannati per reati sessuali contro minori atteso che, se è vero che per individuare un soggetto determinato non è necessaria una puntuale indicazione nominativa, è altrettanto vero che il soggetto può essere individuato anche mediante l’analisi delle circostanze e degli eventi che possono essere idonei ad attribuire una certa condotta a un determinato individuo; la diffamazione, peraltro, non può mai derivare dalle congetture o dalle percezioni di chi si ritiene essere il destinatario e dove non è possibile individuare con ragionevole certezza il soggetto leso, bisogna concludere per l’insussistenza della diffamazione per il solo fatto che il nome di un omonimo fosse stato pubblicato su un giornale, soprattutto qualora si tratti di fatti verificatisi in contesti territoriali diversi da quelli ove viveva il ricorrente.

Nella decisione di che trattasi la Corte di legittimità chiarisce, in particolare, che <<l'offesa della reputazione, necessaria ad integrare l'illecito, presuppone l'attitudine della comunicazione a rendere individuabile il diffamato sulla base di elementi che, sebbene non univoci, siano oggettivamente tali da far convergere il fatto offensivo su un determinato soggetto (v. Cass. 10/10/2014, n. 21424, secondo cui l'indicazione del solo cognome, se talvolta permette di identificare una determinata persona (come nel caso di un politico che rivesta un importante incarico pubblico, di un campione sportivo o di una "star" del cinema), non è, di norma, sufficiente ove non sia munita di immediata attitudine individualizzante).   E' stato al riguardo infatti condivisibilmente osservato che l'offesa dell'altrui reputazione necessaria ad integrare l'illecito diffamatorio presuppone necessariamente l'attitudine della comunicazione a rendere individuabile il soggetto diffamato, sulla base di elementi che, ancorchè non univoci, siano oggettivamente tali da far convergere l'offesa o il fatto offensivo su un determinato soggetto>>.

La verità dell’informazione rappresenta infine, per ormai consolidata giurisprudenza, la base per il legittimo esercizio del diritto di critica da parte del giornalista, che rappresenta un momento successivo, seppur mai completamente separato, dal diritto di cronaca, in quanto il primo si concretizza nell’interpretazione che il giornalista fa di un fatto storico che, per poter essere lecitamente divulgato, deve corrispondere a quella verità richiesta affinché si possa qualificare tutta l’attività come esercizio di un diritto.

Al proposito va precisato che la critica, in quanto elaborazione di personali convincimenti riguardante determinati eventi, non può ritenersi soggetta, con pari intensità, al rispetto del limite della verità.

Tale assunto non deve comunque portare ad affermare che la critica possa essere fantasiosa o svincolata cioè da qualsivoglia profilo di verità, ponendosi come strumentale pretesto per diffamare l'altrui reputazione, ma nel solo significato che questa, in quanto lettura personale di un determinato fatto, rappresenta un’attività di interpretazione (positiva o negativa che sia) dell'esistenza e della natura di quello stesso fatto; ciò impone di considerare e valutare la critiche sempre come qualcosa di ‘finito’, poiché frutto di una scelta dell’individuo fra le varie possibilità interpretative generate dal medesimo fatto storico: dove la circostanza obiettiva è una sola, le interpretazioni possono essere molteplici, ed è per questo che non può dirsi ricorrente, con la stessa intensità, il requisito della veridicità dell’informazione ‘filtrata’ dalla critica.

In tema di diritto di critica, infatti, si è da ultimo ritenuto[18] che i presupposti per il legittimo esercizio della scriminante di cui all'art. 51 c.p., con riferimento all'art. 21 Cost., sono: a) l'esistenza concreta di un pubblico interesse al racconto ed alla divulgazione, ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la comunicazione; b) la correttezza formale e sostanziale dell'esposizione dei fatti, che propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel senso che l'informazione non deve assumere contenuto lesivo dell'immagine e del decoro; c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti; e che sussiste diffamazione quando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui si trasforma in una mera occasione per aggredirne la reputazione altrui con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente "di parte", cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale (c.d. attacco ad hominem) o nella pura contumelia, da escludersi comunque quando le espressioni usate nell’articolo siano contenute nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto, si presentino funzionali all’economia dell’articolo e comunque strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione pesa di mira.

Va comunque ribadito[19] che, in tema di risarcimento del danno a causa di diffamazione a mezzo stampa, <<la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, la considerazione di circostanze oggetto di altri provvedimenti giudiziali (anche non costituenti cosa giudicata), l’apprezzamento, in concreto, delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, l’esclusione dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da adeguata motivazione, esente da vizi logici e da errori di diritto>> e che il giudice di legittimità è unicamente tenuto a verificare <<se il Giudice di appello si sia attenuto, nell’accertamento della fattispecie illecita ex art. 2043 ed ex art. 594 e 595 c.p., ai criteri individuatori della responsabilità civile, come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità nella specifica materia, diretti ad attribuire rilevanza a determinati elementi sintomatici della condotta ed idonei a definire il discrimine tra i valori, entrambi aventi fondamento costituzionale, della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e del rispetto della dignità e della personalità del singolo (art. 2 Cost.)>>.

Un particolare aspetto del diritto di critica è rappresentato dalla satira, definita dalla giurisprudenza come <<modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all'obbligo di riferire esclusivamente fatti veri, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito>>[20]; conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato.  

Diversamente dalla cronaca, si ritiene che la satira sia sottratta al parametro della verità, da ciò conseguendo che quello che rileva al fine di valutarne la liceità è che la satira non si traduca in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato, in quanto la satira viene quasi ad assurgere ad una vera e propria modalità di cronaca, attuata attraverso il paradosso e l'ironia.

 

-  La continenza nell’esposizione

La continenza investe il modo in cui la notizia viene divulgata, potendosi affermare che, laddove alla verità del fatto sia riconosciuto un carattere prettamente sostanziale, essa rappresenti un criterio più formale per l’esercizio del diritto di cronaca. 

Anche una notizia vera, se riportata in termini denigratori o dispregiativi per la persona coinvolta nelle circostanze, può assumere un carattere diffamatorio; il limite della continenza espressiva si identifica con la correttezza formale dell'esposizione e la non eccedenza da quanto strettamente necessario per il pubblico interesse, sì da garantire che cronaca e critica non si manifestino tramite strumenti e modalità lesivi dei diritti fondamentali all'onore ed alla reputazione; essa coincide, quindi, con quella correttezza formale di linguaggio che consente di evitare che la divulgazione di un fatto storico si tramuti in uno strumento di lesione degli altrui diritti[21].  

Sotto il profilo della continenza, il giudizio di liceità della cronaca effettuato dal giudice non può limitarsi a una valutazione degli elementi formali ed estrinseci, ma deve estendersi anche ad un esame dell'uso di espedienti stilistici che possono trasmettere ai lettori, anche al di là di una formale ed apparente correttezza espositiva, giudizi negativi sulla persona che si mira a mettere in cattiva luce; le espressioni usate dal giornalista non devono quindi essere dirette all’offesa altrui, mediante l’uso di un linguaggio aggressivo o insultante, e neppure volte al giudizio dell’individuo oggetto di notizia, in quanto il lecito esercizio del diritto di cronaca verte sempre sulla divulgazione di un fatto storico e non sulla morale degli individui[22].    

Il limite della continenza espressiva deve poi essere riferito all’intero contesto in cui la notizia viene divulgata: titolo, sottotitolo, testo, fotografie, tutti gli elementi componenti un articolo (ma come pure un servizio per un telegiornale) devono essere caratterizzati da una modalità di presentazione delle informazioni idonee a impedire che le circostanze vengano percepite come negative o diffamatorie dal destinatario; ad esempio, con riguardo ad una trasmissione televisiva, assumono rilievo le modalità di comunicazione utilizzate ove sia stata realizzata, ad esempio, una peculiare combinazione di immagini e sonoro tra loro, tale da risultare trasmodante il suddetto limite[23].    

Anche rispetto all’esercizio del diritto di critica la continenza assume una importanza rilevante: in tutti casi in cui il giornalista riporti il fatto e contestualmente esprima la propria valutazione delle circostanze, deve aver cura, specialmente nel riportare il proprio commento, di non esprimersi attraverso un linguaggio non consono e connotato da termini ingiuriosi o oltraggiosi o che consentano di qualificare la sua valutazione come meramente dispregiativa dell’altrui condotta.

Il legittimo esercizio del diritto di critica, anche in ambito politico, ove è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati, è pur sempre condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. Ove tuttavia la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme ad opinioni dell'autore, in modo da costituire al contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza richiede un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto[24].

E’ stato tuttavia rilevato dalla giurisprudenza della Suprema Corte[25] che l’utilizzo di espressioni aspre può comunque essere considerato continente, ai fini della ricorrenza dell’esimente di cui all’articolo 51, cod. pen., in quanto non necessariamente una critica anche estremamente dura può essere qualificata come diffamatoria laddove non emerga una vera e propria aggressione verbale nei confronti dell’interessato: l’elemento discriminante deve essere individuato nell’aderenza della critica, ancorché polemica, a un fatto reale, dovendosi considerare la stessa una sollecitazione, da parte dello scrivente, al ripristino di un comportamento considerato corretto.

Rientra comunque, come ricordato, nella valutazione di merito sottratta all’apprezzamento del giudice di legittimità l'opera interpretativa del giudice di merito chiamato a distinguere tra effettiva prova di critica giornalistica e comportamento che, invece, mancando di qualsiasi connotato di logica e giustificatezza della analisi, finisca con l'integrare una diffamazione non scriminabile perché consistente in un uso apparente della dialettica, volto a coprire la sola ed effettiva volontà di fare non informazione ma disinformazione, creando suggestioni, proponendo accostamenti indebiti di fatti diversi ma somiglianti rispetto a quelli accaduti e, in una espressione, una immagine consapevolmente ma ingiustificatamente e gratuitamente distorta del soggetto bersaglio[26].

-  Il pubblico interesse alla divulgazione della notizia

Il terzo requisito previsto per il legittimo esercizio del diritto di cronaca è rappresentato dal pubblico interesse alla divulgazione dell’informazione: tale concetto deriva dalla necessità che una notizia, sia pure vera e comunicata con adeguato linguaggio, risponda all’interesse che la collettività può manifestare rispetto alla conoscenza dell’informazione stessa.

La pertinenza della notizia si valuta quindi sull’aderenza della sua divulgazione alle necessità informative dei destinatari, avendo riguardo anche alla notorietà o meno dei soggetti coinvolti, nonché alla rilevanza del fatto.

Quanto al primo aspetto va rimarcato come una notizia riguardante tali soggetti possa assumere rilevanza pubblica proprio in ragione della notorietà di questi all’interno della comunità di riferimento; a tale proposito la giurisprudenza ha sottolineato come, per comunità di riferimento, non debba intendersi necessariamente una comunità nazionale o internazionale, assumendo rilievo anche la notorietà locale del soggetto laddove il fatto storico assuma una specifica valenza per i suoi consociati o sia caratterizzato in modo tale da conferire alla sua divulgazione un apprezzabile interesse sociale[27].

Il rilevante interesse pubblico per la notizia deve considerare, poi, la natura delle circostanze da divulgare: fatti che generano un particolare allarme sociale (ad esempio ipotesi di reato) sono quasi sempre considerati di pubblico interesse, proprio per la carica negativa che essi esprimono.  

La Corte di Giustizia europea, con una recente sentenza[28] si è pronunciata a favore della rilevanza per la collettività di una notizia avente ad oggetto fatti di reato, privilegiando il diritto-dovere di informare i propri consociati a scapito del diritto alla riservatezza degli individui coinvolti, anche se poi scagionati dalle accuse, addirittura – nel caso esaminato in sentenza –considerandosi lecita la diffusione delle trascrizioni delle intercettazioni, una volta venuto meno il segreto istruttorio.

Anche il criterio della pertinenza è comunque caratterizzato da una propria temporaneità: laddove una ritardata diffusione delle informazioni rischierebbe di privare la notizia della sua rilevanza sociale[29], una divulgazione di notizie passate, o superate da nuovi eventi, non può certamente essere qualificata come pertinente[30], atteso che l’interesse pubblico alla conoscenza di un dato fatto è legato all’attualità dello stesso; conseguentemente <<la persistente pubblicazione e diffusione, su un giornale on line, di una risalente notizia di cronaca […] esorbita, per la sua oggettiva e prevalente componente divulgativa, dal mero ambito del lecito trattamento di archiviazione o memorizzazione on line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali, configurandosi come violazione del diritto alla riservatezza quando, in considerazione del tempo trascorso, sia da considerarsi venuto meno l'interesse pubblico alla notizia stessa>>; di tale aspetto si parlerà più diffusamente nel successivo paragrafo 7., in tema di diritto alloblio.

 

5.                      Il diritto alla riservatezza.    Un altro bene giuridico tutelato dall’ordinamento che spesso si pone in contrasto con l’esercizio del diritto di cronaca è rappresentato dalla riservatezza dei dati personali.

Gli interventi legislativi in tema di tutela della privacy hanno notevolmente inciso sui contorni del diritto di cronaca, essendo finalizzati ad armonizzare contrapposti interessi in gioco: da un lato, quello del giornalista al libero esercizio del diritto di cronaca, dall’altro, quello del singolo a non veder lesa la propria sfera personale di riservatezza.

La tutela diritto alla riservatezza dei singoli, quale diritto dell’individuo oggetto della notizia divulgata affinché non vengano rivelati dati in misura maggiore di quanto necessario per assicurare la correttezza dell’informazione per il lettore destinatario, è stata recentemente rafforzata dal Reg. CE 2016/679, il Regolamento generale della protezione dei dati personali, che ha iniziato ad avere efficacia, dopo un periodo di transizione di due anni, il 25 maggio 2018 e che va a sostituire la normativa interna, in particolare il codice per la protezione dei dati personali.

L’obiettivo del Regolamento è quello di armonizzare la legislazione dei diversi Stati membri dell’Unione in tema di protezione dei dati sensibili degli individui, comprendenti non solo il dato personale ma anche dati genetici, biometrici e sulla salute, ovvero tutte quelle informazioni identificative dell’individuo, che permettono di ‘isolarlo’ nella comunità analizzandone il profilo.   

Nel Regolamento è contenuto lo specifico regime di responsabilità in tema di trattamento dei dati personali che, pur rimanendo ancorato alla responsabilità per esercizio di attività pericolose, si muove nell’ottica di instaurare un vero e proprio sistema di accountability, articolato sul doppio binario di controllo degli accessi alle informazioni e di responsabilità nell’uso delle stesse, che impone all’esercente del servizio di gestione dei dati di fornire all’utente informative precise, assicurando parimenti un livello di sicurezza, soprattutto informatica, particolarmente elevato.

Conseguenza di tale impostazione è la previsione che l’individuo debba prestare un valido consenso per l’immissione del dato nel circuito informativo attraverso una esplicita e chiara richiesta in tal senso, nonché assicurando la liceità della gestione e delle finalità della stessa; l’esercente (impresa o amministrazione pubblica titolare della gestione o della raccolta dei dati) si fa poi carico di garantirne la sicurezza, adottando misure tecniche e organizzative idonee a consentire un livello di protezione adeguato al rischio.

Una importante novità è rappresentata dall’introduzione del diritto alla cancellazione dei dati - il cosiddetto diritto all’oblio - cui sarà dedicato un paragrafo ad hoc.  

Il concetto di responsabilità per la gestione dei dati personali, come elaborato a livello comunitario, si coordina perfettamente con l’impostazione da tempo seguita dalla giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione che, in tema di trattamento dei dati personali, ha costantemente richiamato l’articolo 2050 cod. civ.[31]: la ratio della vigenza della norma civilistica è ricondotta alla natura del bene giuridico tutelato dalla normativa sulla privacy (diritti della personalità, diritto alla riservatezza, alla salute) che costituirebbe il fondamento anche per la particolare tutela offerta ai c.d. dati sensibili.

I principi enunciati dal giudice di legittimità affermano in particolare che i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali sono assoggettati alla disciplina di cui all'articolo 2050 cod. civ., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; e che il danno non patrimoniale risarcibile per violazione delle disposizioni sul legittimo trattamento dei dati tutelato dagli articoli 2 e 21 Cost., e dall'articolo 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex aricolo 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dal codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva[32].

Al proposito va richiamato il recente arresto delle Sezioni Unite civili[33] in tema di trattamento di dati personali sensibili: la Corte, delibando un caso di illegittimo trattamento di dati personali idonei a rivelare il proprio stato di salute, ha affermato che <<il trattamento dei dati sensibili, effettuato sia da soggetti pubblici che da persone giuridiche private, che agiscono, rispettivamente, per la realizzazione di una finalità di pubblico interesse o in adempimento di un obbligo contrattuale, deve avvenire mediante tecniche di cifratura che non rendano identificabile il soggetto interessato>>.

Tuttavia, anche in esecuzione del nuovo Regolamento comunitario, è pacifico che non tutti i soggetti possano beneficiare dello stesso status di protezione della privacy, in ragione della posizione che essi ricoprono nella vita sociale e politica della comunità: la giurisprudenza ha da tempo elaborato al proposito i concetti di personaggio noto e di personaggio pubblico.

Va in proposito segnalata una recente pronuncia della Corte di legittimità[34] che, applicando tale distinzione, ha ritenuto che il diritto all'oblio prevale sulla satira quando il personaggio noto non è figura pubblica, precisando come <<L'oblio prevale sulla satira ingiustificata per il personaggio noto che non riveste un ruolo primario della vita pubblica nazionale (figura pubblica) e la cui vicenda non abbia lo spessore di un contributo al dibattito pubblico come le vicende su fatti criminali, di preminente interesse politico o economico o ancora su fatti di ordine pubblico o sulla sicurezza delle persone>>.

Il personaggio pubblico (come, ad esempio, l’uomo politico), in quanto impegnato su una scena di collettivo interesse, per il principio secondo cui chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlato alla sua dimensione pubblica, gode pertanto di una protezione della propria sfera privata notevolmente inferiore a quella accordata al personaggio noto (un attore, uno sportivo…), nei cui confronti il giornalista deve limitarsi a riportare le notizie riguardanti l’ambito per cui il personaggio è, appunto, conosciuto.

 

6.                      Diritto di cronaca e atti coperti dal segreto istruttorio.   Una questione controversa è rappresentata dal rapporto fra esercizio del diritto di cronaca (nella fattispecie cronaca giudiziaria) e riservatezza degli atti coperti dal segreto istruttorio; in particolare ci si è a lungo domandati se l’efficacia scriminante prevista dall’articolo 51 cod. pen. potesse dirsi ricorrente anche quando oggetto della divulgazione siano atti ancora secretati ai fini d’indagine.

Al proposito si è ritenuto che la disciplina dei limiti imposti al corretto e legittimo esercizio del diritto di cronaca si pone come l’unica compressione legittima al diritto - dovere di informare: laddove tali elementi si accertino rispettati, anche in caso di divulgazione di atti coperti dal segreto istruttorio non potrà dirsi superata la garanzia prevista dall’articolo 51 cod. pen., cosicché il diritto di cronaca sarà stato lecitamente esercitato[35].

Al richiamato indirizzo del giudice di legittimità si affianca quello consolidato della Corte di Strasburgo, da sempre volta a garantire il libero esplicarsi del diritto-dovere di informare, assicurandone il primato anche nei confronti del diritto alla riservatezza degli individui.   

La Corte non legittima alcun divieto assoluto degli atti coperti da segreto istruttorio, rinvenendo quale unico limite alla pubblicazione[36] la mancanza di interesse pubblico alla divulgazione della notizia: se il fatto storico è rilevante per i consociati, a nulla rileverà la circostanza che, al momento della sua diffusione, questo fosse ancora secretato, in quanto viene privilegiato l’interesse collettivo alla conoscenza di quel fatto piuttosto che la protezione degli atti di indagine e della riservatezza degli individui.

La CEDU considera comunque compatibile con le regole fissate dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, interventi delle singole autorità nazionali che sanzionino la violazione del segreto istruttorio in mancanza di interesse della collettività per la notizia ovvero in caso di una compromissione particolarmente gravosa della privacy della vittima del reato, specialmente se minorenne.

Da ciò consegue che la Corte comunitaria, pur non legittimando un divieto assoluto di pubblicazione di atti coperti da segreto istruttorio, impone all’esercizio del diritto di cronaca il limite rappresentato dalla rispondenza delle informazioni divulgate all’interesse pubblico per la vicenda; solo in questo caso sarà lecito l’intervento sanzionatorio e restrittivo dell’Autorità giudiziaria, dovendosi rintracciare l’illecito non già nella divulgazione di un atto secretato, bensì nella diffusione di un atto privo di quella necessaria rispondenza fra l’interesse alla conoscenza del pubblico e l’informazione stessa.

Anche una recente pronuncia[37] ha poi confermato l’indirizzo della Corte di legittimità, secondo il quale la mera violazione dell’articolo 684 cod. pen., non sarebbe ex se sufficiente a fondare la pretesa risarcitoria, in quanto la verifica della lesione della reputazione personale e l’affermazione della responsabilità civile per danno <<deve necessariamente transitare per un ulteriore e distinto accertamento giudiziale, inteso a valutare la effettiva idoneità offensiva della pubblicazione - totale o parziale - del “testo” dell’atto di indagine riprodotto nell’articolo di stampa>>.

 

7.                      L’attualità della notizia e il diritto all’oblio.    Come più sopra accennato, il nuovo Regolamento comunitario 2016/679 in tema di protezione dei dati personali, riconosce espressamente, all’articolo 17, il cosiddetto diritto all’oblio.

Il diritto all’oblio può essere definito come il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all'onore e alla reputazione di un soggetto.

Tale diritto nasce dal rapporto fra la rilevanza pubblica della notizia e la sua attualità e dall’idea che una notizia assume specifico interesse per la collettività quando è, per così dire, ‘in corso’; nel momento, invece, in cui l’attualità della notizia viene meno, dovrebbe essere assicurato ai soggetti interessati che la stessa non possa essere continuamente ed indefinitamente riproposta, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione, il ché presuppone che di una notizia passata vi sia stata una evoluzione o che siano intervenuti eventi idonei a rinnovare l’interesse del pubblico alla sua diffusione: la notizia passata deve quindi manifestare un legame con il presente[38], in assenza del quale la cronaca non può qualificarsi come lecita.  

Il riconoscimento del diritto all’oblio, in accordo con la giurisprudenza della Corte di cassazione[39], viene specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato diverso tempo addietro e della sua diffusione sul web, con conseguente pregiudizio per i soggetti coinvolti.

La notizia così continuamente riproposta esprime infatti solamente una finalità meramente divulgativa, e non già informativa, e si pone di per sé in contrasto con il legittimo esercizio del diritto di cronaca; il diritto all’oblio rappresenta quindi l’interfaccia del diritto di informare e di essere informati in quanto, una volta che la società è stata informata con completezza di un determinato accadimento, cessa l’interesse pubblico alla circolazione della notizia avendo la collettività ormai acquisito il fatto, di talché non vi è quindi più una notizia da divulgare né un diritto da esercitare.

In tali casi, qualora non ricorrano le caratteristiche di attualità e interesse pubblico della notizia, il gestore di ricerca è obbligato alla cancellazione dei dati o dell’articolo ovvero alla deindicizzazione dello scritto; in caso contrario, l’interessato è legittimato a ricorrere alle autorità competenti[40].

Il recente arresto del giudice di legittimità individua i criteri dirimenti per risolvere il conflitto tra diritto di cronaca e diritto all’oblio insegnando come, alla luce del quadro normativo desumibile dalle disposizioni nazionali ed europee (con particolare riferimento agli articoli 8 e 10, secondo comma, CEDU, e 7 ed 8 della Carta di Nizza), il diritto fondamentale all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l'immagine; 3) l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera (poiché attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico.

In assenza di tali presupposti, la pubblicazione di una informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti ed avvenimenti che la riguardano, non può che integrare la violazione del fondamentale diritto all'oblio, come configurato dalle disposizioni normative e dai principi giurisprudenziali suesposti; conferma tale indirizzo una recente decisione della Corte di cassazione[41], che ha accolto il ricorso proposto avverso la decisione di denegata rimozione, dal sito web di un quotidiano a tiratura nazionale, delle notizie relative alla vicenda giudiziaria in cui era rimasto coinvolto un professionista, rimarcando come il riconoscimento del diritto all’oblio viene specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato diverso tempo addietro e della sua diffusione sul web, con conseguente pregiudizio per i soggetti coinvolti, in assenza di sopravvenuti aggiornamenti atti a denotarne il permanere di interesse sociale, anche limitato ad una collettività locale, integrando infatti i presupposti dell'illecito trattamento di dati personali la conservazione di un articolo di cronaca nell'archivio online di una testata giornalistica che si protragga per un rilevante lasso di tempo dalla originaria pubblicazione, specie allorquando sia trascorso un significativo arco temporale dalla richiesta, inviata dall'interessato al giornale, di rimozione dell'articolo ed in mancanza di aggiornamenti della vicenda pubblicata.

In parte motiva la richiamata pronuncia evidenzia specificamente che <<non può dubitarsi che il mantenimento della fruibilità della notizia sul sito internet del quotidiano a distanza di anni dai fatti e senza alcuna indicazione dei successivi positivi sviluppi della vicenda processuale a carico della parte costituisca ulteriore specifico fondamento della pretesa risarcitoria azionata, diverso e non riconducibile all'altro (più diffusamente trattato e sul quale solo si sofferma la Corte di merito), rappresentato dal dedotto carattere illecito della iniziale diffusione della notizia nel medesimo quotidiano>>.

Il trattamento dei dati non può infatti avvenire per un periodo superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti ed in proposito occorre notare che la rete internet costituisce una realtà ove le informazioni non sono archiviate (e cioè organizzate e strutturate), ma soltanto memorizzate senza limiti e senza tempo, poste tutte al medesimo livello senza una valutazione del relativo peso, prive di contestualizzazione e di collegamento con altre informazioni pubblicate: di qui, appunto, il diritto del soggetto cui le informazioni si riferiscono - che può anche essere una persona giuridica o un ente collettivo - ad ottenere la cancellazione delle stesse ove, pur se lecitamente diffuse, risultino inutilmente lesive in ragione della loro perdita di attualità (nel caso deciso era decorso il termine di sette anni dai fatti accaduti rispetto alla citazione in appello). 

Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, prima dell’adozione del Regolamento predetto, aveva riconosciuto tutela al diritto dell’interessato ad ottenere che una notizia che lo riguardasse, a determinate condizioni, fosse rimossa dalla rete[42]; in particolare la CGUE ha riconosciuto la prevalenza del diritto ad essere dimenticati rispetto all’interesse economico del gestore del motore di ricerca, nonché rispetto all’interesse pubblico ad accedere alle informazioni mediante ricerca del nome della persona interessata, imponendo al gestore del motore di ricerca on-line (nel caso in esame Google Spagna) la de-indicizzazione delle informazioni qualora ne venga fatta richiesta da parte degli utenti.

In particolare la Corte di Giustizia, trattando un caso in cui i dati personali di un soggetto continuavano a essere reperiti attraverso il motore di ricerca pur a distanza di molto tempo dai fatti, ha affermato che l’attività di un motore di ricerca, consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, nell'indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come trattamento di dati personali, e che il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il responsabile del trattamento; ed inoltre che il gestore motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall'elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, i link che indirizzano a pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, qualora ne ricorrano le condizioni, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sè lecita.

Il nuovo articolo 17 del Regolamento 2016/679 ha però una portata parzialmente diversa in quanto, più che un diritto all’oblio, prevede un diritto alla cancellazione dei dati della persona fisica regolato con riferimento alla società digitale; la cancellazione può essere richiesta quando il dato non risponde più alle finalità per cui è stato raccolto o quando viene revocato il consenso dell’interessato alla divulgazione delle informazioni relative alla sua persona, ovvero quando il trattamento sia illecito o avvenga per illecite finalità.

Ma la vera portata innovativa dell’articolo 17 deve essere individuata nel dovere specifico ed espressamente previsto a carico del gestore, di procedere alla cancellazione del dato nel caso in cui, ricevuta una richiesta in tal senso da parte dell’interessato, i dati che ne sono oggetto siano stati resi pubblici dal gestore medesimo: tale obbligo comporta che il gestore dei dati non solo deve riscontrare le legittime richieste, avanzate dagli interessati, di veder cancellati qualsiasi link, copia o riproduzione dei propri dati personali, ma che debba altresì attivarsi al fine di garantire l’adozione di misure ragionevoli, anche tecniche per informare della richiesta che gli è pervenuta gli altri eventuali gestori che stanno utilizzando i dati resi pubblici dal primo.  

Il gestore iniziale (o titolare) diviene quindi un intermediario tra l’interessato e gli altri utilizzatori dei dati divulgati, a condizione che la richiesta dell’interessato abbia una portata tale da rendere necessario il suo intervento presso gestori terzi nei cui confronti egli è tenuto alla sola comunicazione della richiesta; tale nuova impostazione rappresenta un notevole ampliamento della tutela della privacy dei cittadini comunitari, essendo oggi sufficiente una sola richiesta per attivare una procedura nei confronti di più enti gestori; sarà però necessario attendere l’effettiva applicazione dalla norma, efficace a decorrere dal 25 maggio 2018, affinché si possa effettivamente percepire la sua portata e il raccordo con le precedenti impostazioni giurisprudenziali della Suprema Corte di cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

8.      La prescrizione dell’illecito esercizio del diritto di cronaca.    In tema di prescrizione relativa all’esercizio dell’azione risarcitoria per i danni derivanti dall’illecito esercizio del diritto di cronaca, vanno ricordati due arresti giurisprudenziali[43] che hanno consacrato il seguente principio di diritto: <<l’articolo 2947, comma 3, seconda parte, c.c. - il quale, in ipotesi di fatto dannoso considerato dalla legge come reato, stabilisce che, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione, od è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (cinque anni e due anni) con decorso dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile - si riferisce, alla stregua della sua formulazione letterale e collocazione nel complessivo contesto di detto terzo comma, nonché della finalità di tutelare l'affidamento del danneggiato circa la conservazione dell'azione civile negli stessi termini utili per l'esercizio della pretesa punitiva dello Stato, alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento. Pertanto, qualora la prescrizione del reato sia uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, resta inoperante la norma indicata, ed il diritto medesimo è soggetto alla prescrizione fissata dai primi due commi dell'art. 2947 c.c., con decorrenza dal giorno del fatto. Deriva da quanto precede, altresì, che ai fini della applicazione della eccezione al riguardo posta dall'art. 2947, comma 3, c.c. è necessaria la ricorrenza di entrambi i requisiti ivi posti e, cioè, che si tratti di reato e che prescrizione del reato sia più lunga di quella prevista per l'azione civile. Laddove, invece, la prescrizione prevista per il reato sia uguale (o anche inferiore) a quella prevista per il diritto al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 2947, comma 1, c.c., si applica la prescrizione di 5 anni dal fatto e non già dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile>>; naturalmente, in base al combinato disposto di cui agli articoli 2935 e 2947 cod. civ., e secondo gli oramai consolidati indirizzi del giudice di legittimità, la prescrizione decorre dalla data in cui s'è verificato il danno, cioè la conseguenza pregiudizievole derivata dalla lesione della posizione giuridica soggettiva tutelata, purché il danneggiato ne sia consapevole e non sussistano impedimenti giuridici a fa valere il diritto al risarcimento.

Da segnalare, in tema di prescrizione, una recente decisione della Corte di cassazione[44], che ha ritenuto costituire errore di diritto invocare l’applicabilità dell’articolo 2945, terzo comma, cod. civ., e non dell’articolo 2947, terzo comma, cod. civ., qualora sia stato dichiarato estinto il giudizio di riassunzione avanti al giudice civile, ai sensi dell’articolo 622, cod. proc. pen., per tardività della riassunzione, nelle ipotesi in cui ci si trovi di fronte ad un fatto-reato con termine di prescrizione superiore a quello ordinario previsto per l’illecito aquiliano: in tal caso, infatti, l’estinzione del processo civile fa infatti unicamente venir meno la permanenza dell’effetto interruttivo della prescrizione, prevista dal ricordato terzo comma dell’articolo 2945, cod. civ., ma non influisce sul relativo dies a quo nell’ipotesi di applicabilità alla fattispecie della speciale disposizione di cui all’articolo 2947, terzo comma, cod. civ., che va individuato sempre con riferimento alla data di estinzione del reato ovvero a quella in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.

 

9.     Conclusioni.    I diritti relativi all’informazione ed alla tutela dell’onore e della riservatezza, ancorché saldamente ancorati a principi di tutela e di bilanciamento degli interessi derivanti non solo dalla Costituzione, ma anche dalle Convenzioni sovranazionali, rappresentano tutt’oggi un terreno particolarmente fertile per nuovi interventi normativi e giurisprudenziali, in ragione del loro continuo evolversi di pari passo con le innovative tecnologie e i diversi interessi facenti capo alla società civile.  

È la nuova quotidianità degli individui che ha imposto, ad esempio, l’intervento delle istituzioni europee in tema di protezione dei dati personali attraverso l’emanazione del Regolamento CE 2016/679; il diritto di informare ed il corrispondente diritto alla privacy, peraltro, ben lontani da potersi definire compiutamente codificati, necessiteranno sempre di continui adeguamenti, operati soprattutto dalla giurisprudenza, affinché il dettato normativo non si discosti dalle reali necessità ed aspettative di tutela della riservatezza del singolo, da un lato e di tutela del diritto del cittadino ad essere informato, dall’altro, ma possa continuare ad affermarsi come diritto vivente, avuto riguardo ai sempre più rapidi mutamenti della società civile.

 

 



[1]  Cass. civ., Sez. Un., 18 novembre 2016, n. 23469; ed ancora Cass. pen., Sez. Un., 29 gennaio 2015, n. 31022.

[2]  Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2017, n. 8482

[3]  Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2017, n. 14447.

[4]  Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2018, n. 9385; Cass. civ., sez. III, 26 ottobre 2017, n. 25420.

[5]  Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24173.

[6]  Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2017, n. 10928; e Cass. pen., sez. V, 17 ottobre 2017, n. 51619.

[7]   Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2007, n. 11259.

[8]   Cass. civ., sez. III, 9 luglio 2010, n. 16236.

[9]   Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 14723.

[10]  Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2017, n. 29640.

[11]    Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2017, n. 14447.

[12]   Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2017, n. 12013. Conforme Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2013, n. 9458.

[13]   Cass. pen., sez. V, 16 novembre 2010, n. 43382; Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24173.

[14]   Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2018, n. 12370.

[15]  Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2014, n. 51096.

[16]  Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2015, n. 17207.

[17]  Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 22791.

[18] Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2018, n. 2357; Cass. pen., sez. V, 2 novembre 2017, n. 7859.

[19]  Da ultimo si veda Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24171.

[20]  Cass. Civ., sez. I, 20 marzo 2018, n. 6919.

[21] Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2015, n. 17211

[22]  Cass. civ., sez. III, 16 novembre 2007, n. 23798.

[23]  Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2015, n. 17211.

[24]  Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 841.

[25]   Cass. pen., sez. V, 7 luglio 2015, n. 50099.

[26]   Cass. pen., sez. V, 28 novembre 2016, n. 3439; Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24171.

[27]   Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2017, n. 10925.

[28]   CGUE Seferi Yilmaz contro Turchia sent. 13 febbraio 2018

[29]   Ancora CGUE Seferi Yilmaz contro Turchia sent. 13 febbraio 2018.

[30]   Cass. civ., sez. I, 24 giugno 2016, n. 13161.

[31] Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2016, n. 10638.

[32]  Cass. civ., Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 3727; Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24173.

[33]  Cass. civ., Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 30981.

[34]  Cass. civ., sez. I, 20 marzo 2018, n. 6919.

[35] Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2013, n. 17051.

[36] CEDU Y. contro Svizzera sentenza 6 Giugno 2017 (n. 22998/13).

[37] Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 24173.

[38] Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2013, n. 16111.

[39] Cass. civ., sez. III, 24 giugno 2016, n. 13161.

[40]  Cass. civ., sez. III, 24 giugno 2016, n. 13161.

[41]  Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 22792.

[42] CGUE, Grande Camera, Google Spain sent. 13 maggio 2014, n. 131.

[43] Cass. Civ., sez. II, 7 aprile 2015, n. 6921 e Cass. Civ., sez. III, 21 settembre 2017, n. 21940.

[44]   Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2018, n. 22794.

 

 
 
 
 
 
 

© 2009 - 2024 Associazione Magistratura Indipendente
C.F.: 97076130588
Via Milazzo, 22 - CAP 00165 - Roma, Italia
segreteria@magistraturaindipendente.it

 
 

Magistratura Indipendente utilizza cookies tecnici e di profilazione. Alcuni cookies essenziali potrebbero già essere attivi. Leggi come poter gestire i ns. cookies: Privacy Policy.
Clicca il pulsante per accettare i ns. cookies. Continuando la navigazione del sito, acconsenti all'utilizzo dei cookies essenziali.