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PENALE

Il controllo di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti penali e i confini tra infondatezza e manifesta infondatezza*

  Penale 
 mercoledì, 11 marzo 2020

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Alessandro Centonze, Consigliere della Corte di cassazione

 
 

 

 

Sommario: 1. La declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per cassazione e la summa divisio dei provvedimenti decisori previsti dagli artt. 610, 611 e 614 c.p.p. – 2. L’inammissibilità dei ricorsi per cassazione e l’assegnazione alla Settima sezione penale della Corte di cassazione. – 2.1. Le ipotesi di inammissibilità genetica dei ricorsi per cassazione. – 2.2. Le ipotesi di inammissibilità sopravvenuta dei ricorsi per cassazione. – 2.2.1. I motivi non specifici, i motivi generici e i motivi privi di autosufficienza. – 2.2.2. I motivi che introducono doglianze non consentite dalla legge nel giudizio di legittimità. – 2.2.3. L’inquadramento processuale dei motivi di ricorso manifestamente infondati: un primo sguardo d’insieme. – 2.2.4. I motivi di ricorso concernenti punti comunque non censurati nel grado precedente. – 3. La motivazione dei ricorsi per cassazione assegnati alle sezioni ordinarie della Corte di cassazione. – 3.1. Premessa. – 3.2. Il rigetto del ricorso e l’infondatezza delle doglianze poste a fondamento dell’atto di impugnazione. – 3.3. L’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con ricorso per cassazione. – 3.4. L’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con ricorso per cassazione. – 4. Il controllo di legittimità della motivazione da parte della Corte di cassazione. – 4.1. La violazione di legge, rilevante ai sensi degli artt. 606, lett. b) e c), c.p.p. e le ipotesi di elusione dei doveri motivazionali del giudice di merito. – 4.2. La manifesta illogicità della sentenza, rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p. – 4.3. Il vizio di travisamento dell’atto processuale, rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p. – 5. Il controllo di legittimità della Corte di cassazione sulle motivazioni “atipiche”. – 5.1. La motivazione apparente delle sentenze di merito. – 5.2. La motivazione per relationem delle sentenze di merito. – 5.3. Le ipotesi di vizi della motivazione dei provvedimenti cautelari fondate su errori di “copia-incolla”.

 

1. La declaratoria di inammissibilità dei ricorsi per cassazione e la summa divisio dei provvedimenti decisori previsti dagli artt. 610, 611 e 614 c.p.p.

 

Occorre premettere che una parte sempre più consistente dei ricorsi introduttivi del giudizio di legittimità vengono ritenuti manifestamente infondati, sul presupposto dell’esistenza di due tipologie distinte di patologie processuali, che riguardano le ipotesi di inammissibilità genetica e le ipotesi di inammissibilità sopravvenuta, le quali sono pronunciate a seguito del vaglio giurisdizionale della Corte di cassazione sulle censure difensive sottoposte al suo giudizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 610, 611 e 614 c.p.p.

Di queste patologie processuali e delle modalità con cui vengono pronunciate le relative declaratorie di inammissibilità da parte della Corte di cassazione ci si occuperà in questi brevi considerazioni, che si inseriscono nel contesto di una riflessione sul controllo di legittimità dei provvedimenti decisori e sui confini ermeneutici, talvolta ambigui, esistenti tra infondatezza e manifesta infondatezza nell’ambito del giudizio penale.

 

2. L’inammissibilità dei ricorsi per cassazione e l’assegnazione alla Settima sezione penale della Corte di cassazione.

 

2.1. Le ipotesi di inammissibilità genetica del ricorso per cassazione.

 

Si tratta di ipotesi eterogenee che comportano un vaglio preliminare e dirimente rispetto alle censure giurisdizionale proposte dalle parti processuali, che non possono essere vagliate nel merito delle doglianze prospettate, sulle quali deve emettersi un provvedimento succintamente motivato.

Tra queste ipotesi, occorre sinteticamente richiamare il ricorso proposto da un soggetto processuale non legittimato, disciplinato, in termini generali, dall’art. 568, comma 3, c.p.p.; il ricorso proposto da un difensore non abilitato al patrocinio presso la Corte di cassazione, perché non iscritto nell’apposito albo, disciplinato dall’art. 613 c.p.p.; il ricorso proposto personalmente dall’imputato, anch’esso disciplinato dall’art. 613 c.p.p.; il ricorso proposto da un soggetto che non ha interesse, che è disciplinato dall’art. 568, comma 4, c.p.p.; il ricorso tardivo, disciplinato, in termini generali, dall’art. 585 c.p.p.; il ricorso proposto senza l’osservanza delle forme previste dagli artt. 582 e 583 c.p.p.; il ricorso proposto avverso un provvedimento che non è impugnabile davanti alla Corte di cassazione; il ricorso proposto contro ordinanze pronunciate nel corso del dibattimento, fuori delle ipotesi di cui all’art. 586, comma 3, c.p.p.; il ricorso privo della indicazione dei motivi, che è disciplinato, in termini generali, dall’art. 581 c.p.p.

 

2.2. Le ipotesi di inammissibilità sopravvenuta del ricorso per cassazione.

 

Le ipotesi di inammissibilità sopravvenuta riguardano una pluralità eterogenea di pronunce della Corte di cassazione, accomunate dal fatto che vengono adottate a seguito di un vaglio sull’assenza di legittimazione a ricorrere del soggetto impugnante, in conseguenza del quale viene emessa un’ordinanza sinteticamente motivata.

Nell’inquadrare tale patologia processuale, occorre considerare che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse a impugnare, così come prefigurata dall’art. 568, comma 4, c.p.p., quale condizione dell’impugnazione e quale requisito soggettivo del diritto esercitato dalla parte attraverso la proposizione del gravame, deve essere inquadrata in una prospettiva di natura eminentemente utilitaristica. Tale connotazione utilitaristica dell’impugnazione – su cui si concentra il vaglio della Corte di cassazione – risulta costituita da una finalità processuale negativa, consistente nell’obiettivo di rimuovere la situazione di svantaggio derivante dalla decisione giudiziale avverso la quale si ricorre, nonché da una finalità processuale positiva, consistente nel perseguimento di un’utilità per la posizione del ricorrente, rappresentata dall’ottenimento di una pronuncia più vantaggiosa rispetto a quella impugnata.

Sul punto, non si può che richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte, citando il principio di diritto secondo cui: «Nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul concetto di soccombenza – a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti – ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo»[1].

Ne discende che il requisito dell’interesse a impugnare, che è strettamente connesso alla legittimazione a ricorrere, deve configurarsi in termini di concretezza e attualità, oltre che sussistere sia nel momento della proposizione del gravame sia in quello della sua decisione, perché questa possa avere un’effettiva incidenza sulla situazione giuridica, di volta in volta, devoluta al giudice dell’impugnazione.

Il vaglio di tale requisito costitutivo, pertanto, presuppone una valutazione della persistenza, al momento della decisione di legittimità, di un interesse all’impugnazione in capo al ricorrente, la cui attualità doveva ritenersi sussistente all’atto della proposizione del ricorso per cassazione e, nel corso del giudizio, non deve essere venuta meno per la mutata situazione di fatto o di diritto eventualmente intervenuta[2].

Su queste ipotesi di inammissibilità, con le precisazioni metodologiche sopra esposte, non occorre soffermarsi partitamente, essendo estremamente variegata la casistica collegata a tali pronunzie di legittimità.

 

2.2.1. I motivi non specifici, i motivi generici e i motivi privi di autosufficienza.

 

Nel ricorso per cassazione, i motivi generici o non specifici sono quelli prospettati dalla parte processuale, pubblica o privata, in termini meramente ipotetici e che, per la loro natura congetturale, non trovano aggancio con i dati processuali che la Corte di cassazione può esaminare.

A titolo meramente semplificativo, si può richiamare la denunzia di un travisamento della prova che non allega o non fa alcun riferimento al dato processuale travisato, atteso che il ricorso per cassazione deve essere autosufficiente e la mancanza di autosufficienza determina la genericità dell’atto di impugnazione proposto, che, in queste ipotesi, non circoscrive l’ambito decisorio sottoposto alla cognizione del giudice di legittimità.

Il ricorrente, invero, può richiamare il provvedimento censurato, ma non può omettere di allegarlo o comunque non riportare la sua integrale trascrizione, con la conseguenza che laddove non osserva tali oneri di allegazione – che assumono una connotazione pregnante soprattutto nelle ipotesi in cui si censurano i vizi della motivazione della sentenza di merito ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. – la doglianza proposta non può che ritenersi inammissibile, per la sua genericità e per la correlata, ancorché non strettamente sovrapponibile, violazione del principio di autosufficienza[3].

In termini analoghi, devono ritenersi connotate da genericità la doglianze che si limitano a riproporre assertivamente deduzioni svolte nei precedenti gradi di giudizio, senza tenere conto delle risposte date a tali censure dalla sentenza impugnata e senza introdurre ulteriori doglianze.

La mancanza di collegamento con i passaggi motivazionali della sentenza impugnata, infatti, comporta che, in queste ipotesi, il ricorso per cassazione non soddisfi i requisiti previsti a pena di inammissibilità dalla disposizione dell’art. 581, comma 1, lett. a) e c), c.p.p.

 

2.2.2. I motivi che introducono doglianze non consentite dalla legge nel giudizio di legittimità.

 

Occorre, quindi, passare a considerare i motivi che introducono doglianze non consentite nel giudizio di legittimità, che riguardano le ipotesi in cui le censure della parte processuale mirano a una ricostruzione meramente fattuale degli accadimenti criminosi oggetto di vaglio.

Al giudice di legittimità, infatti, non è consentita sic et simpliciter la rivalutazione del compendio probatorio esaminato nei giudizi di merito, anche in considerazione del fatto che non può sottoporre a una disamina integrale gli atti processuali posti a fondamento delle decisioni sottostanti e nessun elemento, tantomeno una porzione di prova, per quanto possa apparire importante, può essere valutato a prescindere dall’intero contesto giurisdizionale, sul quale il vaglio di legittimità deve concentrarsi.

Né potrebbe essere diversamente, atteso che anche il rapporto di contraddizione esterna al testo della sentenza impugnata davanti alla Corte di cassazione, così come introdotto dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha modificato l’art. 606, comma 1, c.p.p., per essere compatibile con il giudizio di legittimità non può che essere inteso stricto sensu come rapporto di negazione sul significante, a tale giudizio continuando a risultare estranea ogni disamina attinente al significato e alla plausibilità della lettura della prova compiuta dai giudici del merito[4].

Non può, tuttavia, confondersi tra un ricorso in fatto e un ricorso con il quale si denunzia l’omessa risposta a censure fondate sulla ricostruzione fattuale degli accadimenti criminosi, non manifestamente infondate ovvero irrilevanti, incentrate sul percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, indispensabili per l’inquadramento delle doglianze della parte processuale.

Infatti, per potere essere autosufficiente e non generico il ricorso per cassazione deve indicare le deduzioni per le quali si lamenta una carenza di risposta da parte del giudice di merito, che conseguentemente costituiscono solo la premessa per apprezzare la completezza della motivazione. D’altra parte, se è vero che il giudice di secondo grado può rinviare al contenuto argomentativo della decisione di primo grado, anche per relationem[5], lo stesso deve comunque, oltre che trarre una sintesi logica dal compendio probatorio sottoposto al suo vaglio giurisdizionale – che non può ridursi alla semplice riproduzione dei risultati inferenziali acquisiti –, dare puntuale risposta alle argomentazioni difensive.

 

2.2.3. L’inquadramento processuale dei motivi di ricorso manifestamente infondati: un primo sguardo d’insieme.

 

I motivi del ricorso per cassazione manifestamente infondati possono esserlo in fatto – perché si denunzia l’omessa risposta ma questa c’è stata o perché si afferma che la prova è insufficiente e invece è consistente – ovvero in diritto – perché si denuncia una questione priva di ogni consistenza giuridica o ermeneutica – al contrario di quanto concretamente riscontrabile; di entrambe tali doglianze occorre occuparsi partitamente.

Deve, invero, rilevarsi che la demarcazione tra manifesta infondatezza e infondatezza del ricorso per cassazione, spesso, può apparire ambigua, assumendo connotazioni ermeneutiche che appaiono eccessivamente sfumate. Non può negarsi, ad esempio, che talora tali pronunzie appaiono collegate all’individuazione dei termini di prescrizione del reato per cui si procede, il cui decorso deve essere valutato dalla Corte di cassazione alla luce della giurisprudenza di legittimità consolidata[6].

Si aggiunga ulteriormente che, laddove vengano prospettate censure che riguardano il vizio di motivazione della decisione di merito, la distinzione tra manifesta infondatezza e infondatezza, spesso, dipende da come la parte formula il ricorso per cassazione, anche se, in genere, le due patologie processuali si saldano tra loro, riguardando il percorso censorio posto a fondamento dell’atto di impugnazione.

Per quanto riguarda, invece, le doglianze che introducono questioni di diritto ex art. 606, comma 1, lett. b) e c), c.p.p. quello che assume rilievo decisivo non è il percorso argomentativo seguito dal giudice di merito, quanto, piuttosto, l’esito decisorio del ragionamento processuale e la corretta indicazione della disposizione violata.

Può anche verificarsi l’ipotesi in cui la decisione di merito è giusta, ma si fonda su un percorso argomentativo erroneo; condizione, questa, che comporta che difficilmente un atto di impugnazione che censuri un siffatto profilo valutativo possa ritenersi manifestamente infondato.

Appare utile, infine, nelle ipotesi in cui vengano sollevate questioni di diritto, la considerazione del livello di omogeneità della giurisprudenza di legittimità esistente in materia. E’ evidente, infatti, che la presenza di recenti interventi chiarificatori delle Sezioni unite, indicative di un contrasto appena risolto, non dovrebbe mai far ritenere la questione sollevata dalla parte manifestamente infondata riguardando un arresto giurisprudenziale necessitato proprio dai contrasti ermeneutici insorti sul tema censorio.

2.2.4. I motivi di ricorso concernenti punti comunque non censurati nel grado precedente.

 

In questo caso, vengono in rilievo due aspetti tra loro concorrenti; quello relativo al regime di deducibilità delle nullità e delle relative sanatorie; quello, connesso, relativo alla portata del principio devolutivo, che è cosa ben diversa, dal giudicato progressivo della sentenza di merito, di cui ci si occuperà più avanti[7], che concerne soltanto le questioni precluse a seguito di un annullamento con rinvio pronunciato dalla Corte di cassazione.

 

3. La motivazione dei ricorsi per cassazione assegnati alle sezioni ordinarie della Corte di cassazione.

 

3.1. Premessa.

 

Prima di entrare nel merito delle questioni da esaminare in questa parte dell’intervento occorre evidenziare che, nel controllo di legittimità eseguito dalla Corte di cassazione, i provvedimenti decisori di merito si sviluppano secondo linee logiche e giuridiche concordanti, con la conseguenza che la motivazione della sentenza di primo grado si salda necessariamente con quella della decisione di appello, formando un corpo motivazionale unitario e inscindibile, a prescindere da eventuali richiami a singoli passaggi argomentativi della pronunzia impugnata, generalmente effettuati dal ricorrente allo scopo di evidenziarne l’incongruità motivazionale.

In questa cornice, si ritiene indispensabile richiamare l’orientamento ermeneutico consolidato, secondo cui: «Le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata»[8].

Ne discende che i singoli passaggi motivazionali della sentenza di appello devono necessariamente integrarsi con gli omologhi passaggi della decisione di primo grado, componendo entrambi i provvedimenti decisori un percorso argomentativo unitario e omogeneo rispetto al controllo giurisdizionale demandato alla Corte di cassazione con l’atto di impugnazione.

A conferma di quanto si sta affermando occorre richiamare ulteriormente il principio di diritto, secondo cui: «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione»[9].

 

3.2. Il rigetto del ricorso e l’infondatezza delle doglianze poste a fondamento dell’atto di impugnazione.

 

Fatta questa indispensabile premessa, occorre passare a esaminare le singole tipologie provvedimentali, prendendo le mosse dal rigetto del ricorso, che si ha quando l’impugnazione proposta viene respinta e il provvedimento impugnato – di primo grado o di appello – viene conseguentemente confermato.

Il rigetto del ricorso, a sua volta, può essere integrale o parziale; in questo secondo caso, l’effetto dell’irrevocabilità investe solo una parte del provvedimento decisorio impugnato, conformemente al principio di formazione progressiva del giudicato, che occorre porre in evidenza in conformità della giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui: «In tema di annullamento parziale della sentenza impugnata da parte della cassazione, il principio della formazione progressiva del giudicato – desumibile da una corretta interpretazione del disposto dell’art. 545 comma primo c.p.p. del 1930 (e parallelamente dell’art. 624, comma primo, nuovo c.p.p.) – che ne importa la configurabilità in ordine alle parti non annullate della sentenza concernenti l’esistenza del reato e la responsabilità dell’imputato e non in rapporto di connessione essenziale con quelle annullate, legittima la conclusione che esclude la operatività delle cause di estinzione del reato, relativamente alle parti della decisione sulle quali si è formato il giudicato, non potendo l’art. 152 c.p.p. del 1930 (e l’art. 129 nuovo c.p.p.), che pur prevede l’efficacia di dette cause in ogni stato e grado del procedimento, superare la “barriera del giudicato”, essendosi per quelle parti della sentenza che tale autorità hanno acquistato, ormai concluso, in maniera definitiva, il loro “iter” processuale»[10].

 

3.3. L’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con ricorso per cassazione.

 

Occorre, quindi, passare a considerare le ipotesi in cui la Corte di cassazione pronuncia una sentenza di annullamento senza rinvio, a norma dell’art. 620 c.p.p.

Tali pronunzie intervengono, secondo quanto previsto dall’art. 620 c.p.p., se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto o se l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita; se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario; se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della giurisdizione, limitatamente alle medesime; se la decisione impugnata consiste in un provvedimento non consentito dalla legge; se la sentenza è nulla a norma e nei limiti dell’art. 522 c.p.p., in relazione a un reato concorrente; se la sentenza è nulla a norma e nei limiti dell’art. 522 c.p.p., in relazione a un fatto nuovo; se la condanna è stata pronunciata per errore di persona; se vi è contraddizione fra la sentenza o l’ordinanza impugnata e un altro provvedimento anteriore concernente la stessa persona e il medesimo oggetto, pronunciata dallo stesso o da un altro giudice penale; se la sentenza impugnata ha deciso in secondo grado su una materia per la quale non è ammesso l’appello; in ogni altro caso in cui la Corte di cassazione ritiene superfluo il rinvio ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari.

 

3.4. L’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con ricorso per cassazione.

 

Al di fuori delle ipotesi che si sono passate in rassegna nel paragrafo precedente, la Corte di cassazione emette una sentenza di annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, a norma dell’art. 623 c.p.p.

Tali pronunzie, secondo quanto previsto dall’art. 623 c.p.p., comportano che, se è annullata un’ordinanza, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, che provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento; se è annullata una sentenza di condanna, nei casi previsti dall’art. 604, commi 1, 4 e 5-bis, c.p.p., la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice di primo grado; se è annullata la sentenza di una corte di assise di appello o di una corte di appello ovvero di una corte di assise o di un tribunale in composizione collegiale, il giudizio è rinviato rispettivamente a un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini; se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione dispone che gli atti processuali siano trasmessi al medesimo tribunale, anche se, in questo caso, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.

 

4. Il controllo di legittimità della motivazione da parte della Corte di cassazione.

 

4.1. La violazione di legge, rilevante ai sensi degli artt. 606, lett. b) e c), c.p.p. e le ipotesi di elusione dei doveri motivazionali del giudice di merito.

 

Il vizio di violazione di legge, si ha quando il giudice, nel pronunciare una sentenza erra nell’applicazione di una norma penale o processuale ex art. 606, lett. b) e c), c.p.p.

Nell’ambito di tale patologia processuale occorre considerare il vizio deducibile in termini di mancanza di motivazione dei provvedimenti decisori, che riguarda, oltre all’ipotesi, meramente scolastica, di un provvedimento totalmente privo di giustificazioni, ma dotato del solo dispositivo, tutti i casi in cui la motivazione risulti sprovvista dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità consolidata secondo cui: «Qualora il ricorso per cassazione sia ammesso esclusivamente per violazione di legge, è comunque deducibile la mancanza o la mera apparenza della motivazione, atteso che in tal caso si prospetta la violazione della norma che impone l’obbligo della motivazione nei provvedimenti giurisdizionali»[11].

Nella stessa direzione ermeneutica si colloca la giurisprudenza consolidatasi in tema di procedimenti di prevenzione, secondo cui: «Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), c.p.p., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n. 1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente»[12].

 

4.2. La manifesta illogicità della sentenza, rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p.

 

Il vizio di manifesta illogicità della sentenza, rilevante ex art. 606, lett. e), c.p.p., postula, secondo quanto espressamente previsto da tale disposizione, che tale patologia processuale emerga dal testo della sentenza ovvero da atti del processo specificamente indicati nei motivi di impugnazione.

Su questa tematica, in termini generali, occorre richiamare l’orientamento ermeneutico consolidato, riconducibile all’intervento chiarificatore delle Sezioni unite, risalente e tuttora insuperato, secondo cui: «Ai sensi dell’art. 606, lett. e) c.p.p., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica»[13].

Questa opzione ermeneutica, a sua volta, deve essere integrata con quella espressa da un altro arresto chiarificatore delle Sezioni unite, che, a distanza di alcuni anni, intervenendo sulla natura del sindacato di legittimità sul vizio di motivazione della sentenza di merito, affermavano il seguente principio di diritto: «In tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è “geneticamente” informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri»[14].

Conclude, infine, questo percorso ermeneutico sulla manifesta illogicità della sentenza di merito, un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni unite, in cui veniva affermato il seguente principio di diritto: «L’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali»[15].

 

4.3. Il vizio di travisamento dell’atto processuale, rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p.

 

Per inquadrare questa patologia processuale, in via preliminare, si ritiene indispensabile evidenziare che, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. da parte dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, di cui si è già detto[16], mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, deve ritenersi consentita la deduzione del vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito fondi il proprio convincimento giurisdizionale su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, atteso che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se tali elementi sussistano.

Su questi temi, fin da epoca risalente, si consolidava un orientamento ermeneutico che è possibile richiamare citando il seguente principio di diritto: «In tema di motivi di ricorso per cassazione, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma primo, lett. e) ad opera dell’art. 8 della L. n. 46 del 2006, mentre non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è, invece, consentito dedurre il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano»[17].

Nella stessa direzione, si muove l’arresto giurisprudenziale, di poco successivo, con cui la Corte di cassazione, soffermandosi sulle ipotesi di travisamento di prove decisive, affermava: «Nel giudizio di legittimità per travisamento di una prova decisiva acquisita al processo l’oggetto della cognizione, nei limiti della censura dedotta, è l’esistenza di una palese difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia tratto»[18].

Esemplare rappresentazione di quanto si sta affermando si trae dal tema della valutazione del contenuto di intercettazioni telefoniche o ambientali, rispetto al quale non si ritiene possibile operare una reinterpretazione complessiva del contenuto di tali conversazioni in sede di legittimità, sulla scorta di quanto frequentemente prospettato dai ricorrenti nei loro atti di impugnazione, essendo una tale operazione di ermeneutica processuale preclusa alla Corte di cassazione, conformemente al seguente principio di diritto: «In materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite»[19].

Discorso, questo, che vale anche con riferimento alla lettura del contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni captate durante le indagini preliminari, rispetto alle quali è generalmente tratteggiato nei ricorsi per cassazione, un mero problema di interpretazione delle frasi e del linguaggio usato dai soggetti interessati a quelle intercettazioni, che costituisce una quaestio facti, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, che si sottrae al giudizio di legittimità se e nella misura in cui le valutazioni effettuate dai giudici di merito risultino logiche e coerenti in rapporto alle massime di esperienza utilizzate per l’interpretazione di tali captazioni. Sul punto, allo scopo di circoscrivere con maggiore puntualità gli ambiti di intervento del giudice di legittimità in relazione all’operazione di ermeneutica processuale compiuta dai giudici di merito sui risultati delle intercettazioni, si ritiene utile richiamare il seguente principio di diritto: «In tema di valutazione della prova, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione»[20].

Questa posizione ermeneutica, infine, veniva definitivamente ribadita dalle Sezioni unite, che, soffermandosi sul problema dell’interpretazione del linguaggio adoperato nel corso delle intercettazioni, affermavano il seguente principio di diritto: «In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità»[21].

 

5. Il controllo di legittimità della Corte di cassazione sulle motivazioni “atipiche”.

 

5.1. La motivazione apparente delle sentenze di merito.

 

Per inquadrare questa tipologia di patologia della motivazione, cui ci si è già riferiti a proposito del vizio di violazione di legge, caratterizzato dall’elusione integrale delle questioni sottoposte alla cognizione del decidente[22], cui consegue la violazione del dovere di motivare i provvedimenti giurisdizionali, occorre richiamare la giurisprudenza di legittimità consolidata: «In tema di vizio della motivazione delle sentenze, la motivazione apparente e, dunque, inesistente è ravvisabile soltanto quando sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente»[23].

Tale patologie processuali, dunque, si concretizza quando la motivazione del provvedimento impugnato, formalmente esistente, sia del tutto avulsa e dissociata dalle risultanze processuali ovvero si avvalga di argomentazioni di puro genere, asserzioni apodittiche, proposizioni prive di efficacia dimostrativa. Ne consegue che la motivazione apparente si concretizza in tutte quelle ipotesi in cui il percorso argomentativo espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e, in conseguenza di tale fittizietà, debba ritenersi inesistente.

 

5.2. La motivazione per relationem delle sentenze di merito.

 

Per inquadrare questa ulteriore tipologia di motivazione “atipica” delle sentenze di merito, occorre premettere che non è possibile ipotizzare che un provvedimento decisorio, per il semplice richiamo, ancorché sintetico, a singoli passaggi motivazionali del provvedimento decisorio sottostante, possa ricondursi alla categoria degli atti per relationem, atteso che, nel giudizio di appello, la valutazione della specificità dei motivi di impugnazione si pone in termini differenti e meno stringenti rispetto a quanto è necessario per il ricorso per cassazione, in ragione del carattere di mezzo di gravame di tipo devolutivo del primo dei due rimedi, atto a provocare un nuovo esame del merito. Tutto questo non può che comportare una valutazione meno rigorosa dei singoli passaggi motivazionali, di volta in volta, considerati, laddove censurati sotto tali profili giurisdizionali[24].

In questa cornice, appare opportuno richiamare il principio di diritto secondo cui: «La motivazione “per relationem” di un provvedimento giudiziale è da considerarsi legittima quando: a) faccia riferimento ad altro atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto delle ragioni del provvedimento di riferimento ritenendole coerenti con la sua decisione; c) l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato o almeno a lui ostensibile»[25].

Tale opzione ermeneutica, a sua volta, si colloca nel solco di un risalante arresto chiarificatore delle Sezioni unite, nel contesto del quale veniva affermato il seguente principio di diritto: «La motivazione “per relationem” di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione»[26]

 

5.3. Le ipotesi di vizi della motivazione dei provvedimenti cautelari fondate su errori di “copia-incolla”.

 

Per inquadrare questa tipologia di motivazione “atipica” di sentenza di merito, sempre più frequente nella materia cautelare, occorre richiamare il seguente principio di diritto: «È illegittima l’ordinanza con la quale il Tribunale – in sede di appello cautelare ex art. 310 c.p.p. […] con la tecnica del copia-incolla informatico – argomentazioni e valutazioni contenute in decisioni conclusive di precedenti procedure “de libertate”, ritenendo apoditticamente gli argomenti difensivi inidonei ad inficiare il quadro cautelare già valutato e omettendo di valutare e dar conto, con congrua motivazione, di fatti sopravvenuti e, pertanto, nuovi indicati dalla difesa, quali la revoca di analoga misura nei confronti di altri coindagati unitamente all’ulteriore decorso del tempo, tali da rilevare in sede di attualità delle esigenze cautelari»[27].

Tale nullità, peraltro, non comporta che l’intero provvedimento cautelare sia inficiato dall’errore informatico in questione, atteso che secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione: «E’ nullo per difetto di motivazione il provvedimento del giudice che riproduca alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra pronuncia, a meno che detta tecnica di redazione manifesti una autonoma rielaborazione da parte del decidente e dia adeguata risposta alle doglianze proposte dal ricorrente»[28].

Occorre, infine, evidenziare che, nel censurare tale patologia motivazionale, non ci si può limitare a prospettare in termini generici la mancanza di autonomia dell’ordinanza impugnata rispetto ai sottostanti provvedimenti, ma occorre indicare i passaggi motivazionali dell’ordinanza che risultavano inficiati da tali omissioni e le conseguenze che ne derivavano sul piano processuale, relativamente alla posizione dell’imputato. Esemplare, da questo punto di vista, appare il seguente arresto giurisprudenziale: «In tema di impugnazioni avverso i provvedimenti “de libertate”, il ricorrente per cassazione che denunci la nullità dell’ordinanza cautelare per omessa autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza ha l’onere di indicare gli aspetti della motivazione in relazione ai quali detta omissione abbia impedito apprezzamenti di segno contrario di tale rilevanza da condurre a conclusioni diverse da quelle adottate»[29].

 



        (*) Questo contributo riproduce, con alcune modifiche e integrazioni, soprattutto riguardanti le note bibliografiche e i riferimenti giurisprudenziali ivi contenuti, alcune relazioni svolte in occasione di recenti eventi formativi, ai quali sono stato invitato quale relatore.

([1]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 6624, 27 ottobre 2011, Marinaj, Rv. 251693-01; su questo intervento delle Sezioni unite, si veda il commento di M. Bargis, Ricorso per Cassazione inammissibile e principio di diritto nell'interesse della legge ex art. 363, comma 3, c.p.c.: un istituto esportabile in sede penale a fini nomofilattici?, in Cass. pen., 2013, 1, pp. 105 ss.    

([2]) Si vedano, in proposito, Cass. pen., Sez. I, n. 8763, 25 novembre 2016, Attanasio, Rv. 269199-01; Cass. pen., Sez. I, n. 47882, 14 novembre 2013, Lisimberti, Rv. 257322-01.     

([3]) Ritengo esemplare, da questo punto di vista, il principio di diritto espresso in Cass. pen., Sez. IV, n. 46979, 10 novembre 2015, Bregamotti, Rv. 265053-01, secondo cui: «Il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato»; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. II, n. 29677, 11 aprile 2017, Schioppo, Rv. 270071-01; Cass. pen., Sez. III, n. 43322, 2 aprile 2014, Sisti, Rv. 260994-01.   

([4]) Su questi temi, si rinvia a Cass. pen., Sez. V, n. 48050, 2 luglio 2019, S., Rv. 277758-01; Cass. pen., Sez. I, n. 53600, 24 novembre 2016, Sanfilippo, Rv. 271635-01; Cass. pen., n. 24667, Sez. I, 15 giugno 2007, Musumeci, Rv. 237607-01; Cass. pen., Sez. V, n. 8094, 11 gennaio 2007, Ienco, Rv. 236540-01; in dottrina, si ritiene utile il richiamo all’intervento di L. Calò, Travisamento della prova. Storia di un dialogo, in Cass. pen., 2008, 7-8, pp. 2899 ss.    

([5]) Vedi infra § 5.2.    

([6]) Su questi temi, tra le tante pronunce, si rinvia a Cass. pen., Sez. un., n. 15427, 31 marzo 2016, Cavallo, Rv. 267041-01; Cass. pen., Sez. un., n. 12602, 17 dicembre 2015, Ricci, Rv. 266818-01.

([7]) Vedi infra § 3.3.

([8]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. III, n. 13926, 1 dicembre 2011, Valerio, Rv. 252615-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. 2, n. 37295, 12 giugno 2019, E., Rv. 277218-01; Cass. pen., Sez. I, n. 8868, 26 giugno 2006, Sangiorgi, Rv. 216907-01.    

([9]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. III, n. 44418, 16 luglio 2013, Argentieri, Rv. 257595-01.    

 

([10]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 4460, 19 gennaio 1994, Cellerini, Rv. 196886-01; su questa pronuncia si veda il commento di G. Romeo, La continuazione ancora senza certezze, in Cass. pen., 1994, 8, pp. 2027 ss.    

([11]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Sez. un., n. 25080, 28 maggio 2003, Pellegrino, Rv. 224611-01; si vedano, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. I, n. 37351, 6 maggio 2004, Trigila, Rv. 260805-01; Cass. pen., Sez. I, n. 5338, 14/11/2003, Ganci, Rv. 226628-01.

([12]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 33451, 29 maggio 2014, Repaci, Rv. 260246-01.

([13]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 16, 19 giugno 1996, Di Francesco, Rv. 205621-01; su questo intervento delle Sezioni unite, si veda il commento di C. Maina, Le sezioni unite superano il contrasto con un'estensione analogica del codice di rito, in Guida dir., 1997, 6, pp. 63 ss.

([14]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 12, 31 maggio 2000, Jakani, Rv. 216260-01; su questo intervento delle Sezioni unite, si veda il commento di M. Daniele, Una pronuncia delle Sezioni Unite sul vizio di motivazione: an e quomodo del controllo di “legittimità”, in Cass. pen., 2001, 5, pp. 1436 ss.

([15]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 47289, 24 settembre 2003, Petrella, Rv. 226074-01; su questo intervento delle Sezioni unite, si veda il commento di E. Di Dedda, Il regime transitorio del patteggiamento “allargato”: la morfologia della ricezione, l'intervento delle Sezioni Unite, in Dir. pen. proc., 2004, 5, pp. 579 ss.

([16]) Vedi anche supra § 2.2.2.

([17]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. V, n. 39048, 25 settembre 2007, Casavola, Rv. 238215-01.

([18]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. III, n. 39729, 18 giugno 2009, Belluccia, Rv. 244623-01.  

([19]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. II, n. 35181, 22 maggio 2013, Vecchio, Rv. 257784-01.  

([20]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. VI, n. 29530, 3 maggio 2006, Rispoli, Rv. 235088-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Cass. pen., Sez. V, n. 48286, 12 luglio 2016, Cigliola, Rv. 268414-01. 

([21]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un. 22741, 26 febbraio 2015, Sebbar, Rv. 263715-01. 

([22]) Vedi supra § 4.1.

([23]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. V, n. 24862, 19 maggio 2010, Mastrogiovanni, Rv. 247682-01. 

([24]) Si vedano Cass. pen., Sez. II, n. 8345, 23 novembre 2013, Pierannunzio, Rv. 258529-01; Cass. pen., Sez. I, n. 1445, 14 ottobre 2013, Spada, Rv. 258357-01. 

([25]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. IV, n. 4481, 14 novembre 2007, Benincaca, Rv. 238674. 

([26]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. un., n. 17, 21 giugno 2000, Primavera, Rv. 216664-01. 

([27]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. V, n. 2926, 13 dicembre 2013, Vio, Rv. 257941-01.   

([28]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. IV, n. 7031, 5 febbraio 2013, Conti, Rv. 254937-01.   

([29]) Il principio di diritto richiamato nel testo è estratto da Cass. pen., Sez. I, n. 333, 28 novembre 2018, Esposito, Rv. 274760-01. 

 

 
 
 
 
 
 

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