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L’evoluzione giurisprudenziale della colpa medica

 giovedì, 16 aprile 2020

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Luciano Guaglione,  Consigliere della Corte di Appello di Bari

 
 

Sommario: 1. La responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria alla luce della legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) - 2. Il quadro delle azioni esperibili - 3. L’azione contrattuale nei confronti della struttura sanitaria - 4. L’azione extracontrattuale nei confronti del medico strutturato – 5. La prova del nesso di causalità – 6. La rilevanza, sul piano probatorio, dell’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali.

 

 1. La responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria alla luce della legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco)

 

La problematica dell’onere probatorio in materia di responsabilità medica è strettamente correlata al regime ed alla natura di tale responsabilità per come delineata dal legislatore, che con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha introdotto significative modifiche sostanziali in materia penale e civile rispetto alla sua tradizionale configurazione, al fine di realizzare taluni obbiettivi dichiarati:

1) concentrare la responsabilità in capo alle strutture, agevolando i medici che vi operano (con esclusione dei medici che erogano prestazioni in base a rapporti contrattuali direttamente intervenuti con i pazienti) e consentendo loro di attendere alla loro attività con maggior serenità; ciò anche al fine di porre un argine al c.d. fenomeno della “medicina difensiva”, ravvisabile in quella distor-sione operativa che vede gli esercenti della professione sanitaria più preoccupati di difendere la loro posizione (davanti a possibili attacchi risarcitori) che di curare il paziente;

2) costruire un sistema di tutela efficace dei danneggiati, presidiato - oltre che dalla stessa realizzazione di un efficiente sistema di sicurezza delle cure e di prevenzione dei rischi - dall’in-troduzione di un sistema assicurativo obbligatorio, globalmente strutturato, assistito dall’azione diretta mutuata dall’ambito della rc auto (con i suoi corollari, tra cui la non opponibilità al terzo delle eccezioni contrattuali) ed affiancato da un Fondo di Garanzia deputato ad intervenire laddove la tutela assicurativa risulti insufficiente.

Uno dei fulcri della nuova normativa è senza dubbio rappresentato dall’art. 7, rubricato “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria.

La norma si pone chiaramente in continuità con gli obiettivi del “Decreto Balduzzi”, di cui costituisce uno sviluppo teso, tra l’altro, a superarne le ambiguità mediante una formulazione testuale decisamente più chiara e tale da non generare nuovi equivoci.

Il riferimento va al richiamo all’art. 2043 c.c., contenuto nel primo comma dell’art. 3, D.L. n. 158/2012, che dalla prevalente opzione interpretativa (anche della giurisprudenza di legittimità)  era stato ritenuto troppo labile per fondare un regime di responsabilità diverso da quello di creazione giurisprudenziale e basato sulla nozione del “contatto sociale”.

L’art. 7 della Legge Gelli (norma che rappresenta uno degli snodi cruciali della riforma) scio-glie qualsiasi dubbio: essa, infatti, prevede un doppio regime di responsabilità civile:

- da un lato, assoggetta alla responsabilità contrattuale “ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile” soltanto le strutture sanitarie e sociosanitarie (pubbliche o private) ed i medici liberi professionisti; così, in relazione alla responsabilità dell’ente ospedaliero la riforma non ha una portata innovativa, essendosi limitata a recepire il granitico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto;

- dall’altro, assoggetta alla responsabilità ex art. 2043 c.c. i medici che svolgano la loro attività all’interno di una struttura, in qualità di dipendenti o ad altro titolo (ma comunque “per conto terzi” e non in forza di un rapporto contrattuale diretto con il paziente).

Il “sistema” risulta orientato in modo piuttosto razionale, ponendo il (più gravoso) regime della responsabilità contrattuale in capo a chi quella responsabilità debba ontologicamente assumersela, vuoi perché legato al paziente da un vero e proprio rapporto negoziale, vuoi in forza della propria posizione di gestore dell’attività in forma di impresa e con assunzione del potere/dovere di governo del rischio clinico (in aderenza al principio ubi commoda ibi incommoda…).

La responsabilità contrattuale permane, inoltre, a carico del medico specialista privato e in ogni caso in cui sia possibile allegare un contratto da parte del professionista.

 

 2. Il quadro delle azioni esperibili

E’ dunque preliminare individuare il tipo di azione da promuovere al fine stabilire il regime distri-butivo dell’onere probatorio, tenuto conto che la legge 24/2017 prevede un sistema di azioni di diversa natura e con diverso oggetto, esperibili a seguito del verificarsi dell’episodio causativo del danno.

In particolare, il soggetto leso (o i suoi congiunti, in caso di morte) può proporre domanda giudiziale volta ad ottenere il risarcimento dei danni:

a)  nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, «nell’adem-pimento della propria obbligazione», si sia avvalsa «dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa», la quale «risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose» (v. art. 7, comma 1).

Disposizione questa, che «si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina» (v. art. 7, comma 2);

b)  nei confronti dell’«esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2», il quale «risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile» (v. art. 7, comma 3);

c) nei confronti del medesimo esercente nell’ipotesi in cui «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente» (v. art. 7, comma 3);

d) nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura ovvero dell’esercente, «entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione» (v. art. 12, comma 1).

Prima della proposizione della domanda risarcitoria, quale che sia il soggetto convenuto in giudizio e il titolo (contrattuale o extracontrattuale) della responsabilità invocato, è obbligatorio esperire uno dei “filtri” di procedibilità su visti (procedimento di mediazione oppure accertamento tecnico preventivo) a fini conciliativi.

Il novero delle azioni proponibili si arricchisce, poi, delle seguenti:

e) giudizio di rivalsa promosso dall’impresa di assicurazione contro l’esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave (v. art. 9, comma 1);

f) giudizio di responsabilità amministrativa, proponibile per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, da parte del pubblico ministero presso la Corte dei conti in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica (v. l’art. 9, comma 5);

g) giudizio di regresso promosso dal Fondo di garanzia – istituito, nello stato di previsione del Ministero della salute per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria – nei confronti del responsabile del sinistro  (v. art. 14).

Rispetto a questo secondo gruppo di azioni, non v’è alcuna necessità di promuovere il tentativo di conciliazione in via preliminare, poiché l’art. 8 legge 24 cit. si riferisce alla sola «azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria».

In questa sede, tratterò esclusivamente della incidenza della riforma sulla distribuzione e sul contenuto dell’onere della prova nelle prime due azioni rientranti nel primo gruppo, vale a dire quella contrattuale che il danneggiato può promuovere nei confronti della struttura sanitaria oppure del medico con il quale abbia eventualmente stipulato uno specifico contratto di prestazione d’opera professionale, nonché quella che il paziente può promuovere, sempre nei confronti del medico, ma a titolo di responsabilità extracontrattuale.

 

3. L’azione contrattuale nei confronti della struttura sanitaria

La responsabilità della struttura sanitaria, da ben prima dell’avvento delle due principali riforme degli ultimi anni (legge 189/2012 e legge 24/2017), è stata pressoché pacificamente ricondotta all’inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia pure del tutto autonoma da quella del professionista.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite Civili, con una importante decisione del 2008[1] ha ricostruito in termini autonomi il rapporto paziente-struttura, riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria), al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c..

La pronuncia si pone in linea con una precedente sentenza delle Sezioni Unite[2], seguita poi da altre delle sezioni semplici[3], tendenti ad inquadrare la prestazione gravante sulla struttura sanitaria come di natura complessa in quanto comprendente la fornitura di alloggio e vitto, la messa a disposi-zione di attrezzature, la sicurezza dei macchinari, la cura del paziente, la vigilanza del reparto, tutto secondo lo schema contrattuale atipico del contratto di spedalità.

In virtù del contratto (irrilevante essendo la sua natura pubblica o privata), la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sani-taria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.

Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto con-cerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'indi- viduazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c..

La riforma del 2017, nel ridisegnare il sistema della responsabilità in materia sanitaria e medica, attraverso l’istituzione del cd. “doppio binario”, conferma tuttavia la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria ex art. 1218 e 1228 c.c.

 

4. L’azione extracontrattuale nei confronti del medico strutturato

Viceversa relativamente al medico strutturato la legge Gelli-Bianco segna l’abbandono della natu-ra contrattuale della responsabilità del sanitario a favore di quella extracontrattuale.

La concezione della natura contrattuale della responsabilità de qua si era affermata grazie alla teoria del c.d. contatto sociale qualificato, elaborata dalla dottrina italiana sulla scia della dottrina tedesca degli anni ‘40, che aveva ricondotto alla più ampia teoria dei “rapporti contrattuali di fatto” (c.d.“Faktische Vertragsverhaltnisse”) tutte quelle ipotesi di responsabilità da inadempi-mento di obbligazioni senza prestazioni o violazione di doveri preesistenti di collaborazione e di protezione sussistenti in assenza di un contratto.

In virtù di tale concezione fonte della prestazione risarcitoria non sarebbe né la violazione del principio del neminem laedere né l’inadempimento della prestazione, bensì la lesione di obblighi di protezione, «autonomi rispetto all’obbligo di prestazione, oltre che sul piano della struttura, su quello della fonte». Trattasi di obblighi di diligenza il mancato rispetto dei quali determinerebbe la responsabilità per inadempimento di cui all’ art. 1218 c.c..

Viene così valorizzato il particolare rapporto giuridico “qualificato” che viene ad instaurarsi tra il medico ed il paziente, che non può essere ricondotto all’art. 2043 c.c.

Quest’ultima norma, infatti, disciplina i casi in cui tra il soggetto danneggiante e danneggiato non esiste alcun rapporto, se non un generico dovere di neminem laedere; si tratta in sostanza di un rapporto tra sconosciuti, ove uno dei due ha danneggiato l’altro. Il medico e il paziente invece, an-corché il medico sia un dipendente ospedaliero, non possono essere trattati come due scono-sciuti; in particolare il medico “non è un quisque de populo” (esattamente in questi termini si esprime la Cassazione) tenuto all’obbligo di non danneggiare l’altro, al pari di qualsiasi altro soggetto dell’or-dinamento; al contrario, costui è obbligato in virtù di precise disposizioni di legge, nonché in virtù del contratto stipulato con l’azienda ospedaliera, a tutelare la salute del paziente e ad operare affinché avvenga la guarigione.

Tale elaborazione dottrinale era stata accolta con favore dalla giurisprudenza, con conse- guente applicazione non solo nell’ambito della responsabilità medica, ma anche in altre fattispecie, in cui viene in rilievo una relazione particolarmente qualificata tra soggetti (che si instaura in ambito scolastico, bancario, con l’avvio di un procedimento amministrativo e nelle trattative precontrattuali). 

Tra gli arresti più importanti della giurisprudenza di legittimità ricordiamo: a) Cass. civ., 22 gennaio 1999, n. 589 (in riferimento al medico) la quale precisa che l’assenza di un contratto non può certo far venir meno la professionalità del medico che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in “contatto” con lui.

 Diversamente opinando si arriverebbe alla non condivisibile conclusione secondo cui – in assenza di un contratto – la prestazione del medico può essere diversa nel contenuto da quella che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico. Insomma, pur non essendoci un contratto tra paziente e medico, quest’ultimo si dovrà sempre comportare secondo determinati standards di professionalità; b) Cass. civ, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577 (in relazione alla struttura sanitaria: teorizzazione del contratto atipico di spedalità).

Come già detto la riforma del 2017 segna una decisa inversione di tendenza, attraverso il supe-ramento della teoria del contatto sociale e l’affermazione della natura aquiliana della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria che svolge la propria attività nell'ambito di una struttura sanitaria (pubblica o privata o in rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale).

medico strutturato, che risponde quindi ai sensi dell’art. 2043 c.c.

 

Le conseguenze sull’onere della prova e sulla prescrizione.

Una volta inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria ed in quella extracontrattuale la responsabilità del medico strutturato, nel rapporto con il paziente, ne consegue che trova applicazione il regime proprio di questi tipi di responsabilità, soprattutto per quanto concerne la ripartizione dell’onere della prova ed alla prescrizione.

Ebbene, mentre nella responsabilità da inadempimento l’attore ha l’onere di provare il titolo, il danno e il nesso causale fra inadempimento e danno, lasciando al convenuto l’onere di dimostrare di aver correttamente eseguito la prestazione o, in alternativa, che “l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, nella responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. il danneggiato ha il più gravoso onere di provare il fatto illecito, il danno, il nesso causale tra il fatto e il danno, nonché la colpa o il dolo del danneg-giante.

Dunque, in entrambe le ipotesi l’attore dovrebbe provare il nesso di causalità tra condotta ed evento mentre, quanto all’elemento pricologico, nella prima ipotesi (responsabilità contrattuale) l’«assenza di colpa» integra un fatto impeditivo, che spetta al convenuto provare (v. art. 1218 cc), nell’altra (responsabilità extracontrattuale) la «colpa» funziona come fatto costitutivo, il cui onere è a carico dell’attore (v. art. 2043 cc).

Nel campo della responsabilità sanitaria e medica questo schema apparentemente semplice (e con esso l’applicazione concreta della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.) è stato oggetto di molteplici interventi giurisprudenziali in concomitanza con l’evoluzione del dibattito circa la natura della responsabilità.

Di qui la necessità di approfondire la tematica a cominciare dalla prova del nesso causale.

5. La prova del nesso di causalità

Quanto alla prova del nesso di causalità giova ricordare che la Cassazione (tra tutte v.  sent. 16 ottobre 2007, n. 21619) ha nettamente distinto la causalità civile da quella penale sulla premessa delle differenze intercorrenti tra i due ambiti, sia dal punto di vista morfologico che da quello fun-zionale.

La responsabilità civile pone attenzione sulla figura del danneggiato e non su quella del reo, e si caratterizza inoltre per la sua funzione risarcitoria e non preventiva/punitiva/rieducativa.

Dunque la causalità dovrà essere accertata alla luce del criterio civilistico delpiù probabile che non, in luogo del più severo criterio penalistico della “certezza al di là di ogni ragionevole dubbio[4].

 Non bisogna incorrere nell’errore di ritenere che “più probabile che non” significhi 50%+1 rispetto alla percentuale, penalmente rilevante, superiore al 90%.

 “Più probabile che non” significa semplicemente che un evento si pone come antecedente causale con maggiore probabilità rispetto ad altri possibili cause.

Se ad esempio un evento può essere causato da 7 possibili cause di cui una ha il 40% di probabilità, le altre 6 solo 10%, il giudice potrà affermare che la prima causa ha provocato l’evento.

Dunque, secondo la Cassazione il giudice civile può affermare l'esistenza del nesso causale tra illecito e danno "anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio".

Il corollario di quanto precede è che in presenza di più possibili e diverse concause di un medesimo fatto, nessuna delle quali appaia nè del tutto inverosimile, nè risulti con evidenza avere avuto effi-cacia esclusiva rispetto all’evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia “più probabile che non” rispetto alle altre nella determinazione dell’evento, e non già negare l’esi-stenza della prova del nesso causale, per il solo fatto che il danno sia teoricamente ascrivibile a varie alternative ipotesi (cfr. Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23933).

Il principio è stato recentemente ribadito dal Supremo Collegio (Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2018, n. 4024, rel. Marco Russetti), secondo cui Quando un evento dannoso sia teoricamente ascrivibile a più cause, solo alcune delle quali implicanti una responsabilità civile, il giudice non può rigettare la domanda di risarcimento per il solo fatto che le possibili cause siano più d'una, ma deve accertare in concreto quale, tra le varie possibili cause, appaia la più probabile. Tale giudizio va compiuto non in astratto ed in assoluto, ma in concreto e in relazione alla probabilità relativa che ciascuna ipotetica causa può avere rispetto alle altre).

Ciò premesso, la ripartizione dell’onere della prova del nesso causale, non di rado questione decisiva nei giudizi di responsabilità medica, è stata recentemente oggetto di una serie di inno-vative pronunce della Corte di Cassazione di fronte alle quali, anche alla luce delle previsioni in tema di responsabilità sanitaria introdotte dalla Legge Gelli-Bianco nel 2017, è necessario un ripen-samento di carattere generale degli orientamenti che si sono sedimentati in materia nel corso degli anni.

La ripartizione dell’onere della prova del nesso causale riveste un’importanza non di rado crucia-le nei giudizi di responsabilità medica, in quanto diviene decisiva per la risoluzione della controver-sia tutte le volte in cui le consulenze peritali non siano in grado di stabilire se la causa del danno subito dal paziente (o della sua morte) sia o meno da ricondurre, sul piano eziologico, all’accertata malpractice (condotta negligente) degli operatori sanitari, la colpa di questi ultimi non essendo sufficiente per l’affermazione di responsabilità in assenza di prova della sussistenza del nesso causale (sul punto v., da ultimo, Cass., ord. 15 febbraio 2018, n. 3693).

La questione della “causa ignota” è sempre stata oggetto di grande attenzione da parte della giuri-sprudenza[5], la quale ha nel corso degli anni elaborato diversi orientamenti che compongono un quadro variegato e non agevolmente riducibile ad unità.

 In ossequio al consolidato insegnamento dottrinale che richiede al danneggiato di fornire la prova del nesso causale, quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, tanto nella responsabilità contrattuale quanto nella responsabilità aquiliana[6], un primo indirizzo fa espressamente ricadere sul paziente l’onere di dimostrare la sussistenza del legame eziologico fra la condotta del medico e/o della struttura sanitaria convenuti e il danno alla salute lamentato in giudizio[7].

Diverse sentenze introducono però una presunzione relativa di sussistenza del nesso causale in favore del paziente vittima di malasanità in una serie di ipotesi che, per quanto delimitate, sono nella pratica di tutt’altro che rara verificazione.

La prima riguarda i c.d. interventi di facile esecuzione (o di routine), categoria elaborata dai nostri giudici sulla base di una sorta di una lettura a contrario dell’art. 2236 c.c. in tema di prestazione di speciale difficoltà: in relazione a queste fattispecie si tende invero ad affermare che «l’insuccesso o il parziale successo dell’intervento, nei casi in cui si tratta di intervento con alte possibilità di esito favorevole, implica di per sé la prova del […] rapporto di causalità» in considerazione del fatto che tale nesso, in ambito civilistico, «consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”»[8].

Tale arresto è dovuto ad un pronuncia del 1978 [9], che introdusse la distinzione tra interventi di facile e interventi di difficile esecuzione, ed è rimasto in voga fino al 2004[10].

Analogamente si procede nelle ipotesi di omissioni e inesattezze nella tenuta della documen-tazione sanitaria, nelle quali si afferma che la difettosa/mancata tenuta della cartella clinica impu-tabile a negligenza del personale medico consentirebbe di ritenere provata, in via presuntiva, la sussistenza del nesso di causalità perché, altrimenti, la conseguente mancanza o insufficienza di elementi probatori a disposizione del paziente utili a dimostrare la sussistenza della responsabilità del medico andrebbero a pregiudicare la posizione processuale del paziente stesso a tutto vantaggio della controparte, per giunta inadempiente nell’adempimento dei propri doveri professionali[11].

Oltre a tale indirizzo interpretativo va ricordato il filone giurisprudenziale inaugurato dalla nota Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577 [12], che ha contribuito ad alleggerire ulteriormente l’onere probatorio del paziente, al quale spetterebbe provare soltanto il contratto relativo alla prestazione sanitaria e il danno.  Secondo le Sezioni Unite l’esonero del paziente che abbia allegato un “ina-dempimento qualificato” dall’onere di provare il nesso causale costituisce una implicita con-seguenza della prova liberatoria addossata alla controparte, alla quale viene richiesto di dimo-strare di avere esattamente adempiuto la prestazione sanitaria oppure, in alternativa, il fatto che non sussiste un nesso eziologicamente rilevante tra il proprio inadempimento e la lesione lamentata dal paziente; ma va osservato che, in alcuni ulteriori pronunciamenti, al sanitario e alla struttura è consentito andare esente da responsabilità solamente dando la prova, oltre che della correttezza della prestazione eseguita, pure dell’evento (preesistente o sopravvenuto), indipendente dalla propria sfera di controllo, che ha determinato l’insuccesso.

Questo orientamento è stato ribadito, non senza qualche passo indietro, negli anni successivi[13]

 

- Gli oneri di allegazione

Sta di fatto che l’attenzione si è spostata dal contenuto degli oneri probatori a quello degli oneri di allegazione, richiedendosi da parte di una certa giurisprudenza di merito una precisa e dettagliata indicazione nell’atto introduttivo dei profili concreti della colpa medica posti a fonda-mento dell’azione risarcitoria

La Cassazione, però, ha meglio definito i limiti dell’attività assertiva richiesta, affermando che l’onere dell’attore non si spinge fino alla necessità di enucleare e indicare specifici e pecu-liari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non-professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario (quali, ad esempio, l’omessa informazione sulle possibili con-seguenze dell’intervento, l’adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali, la mancata conoscenza dell’evoluzione della metodica interventistica, la negligenza (intesa come vio-lazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione), l’imprudenza (intesa come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività)  ed imperizia (intesa come violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come insufficiente attitudine all’esercizio di arti e professioni)[14].

Inoltre, partendo da tali premesse, si ritiene che “il giudice non è rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell'attore, stante la inesigibilità della individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all'esito dell'istruttoria e dell’espletamento di una C.t.u., potendo pertanto accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del princi-pio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato[15].

 

 

 

 

 

- L’applicazione del principio della vicinanza della prova.

Il regime di favore nei confronti del paziente applicato dalla giurisprudenza, particolarmente negli ultimi dieci anni, sul piano assertivo e probatorio, si fonda sull’accoglimento del principio di vici-nanza o prossimità o disponibilità o riferibilità della prova, che, a sua volta, risponde a un criterio di “ragionevolezza”. In sostanza, si ammette che il creditore possa limitarsi ad allegare l’inadempi-mento poiché si presume «normale», in senso probabilistico, la veridicità della sua affermazione; di conseguenza, si rimette al convenuto l’onere di fornire una prova (detta «liberatoria») che scardini questa presunzione[16]

Pur nella frammentarietà degli indirizzi giurisprudenziali sopra illustrati, ciò che evidentemente emerge è quindi il formarsi, nel settore della responsabilità medica, di una non trascurabile tendenza ad invertire l’onere della prova del nesso di causalità in favore del paziente attore in giudizio.

Nei tempi più recenti sono però intervenute una serie di pronunce della Suprema Corte che sem-brano indicare una netta inversione di rotta.

Con Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392[17], Cass. 14 novembre 2017, n. 26824[18], Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315, Cass. civ., sez. III, 2.03.2018, n. 4928; Cass. 21 marzo 2018, n. 7044 e, da ultimo, Cass. 19 luglio 2018, n. 19204, è stato infatti riaffermato il principio per cui anche nelle cause di responsabilità medica il rapporto eziologico è elemento costitutivo del diritto al risarcimento del danno e dev’essere, pertanto, provato da colui che asserisce di esserne titolare, vale a dire il paziente, sulla scorta del principio generale consacrato dall’art. 2697 c.c.; con l’indefettibile corol-lario che la domanda risarcitoria dev’essere respinta nei procedimenti nei quali la causa del danno sia rimasta incerta al termine dell’istruttoria.

Alle pronunce in discorso non sfugge che tali principi sembrano discostarsi vistosamente dal percorso tracciato, ormai una decina d’anni orsono, dalla già ricordata Cass. civ., sez. un., n. 577/2008.

Secondo gli stessi giudici si tratterebbe, tuttavia, di un contrasto solo «apparente» e invero ricom-ponibile alla luce di due ordini di ragioni. Da un primo punto di vista bisognerebbe distinguere, attraverso un esercizio di «semplificazione analitica della fattispecie», tra due differenti segmenti del percorso causale: un primo intercorrente fra la prestazione sanitaria difettosa e il danno lamentato dal paziente, cui spetta assolvere il relativo onere probatorio senza possibilità di invocare, in senso contrario, il c.d. principio di vicinanza della prova; e un secondo (al quale soltanto si rife-rirebbero i principi enucleati da Cass., sez. un., n. 577/2008), che invece riguarda l’intervenire di eventi suscettibili di configurare una causa sopravvenuta e non imputabile al debitore di im-possibilità – di corretta esecuzione della – prestazione in discorso, la sussistenza del quale dev’essere dimostrata dal medico/nosocomio convenuto in giudizio ai sensi dell’art. 1218 c.c. con relativa sopportazione del rischio della causa ignota.

Questo secondo segmento del «ciclo causale», sempre secondo la Cassazione, acquista peraltro rilievo solamente in seconda battuta, ove cioè risulti dimostrato il nesso eziologico tra l’evento dannoso e la malpractice medica: solo una volta che il paziente danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari, quindi, sorge per la controparte l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile.

La Suprema Corte prova, così, a rileggere la formula impiegata dal precedente del 2008: al debitore, secondo tale revirement, spetta provare non la causa costitutiva della fattispecie risarcitoria dedotta dal danneggiato (id est il nesso eziologico), bensì quella della fattispecie estintiva dell'obbligazione, ossia l'impossibilità sopravvenuta della prestazione.

 La seconda ragione per la quale le pronunce in esame non contrasterebbero con le regole  probatorie declamate da Cass., sez. un., n. 577/2008 risiederebbe poi nel fatto che – per usare la parole degli stessi giudici – tali regole vennero affermate «a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato” allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili” nel singolo caso di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già in sé quella del nesso causale, con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione, secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, c.c. e non – si badi – la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.».

Seppure in maniera meno approfondita, la disamina della S.C. si sofferma pure sul ruolo svolto dal parametro della diligenza dell’art. 1176 c.c. nell’ambito del regime probatorio deli-neato dall’art. 1218 c.c.

Al riguardo, viene affermato che «il danneggiante deve dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione, cioè il caso fortuito», la (non) imputabilità della quale al debitore dev’essere secondo gli ermellini valutata alla stregua della diligenza ordinaria di cui all’art. 1176, comma 1, c.c. – che per l’appunto atterrebbe alla «conservazione della possibilità di adempiere, quale impiego delle cautele necessarie per evitare che la prestazione professionale divenga impossibile» – e non della diligenza professionale di cui al comma 2 dell’articolo citato, che «quale misura del contenuto dell’obbligazione rappresenta il parametro tecnico per valutare se c’è stato l’adempimento».

Da queste considerazioni sembrerebbe potersi, pertanto, desumere che dev’essere mandato esente da responsabilità il debitore della prestazione sanitaria che abbia dimostrato di avere corretta-mente adempiuto la prestazione medesima – e che pertanto non sussiste inadempimento alcuno –, senza imporgli di dover ulteriormente fornire (pure) la prova dell’evento imprevisto ed imprevedibile che ha determinato l’insuccesso delle cure[19] .

Un ulteriore aspetto che merita di essere evidenziato è l’assenza, all’interno di tutte le pronunce in esame, di qualsiasi riferimento alla nota distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato: mancanza che, in realtà, non rappresenta una lacuna e va anzi salutata con favore, perché la distinzione in parola non dispiega alcuna influenza sull’onere della prova del nesso causale[20].

 Inoltre, e nonostante le perplessità che sollevano la scomposizione del nesso eziologico in due segmenti[21], le pronunce in commento meritano un apprezzamento positivo anche per il modo in cui si sforzano di ristabilire la vigenza, nell’ambito della responsabilità sanitaria, di un principio pro-batorio invero incontestato in tutti gli altri settori della responsabilità contrattuale nonché aquiliana e che solo per un’evidente anomalia non viene sempre seguito nelle controversie di medical mal-practice[22].

Del resto, l’indirizzo propugnato dalle sentenze in esame appare muoversi in sintonia con la nuova disciplina della responsabilità medica introdotta, sempre nel corso del 2017, dalla già menzionata Legge Gelli-Bianco, che pur non contenendo alcuna previsione in tema di nesso causale, è notoriamente costruita attorno al fondamentale obiettivo di contrastare il fenomeno della medicina difensiva tramite la mitigazione del regime della responsabilità civile (e penale) incombente su professionisti sanitari e strutture ospedaliere[23].

Alla luce del superamento della tesi del “contatto sociale” operata dall’art. 7, comma 3, della legge in discorso e del conseguente ritorno della possibilità che la responsabilità medica assuma natura extracontrattuale, è inoltre destinato ad assumere grande rilievo anche il passaggio delle pro-nunce in esame in cui si ha cura di puntualizzare che l’onere della prova del nesso causale in-combe sul paziente danneggiato attore in giudizio tanto nella responsabilità contrattuale quanto nella responsabilità aquiliana[24].

La  giurisprudenza di merito mostra ossequio a tale orientamento[25] sottolineando che “Nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all'evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possi-bilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione. Da ciò consegue, dunque, che la causa incognita resta a carico dell'attore relativamente all'evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere” (così App. Milano, sez. II, 15 febbraio 2019, n. 698).

Ad ogni modo, solamente una futura e più approfondita riflessione sarà in grado di mettere in luce l’effettiva portata del regime probatorio delineato dalle sentenze in discorso: da un lato esse potreb-bero imporre una regola rigida e indeclinabile, destinata a valere in termini assoluti; dall’altro, però, non è escluso che quanto dalle stesse affermato finisca per assumere il valore di un principio generale attorniato da eccezioni in cui si riconosce la presunzione di sussistenza del nesso causale con riferimento ad ipotesi specifiche[26], ad iniziare, ovviamente, da quelle già ricordate in tema di interventi di routine e di mancanza/incompletezza della documentazione sanitaria.

Sulla scorta delle considerazioni svolte possiamo a questo punto riassumere schematicamente gli oneri probatori in ambito di responsabilità medica:

a) quanto alla responsabilità (contrattuale) della struttura il paziente deve allegare l’esistenza del rapporto (generato da un semplice contatto con la struttura) e l’inadempimento qualificato del-l’azienda sanitaria nonché provare il nesso di causalità fra l'azione o l'omissione del sanitario e l'e-vento indesiderato  (e cioè l’aggravamento dello stato di salute o la comparsa di patologia o l’assenza del miglioramento atteso;

b) la struttura sanitaria, per liberarsi dalla presunzione di inadempimento che grava su di essa, dovrà provare, con supporto scientifico e medico-legale, che nessuna negli­genza, imprudenza o imperizia sia riferibile al proprio operato (in via diretta, o per effetto dell’at­tività dei soggetti dei quali debba rispondere) oppure che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile[27];

c) quanto invece alla responsabilità (extracontrattuale) del medico strutturato il danneggiato sarà costretto ad allegare e provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie ex art. 2043 c.c. (e cioè di aver subito un danno, provando non soltanto la natura e l’entità della lesione subita, ma anche il nesso causale tra la condotta e il danno e l’elemento soggettivo del dolo o della colpa), entro il più breve termine prescrizionale di cinque anni.

 

6. La rilevanza, sul piano probatorio, dell’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali.

 

Fermo quanto innanzi detto, la distribuzione degli oneri probatori, tuttavia, non può non tenere conto della rilevanza definitivamente acquisita dalle cd. linee guida e dalle cd. buone pratiche clinico-assistenziali nella valutazione della imperizia imputata dal paziente al professionista con la richiesta risarcitoria.

 La funzione delle linee guida è quella di fornire raccomandazioni volte ad assistere medici e pazienti nell’individuazione delle “modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche[28].

Ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge Gelli-Bianco gli esercenti la professione sanitaria devono attenersi alle raccomandazioni previste nelle linee guida, fatte però salve le specificità del caso concreto; in mancanza, devono attenersi alle buone pratiche (o protocolli) clinico – assisten-ziali.

Le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche: esse consistono, dunque, nell'indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e, quindi, si sostanziano in qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-assistenziale, come chiarito dalla Suprema Corte[29].

Molteplici e differenti sono le accezioni di buona pratica che è possibile ritrovare in letteratura o ricavare da esperienze di “osservatori” nazionali e internazionali. L’eterogeneità dipende essen-zialmente dall’uso che viene fatto della buona pratica e dal contesto cui questa si riferisce.

Lo scopo di una buona pratica è quello di migliorare la sicurezza del paziente. Una buona pratica può essere definita come ogni attività, procedura o comportamento riguardante percorsi assisten-ziali, basata su standard di qualità e sicurezza. Questi standard hanno origine da evidenze, da letteratura e/o da organizzazioni sanitarie. Una buona pratica necessita di indicatori specifici da monitorare nel tempo.

Il dibattito sulla valenza delle linee guida elaborate nell’area medica, con il precipuo intento di fornire ai sanitari indicazioni sulla diagnosi e la cura delle malattie, è stato fin qui particolarmente intenso sul versante della responsabilità penale e lo è vieppiù alla luce dell’art. 590-sexies c.p.

Anche in ambito civilistico, peraltro, la questione si presenta particolarmente interessante, non solo per via del fatto che la recente legislazione fa discendere dall’osservanza delle linee guida conseguenze in punto di risarcimento del danno, ma anche in ragione delle possibili ricadute sull’accertamento stesso della responsabilità del medico.

E’ bene subito precisare che la Corte di Cassazione ha affermato che le linee guida non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene (Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770: v. pure Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2017, n. 11208).  

Cassazione penale, sez. un.,  21 dicembre 2017, n. 8770  

In tema di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell' art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24 - pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia - non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all'obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l'esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene.

 

 Cassazione civile, sez. III, 9 maggio 2017, n. 11208  

In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il rispetto, da parte del sanitario, delle “linee guida” - pur costituendo un utile parametro nell’accertamento di una sua eventuale colpa, peraltro in relazione alla verifica della sola perizia del sanitario - non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta.

 

Cassazione civile, sez. III, 30 novembre 2018, n. 30998

Le c.d. linee guida sono solo un parametro di valutazione della condotta del medico, ma ciò non impedisce che una condotta difforme dalle linee guida possa essere ritenuta diligente, se nel caso di specie esistevano particolarità tali che imponevano di non osservarle.

 

 

Dalla previsione del nuovo art. 590 sexies c.p. è possibile affermare che la disposizione limita-tiva della responsabilità (nel senso della sua esclusione in capo di rispetto delle linee guida) è applicabile esclusivamente nei casi in cui si discuta della perizia del sanitario (cfr. Cass. pen., sez. IV,  19 ottobre 2017, n. 50078), non estendendosi alle condotte professionali negligenti ed imprudenti, anche perché concettualmente da escludere che le linee guida possano in qualche modo prendere in considerazione comportamenti connotati da tali profili di colpa. Così la disposizione non potrebbe trovare applicazione se il paziente ha avuto una reazione avversa ad un farmaco, nonostante l’intolleranza risultasse in cartella, letta però velocemente dal medico prescrivente e quindi negligente e neanche nel caso in cui il fondamento della colpa del sanitario si individui in una imprudente manovra del sanitario durante l’inserimento della guida metallica di un catetere vascolare.

 Già in passato l’ordinamento aveva previsto la necessaria osservanza da parte dei professionisti delle indicazioni contenute in protocolli e linee guida, ma ora la legge Gelli-Bianco lo ha fatto in maniera più strutturata a cominciare dalle fonti.

Alla luce della richiamata disposizione (art. 5. co. 1 legge Gelli-Bianco), le linee guida pro-verranno ora da enti od istituzioni pubbliche e private, i cui requisiti di accreditamento sono stati previsti ed attuati nel d. m. 2 agosto 2017[30].

Le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche.

Queste regole costituiscono vere e proprie direttive, cui occorre risalire per saggiare il corretto operato del professionista sanitario allorquando non affiorassero validi motivi per seguire altri metodi curativi, anche di natura sperimentale.

L’innegabile vantaggio delle linee guida è quello di dare determinatezza alla fattispecie col-posa, la cui condotta tipica è in definitiva interamente racchiusa nella regola cautelare.

Le linee guida recuperano quella determinatezza che invece viene sacrificata individuando la regola cautelare con un altro criterio, spesso utilizzato in giurisprudenza: l’agente modello, nel settore che qui interessa, il medico modello. Criterio alquanto vago, che si piega ad essere utilizzato sia in senso colpevolista che innocentista. Una maschera sul volto del giudice.

Applicando questo criterio, talvolta solo dalla lettura della sentenza il medico imputato ap-prende come si sarebbe dovuto comportare. E’ la sentenza che crea la tipicità della condotta, anziché una fonte esterna alla fattispecie incriminatrice e preesistente ad essa.

Grazie alle linee guida è invece dato conoscere, prima della commissione del fatto, ciò che può essere penalmente sanzionato, cioè una condotta, attiva od omissiva, difforme da esse.

Come è stato messo in evidenza [31], è estremamente importante che le linee guida e le buone pratiche siano individuate prima dell’instaurazione del processo. La massima chiarezza in tal senso consente, infatti, di articolare in maniera meno lacunosa e per questo strategicamente più forte gli scritti difensivi in punto di allegazioni e di prova.

  Altrettanto evidente, quindi, è l’importanza del ruolo che a questo fine può essere svolto dai con-sulenti tecnici. Sotto questo profilo, l’esperimento dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c. si rivela determinante per la selezione delle linee e delle best practices confacenti al caso e così l’acquisizione in giudizio della relazione peritale ove fallisca il tentativo di conciliazione.

Sennonchè le linee guida presentano anche svantaggi, perché possono fungere da scudo di medicina difensiva, nel senso che, cullando l’idea dell’impunità, il medico è indotto ad atte-nervisi sempre e comunque, anche quando il caso concreto è peculiare e impone un diverso trattamento terapeutico rispetto a quello in esse previsto. 

Ed è proprio per evitare tale inconveniente che opportunamente l’art. 5, comma 1, della legge in esame fa salva “la specificità del caso concreto”, nel senso della possibilità o necessità di allontanamento dalle linee guida, qualora il particolare quadro clinico lo imponga.

Principio del tutto condivisibile sul piano giuridico, solo che si consideri che le linee guida hanno fondamento statistico, hanno il carattere della generalità e sono quindi smentibili dal quadro clinico concreto. E ciò avviene tutt’altro che infrequentemente (ad es., pazienti diabetici, ai quali, per altre patologie, certi farmaci non vanno somministrati perché contenenti glucosio). 

L’osservanza della regola cautelare non è infatti fine a sé stessa, ma è strumentale alla tutela di un bene: se in un certo caso l’osservanza sacrifica quel bene, ben venga l’inosservanza, che risulta invece funzionale alla tutela.

In definitiva, le linee guida non possono porsi come esclusiva alternativa all’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche sulla persona assistita, in quanto permangono sempre le variabili individuali dei pazienti e tenuto conto del principio di libertà terapeutica espresso negli articoli 9, 32 e 33 della Costituzione.

In definitiva il giudice, nel giudizio sulla colpa del medico, resta, quindi, libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida oppure una condotta diversa da quella descritta nel sapere burocratizzato.

Si è detto che le linee guida, pur non avendo un valore normativo vincolante e continuando a rappresentare “raccomandazioni” suscettibili di continuo aggiornamento (in quanto tali, espressione di soft law), incidono per esplicita previsione normativa sulla valutazione della condotta del professionista ai fini penali e sulla misura del risarcimento del danno, anzi sulla stessa valuta-zione della responsabilità del medico per imperizia[32].

Tale attitudine è destinata a riverberarsi, tuttavia, anche sul contenuto degli oneri probatori almeno allorquando sia fatta valere l’imperizia del professionista

  Invero gli oneri di allegazione e prova con riguardo a tali “fonti” (certamente non del diritto) sono destinati inevitabilmente a variare a seconda del tipo di azione promossa dal paziente.

Infatti, nel giudizio di risarcimento promosso a titolo di responsabilità contrattuale, dove il pa-ziente dovrebbe limitarsi ad allegare l’inadempimento, all’esercente dovrebbe spettare la dimo-strazione dell’assenza di colpa, avendo egli tenuto una condotta corrispondente alle linee guida (o alle buone pratiche) stabilite in relazione al caso concreto oppure la necessità di discostarsene completamente a causa della specificità del caso concreto[33].

Invece, nel giudizio di risarcimento del danno promosso a titolo di responsabilità extracontrat-tuale, il paziente dovrebbe allegare e provare gli elementi della fattispecie e, quindi, anche la condotta che il professionista stesso avrebbe dovuto correttamente tenere in base alle linee gui-da tipizzate o alle buone pratiche clinico-assistenziali[34].

 LUCIANO GUAGLIONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Cass. civ, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577

[2] Cfr. Cass. civ., sez. un., 1 luglio 2002, n. 9556,  in Danno e resp., 2003, p. 97, che espressamente dichiara che con il contratto atipico di spedalità la struttura non si obbliga solo a fornire prestazioni di natura alberghiera, ma a mettere a disposizione personale medico ausiliario, paramedico, ad apprestare medicinali e tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. 

[3] Cfr. Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 571; Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2006,  n. 1698.

[4] Cfr. Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2019, n. 8461 secondo cui” In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p. , per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione « ex ante » -  del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del « più probabile che non », mentre nel processo penale vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio».

 

[5] Più in generale in materia v. Faccioli, “Presunzioni giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, in Contr. e impr., 2014, 79 ss., spec. 90 ss.; Barbarisi, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, in Contratti, 2017, 217 ss.).

[6] V., per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, 2a ed., Milano, 2012, 149.

[7] V., tra le altre, Cass. 20 ottobre 2015, n. 21177, in Ragiusan, 2016, 140; Cass. 31 luglio 2013, n. 18341, in Contratti, 2013, 897; Cass. 11 maggio 2009, n. 10743, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1276).

[8] Cfr. Cass. 16 gennaio 2009, n. 975, in Corr. giur., 2009, 1653; nello stesso senso v. pure, fra le altre, Cass. 14 febbraio 2008, n. 3520, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 948; Trib. Milano, 22 aprile 2008, in Giur. mer., 2009, 97.

[9] Cass. civ., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1979, I, 1, 953 ss.

[10] Cass. 4 marzo 2004, n. 4400, in Contratti, 2004, 1091, con nota di P. Lisi; in Foro it., 2004, I, 1403; Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, in Dir. e giustizia, 2004, fasc. 25, 32, con nota di M. Rossetti; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488, in Foro it., 2004, I, 3328, con nota di Bitetto; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297, in Foro it., 2005, I, 2479.

[11] V., fra le più recenti, Cass. 8 novembre 2016, n. 22639, in Riv. it. med. leg., 2017, 389, con nota redazionale di V. Rosito, ove ampi richiami di giurisprudenza conforme; per un approfondimento sul tema v., poi, V. Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza» della prova, in Riv. dir. civ., 2013, 1249 ss.).

[12] In Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; nello stesso senso v. poi, fra le altre, Cass. civ., 30 dicembre 2011, n. 30267; Cass. civ., 8 giugno 2012, n. 9290; Cass. civ., 12 dicembre 2013, n. 27855; Cass. civ., 22 maggio 2014, n. 11363; Cass. civ., 30 settembre 2014, n. 20547; Cass. civ., 13 ottobre 2017, n. 24073)

[13] Cfr., tra le tante, Cass. civ., 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. civ., 13 ottobre 2017, n. 24073.

[14] Cass. civ., 19 maggio 2004, n. 9471, cit.

[15] Così Cass. civ., 20 marzo 2018, n. 6850.

 

[16] V., per approfondimenti, L.P. ComoglioLe prove civili, Torino, 2010, 322 ss.; S. PattiDella prova testimoniale. Delle presunzioni. Art. 2721-2729, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2001, 87. V., invece, M. TaruffoPresunzioni. I) Diritto processuale civile, voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, XXVII, Roma, 1991; Id., La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2012, 254 ss., critico sotto l’aspetto della possibile violazione del principio del contraddittorio, dal momento che, facendo ricorso il giudice alle presunzioni soltanto in sede di decisione, non consente alla parte su cui grava l’onere probatorio del fatto impeditivo, di farvi fronte adeguatamente. Sotto questo aspetto, v. anche C. BessoLa vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1398.

[17] In Danno e resp., 2017, 696, con nota di Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale: l’inizio di una nuova storia?; ivi, 2018, p. 345, con nota di D’amico, Il rischio della causa “ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria.

[18] In Foro it., 2017, I, 557, con nota di B. Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non»; per un’analisi congiunta di questa sentenza e di quella poco sopra menzionata, v. pure Id., Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, in Danno e resp., 2018, 14 ss.).

[19] Cfr. Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale, cit., 705; Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non», cit., 564; Id., Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, cit., 20).

[20] In senso diverso v., però, D’amico, op. cit., p. 354 ss.

[21] Cfr. Pardolesi - Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta!, in Danno e resp., 2018, 10 ss.

[22]  Come evidenzia G. Miotto, op. cit., 1916 ss.; per analoghi rilievi, v. pure Nocco, Il nesso causale e la responsabilità sanitaria: un itinerario in perenne evoluzione, in Danno e resp., 2012, 953)

[23]  Nucci, La distribuzione degli oneri probatori nella responsabilità sanitaria: “qualificato inadempimento” e prova del nesso causale, in Resp. med., 2017, 529; Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale, cit., 708).

[24] Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non», cit., 564; Id., Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, cit., 21 s.).

[25] V. Trib. Torino, sez. IV, 18 febbraio 2019 , n. 722;  App. Milano, sez. II, 15 febbraio 2019, n. 698; Trib. Roma, sez. XIII, 8 febbraio 2019, n. 2934. Trib. Lecce, sez. I, 16 gennaio 2019, n. 132 secondo cui in tema di danni da responsabilità professionale medica, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza..

[26] Tassone, Responsabilità contrattuale, prova del nesso, concause e «più probabile che non», cit., 566; Id., Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, cit., 25)

[27] Cfr. Trib. Napoli, sez. VIII , 14 marzo 2019, n. 2775, secondo cui Nelle cause di responsabilità professionale del medico ovvero della struttura sanitaria deve ritenersi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, deve provare il contratto ed allegare l’inadempimento del sanitario o della struttura, restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto della prestazione sanitaria, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la citata prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile”.

[28] Cfr. S. CalvigioniLinee guida e buone pratiche clinico-assistenziali, in I profili processuali della nuova disciplina sulla responsabilità sanitaria, a cura di A.D. De Santis, p. 205 ss.

[29] Cfr. Cass. pen,, sez. IV, 22 giugno 2018, n.47748, secondo cui “In materia di responsabilità professionale del medico, il disposto dell'articolo 590-sexies, introdotto dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta "legge Gelli-Bianco") è subordinato, nella sua operatività all'emanazione di lenee-guida "come definite e pubblicate ai sensi di legge". La norma richiama, infatti, l'articolo 5 della stessa legge, che detta un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee-guida, di guisa che, in mancanza di lenee-guida approvate ed emanate mediante il procedimento di cui al citato articolo 5, non può farsi riferimento all'articolo 590-sexies de codice penale, se non nella parte in cui questa norma richiama le "buone pratiche clinico-assistenziali". Ne deriva che la possibilità di riservare uno spazio applicativo all'articolo 590-sexies del codice penale è ancorata all'opzione ermeneutica consistente nel ritenere che le linee-guida attualmente vigenti, non approvate secondo procedimento di cui all'articolo 5 della legge n. 24 del 2017. possano venire in rilievo, nella prospettiva delineata dalla norma in esame, come buone pratiche clinico-assistenziali. Opzione ermeneutica non agevole ove si consideri che le linee guida differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche: esse consistono, dunque, nell'indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e, quindi, si sostanziano in qualcosa dimolto diverso da una semplice buona pratica clinico-assistenziale”.

[30] In particolare, il testo del decreto ministeriale ha previsto espressamente che “è istituito presso il Ministero della salute l’elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, che entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto (2 agosto 2017), dovranno presentare al Ministero della Salute istanza di iscrizione all’elenco e, da ultimo, dovranno essere in possesso dei seguenti requisiti: a) rilevanza di carattere nazionale, con sezione ovvero rappresentanza in almeno dodici regioni e provincie autonome; b) rappresentatività di almeno il 30% dei professionisti non in quiescenza nella specializzazione o nella disciplina, previste dalla normativa vigente, o nella specifica area o settore di esercizio professionale; c) atto costitutivo redatto per atto pubblico e statuto, dai quali si evincano gli elementi di cui al punto b)”.

Successivamente, con dm 27 febbraio 2018 è stato istituito il Sistema nazionale linee guida (Snlg).

[31] S. CalvigioniLinee guida e buone pratiche clinico-assistenziali, cit., p. 210.

[32] Secondo C. MasieriNovità in tema di responsabilità sanitaria, cit., 760, le linee guida certificate dall’Istituto superiore di sanità non necessitano di «ulteriore vaglio di validità scientifica in sede giudiziale», trattandosi di documenti che si pongono come «elemento di informazione principale del giudice, e – ove siano applicabili alle “specificità del caso concreto” – sembrano destinati a restringere in qualche misura il ruolo del consulente tecnico d’ufficio, che – rispetto all’individuazione del criterio di giudizio della condotta medica – non potrebbe discostarsi dagli standard da essi indicati».

[33] Cfr. M. FranzoniColpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 279, nonché S. Calvigioniop. ult. loc. cit.

[34] Cfr. G. Montanari VergalloLa nuova responsabilità medica, cit., 25. Secondo S. CalvigioniLinee guida, cit., 212, l’attività difensiva dell’esercente volta a dimostrare che la linea guida o la buona pratica indicata dal danneggiato è stata seguita correttamente oppure che è stata seguita una diversa linea o buona pratica, configura l’esercizio di una mera difesa.

 

 

 
 
 
 
 
 

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