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EUROPA

Corti di giustizia europee e legislatore sovranazionale alle prese con il tema delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

  Europa 
 giovedì, 10 dicembre 2015

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Dr. Paolo Bruno
Consigliere per la Giustizia e gli affari interni

 
 

 

 

Considerazioni introduttive.

La Corte di Strasburgo ha avuto occasione nell’ultimo quindicennio di pronunciarsi sul tema dei diritti delle coppie omosessuali con alcune decisioni che hanno affrontato il problema del loro inquadramento legale sotto vari profili, ma solo di recente è pervenuta per la prima volta ad affermare nettamente che la mancata predisposizione in uno Stato membro di un quadro legale uniforme attributivo di diritti alle coppie predette in alternativa al matrimonio costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU[1].

L’art. 8 della Convenzione è stato oggetto di molteplici interventi dei Giudici di Strasburgo i quali hanno elaborato dei criteri per la verifica della sua “tenuta” e della legittimità degli interventi pubblici nella sfera privata e familiare dei cittadini[2] di cui oltre si dirà.

Ma i tentativi di ricondurre ad unità il variegato panorama degli approcci nazionali in tale materia non si è limitato alle prese di posizione della giurisprudenza, essendo in corso di negoziato – oramai da alcuni anni – anche due proposte di Regolamento del Consiglio relative – rispettivamente - alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e di effetti patrimoniali delle unioni registrate che, nelle intenzioni del Legislatore europeo, dovrebbero completare il quadro del diritto di famiglia europeo[3].

Seppure limitate alle conseguenze patrimoniali di entrambi gli istituti, tali Proposte testimoniano della volontà politica di raggiungere uno stadio evolutivo ulteriore rispetto a quello attuale contrassegnato da una netta distanza tra i medesimi, non solo dal punto di vista sostanziale ma anche sotto il profilo degli effetti patrimoniali.

 

Le prime pronunce delle Corti europee.

In una delle prime occasioni in cui una Corte europea si è occupata del tema[4], nello specifico su una richiesta di riconoscimento della convivenza tra due omosessuali al fine di ottenere il beneficio dell’assegno di famiglia previsto dallo Statuto del personale delle Comunità Europee, la Corte di Lussemburgo aveva respinto la domanda sostenendo che “ (…) è pacifico che il termine «matrimonio», secondo la definizione comunemente accolta dagli Stati membri, designa un'unione tra due persone di sesso diverso. È altresì vero che dal 1989 un numero sempre maggiore di Stati membri ha istituito, a fianco del matrimonio, regimi legali che accordano un riconoscimento giuridico a forme diverse di unione tra conviventi dello stesso sesso o di sesso diverso, attribuendo a tali unioni taluni effetti identici o paragonabili a quelli del matrimonio, tanto fra i conviventi quanto nei confronti dei terzi. È chiaro tuttavia che, a parte la loro estrema eterogeneità, i suddetti regimi di registrazione di relazioni di coppia fino ad allora non riconosciute dalla legge sono, negli Stati membri interessati, distinti dal matrimonio”.

Sviluppando detto ragionamento, la Corte nel caso concreto aveva concluso nel senso che stante l’estrema eterogeneità normativa e la mancanza generale di equiparazione tra il matrimonio, da un lato, e le altre forme di unione legale, dall'altro, “la situazione di un dipendente che ha fatto registrare un'unione stabile in Svezia non può essere considerata analoga, ai fini dell'applicazione dello Statuto, a quella di un dipendente coniugato”, così respingendo il motivo di ricorso attinente alla parità di trattamento ed alla discriminazione in base al sesso ai sensi dell’art.119 del Trattato CE.

Con la sentenza Karner vs. Austria[5], la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha invece affermato che le differenze basate non solo sul sesso ma anche sull’orientamento sessuale necessitano di un serio fondamento perché siano giustificabili ed aveva concluso – nel caso specifico – per l’esistenza del diritto di successione nel contratto di locazione del partner che sopravvive in una coppia dello stesso sesso, senza però risolvere la questione se si trattasse di tutela anche della vita familiare.

Un’analoga tendenza ad estendere il concetto di vita familiare al rapporto di convivenza fra persone dello stesso sesso la si è più tardi rinvenuta con la decisione della Corte di giustizia di Lussemburgo del 7 gennaio 2004, in causa C-117/01, K.B. v. National Health Service Pensions Agency che ha riconosciuto al transessuale il diritto ad ottenere la pensione di reversibilità (affermando la contrarietà al diritto comunitario della legislazione del Regno unito che non consentiva di contrarre matrimonio al transessuale che avesse mutato sesso) e con la decisione della stessa Corte dell’1 aprile 2008, causa C-267/06, Tadao Makuro v. VddB, che ha affermato analogo diritto per il partner di un’unione omosessuale riconosciuta laddove, a giudizio della Corte remittente, quest’ultimo si trovi in una situazione sostanzialmente uguale a quella del coniuge in base al diritto nazionale.

Successivamente, nella sentenza Schalk and Kopf vs Austria[6] la Corte di Strasburgo, sviluppando l’orientamento già emerso in Karner vs. Austria di cui sopra, ha riconosciuto che la nozione di “vita familiare” (e non solo quella di “vita privata”, come precedentemente più volte ribadito) ben può estendersi anche al ménage di una coppia omosessuale, ed ha espressamente considerato “artificioso” mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla ‘vita familiare’ ai sensi dell’art. 8.

In tale occasione la Corte era stata adita al fine di sentire dichiarare come discriminatorio l’atteggiamento delle autorità austriache che, rifiutando l’accesso alle pratiche per la costituzione di una unione coniugale omosessuale, avevano avallato una lettura delle norme nazionali tendente a riservare alle coppie eterosessuali l’accesso al matrimonio; in tale contesto i ricorrenti avevano offerto una lettura “evolutiva” dell’art.12 CEDU[7] alla luce dei mutamenti sociali e legislativi negli Stati parte del Consiglio d’Europa.

Tuttavia in questa occasione la Corte aveva stabilito che il rapporto tra due conviventi omosessuali, uniti stabilmente alla stregua di una coppia di fatto, rientra nella nozione di ‘vita familiare’, così come sarebbe se si trattasse di una coppia di persone di sesso opposto che si trovassero nella stessa situazione, ma aveva respinto la domanda dei ricorrenti osservando – da un lato – come l’intervenuta adozione, medio tempore[8], di una legislazione nel senso auspicato dai ricorrenti avesse in un certo senso fatto cessare la materia del contendere, e – dall’altro – come dall’analisi delle normative degli Stati che hanno adottato una regolamentazione della materia non potesse ricavarsi un orientamento condiviso sulla opportunità di estendere alle coppie omosessuali il diritto di contrarre matrimonio.

Nella successiva pronuncia Vallianatos vs Greece[9], invece, la Corte si è trovata ad affrontare il diverso problema della sussistenza di una legge nazionale che ammetteva le sole coppie eterosessuali all’istituto dell’unione registrata, ravvisando in tale opzione normativa una violazione dell’art.14, in relazione all’art.8, della CEDU.

In tale occasione i Giudici di Strasburgo, mostrando di non ritenere essenziale il requisito della coabitazione che invece aveva caratterizzato la decisione Schalk and Kopf sopra citata, hanno esteso alle coppie omosessuali che per ragioni sociali e professionali non coabitano la nozione di “vita familiare”; anche in questo caso, tuttavia, essi si sono premurati di precisare che nell’oggetto del giudizio non rientrava la questione dell’esistenza di un obbligo generale dello Stato di prevedere un quadro legale per le coppie omosessuali.

I tempi non erano ancora maturi, dunque, per entrare nel vivo del problema, come più tardi avverrà con Oliari ed altri contro Italia di cui si dirà oltre.

 

Orbene, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la verifica della “tenuta” dell’art.8 CEDU e della legittimità degli interventi pubblici nella sfera privata e familiare dei cittadini va effettuata alla luce di alcuni fattori[10], tra cui l'impatto sul ricorrente di una situazione caratterizzata da un disallineamento, una discrepanza tra la realtà sociale e la legge, anche alla luce della coerenza delle pratiche amministrative e legislative all'interno dell'ordinamento nazionale[11] ed altri che invece concernono l'impatto del preteso obbligo positivo in questione sullo Stato interessato (in termini di sostenibilità dell’intervento richiesto).

Detti indici sintomatici della possibile violazione dell’art. 8 vanno tuttavia ponderati in funzione del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati, la cui ampiezza varia in considerazione delle circostanze di fatto. Al riguardo la Corte ha più volte avuto modo di rilevare che laddove sia in gioco un aspetto particolarmente importante per l’esistenza e/o l’identità di un individuo il margine concesso allo Stato è ristretto, mentre laddove non vi sia un consensus all’interno degli Stati membri del Consiglio d’Europa, o quanto all'importanza relativa degli interessi in gioco, o quanto ai mezzi migliori di proteggerlo, in particolare dove il caso suscita questioni moralmente e politicamente sensibili, il margine è destinato ad essere più ampio.

Solitamente vi è un margine ampio se si richiede allo Stato di trovare un punto di equilibrio tra interessi in conflitto, privati e pubblici, o diritti derivanti dalla Convenzione.

La svolta nella giurisprudenza della Corte EDU: Oliari ed altri contro Italia.

Nell’applicare tali concetti generali al tema specifico della regolamentazione delle unioni civili nel nostro ordinamento, nel recente caso Oliari ed altri contro Italia, la Corte ha constatato: la mancanza di uno specifico quadro legale di riconoscimento delle unioni omosessuali; l’inutilità o insufficienza degli strumenti amministrativi approntati per venire incontro alle esigenze di protezione delle coppie dello stesso sesso; la non necessità del requisito della coabitazione, per riconoscere il godimento di altri e più ampi diritti; l’esistenza di un quadro giurisprudenziale non chiaro e la complessità del sistema giudiziario; la mancata indicazione in giudizio, da parte del Governo italiano, di ragioni ostative all’invocato riconoscimento legale; l’esistenza di un continuo trend non solo oltre oceano[12] ma anche tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa verso il riconoscimento delle unioni civili, ed infine la mancata reazione del Parlamento alle varie sollecitazioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.

Traendo spunto da due ricorsi originati dal rifiuto delle Autorità italiane di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste da alcune coppie omosessuali, con la decisione di cui si discorre la Corte di Strasburgo interviene in modo deciso sulla vexata quaestio del riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso rilevando nel sopra citato rifiuto una violazione dell’art. 8 Cedu ed imponendo per la prima volta su uno Stato un obbligo positivo di legiferare in materia per garantire un quadro normativo coerente alla “situazione di fatto” vissuta dai ricorrenti. La sentenza della Quarta Sezione, divenuta definitiva il 21.10.2015, segna dunque un’accelerazione della giurisprudenza in materia nonché un punto a favore dell’equiparazione dei diritti delle coppie omosessuali a quelli delle coppie eterosessuali ma fa sorgere alcuni interrogativi sull’ambito di intervento della Corte e sui delicati rapporti tra esercizio della giurisdizione e discrezionalità del legislatore al cospetto di tematiche di straordinaria sensibilità, lasciando peraltro intravedere futuri ed ancor più problematici sviluppi.

Il percorso argomentativo della Corte muove dall’elaborazione del concetto di rispetto della vita personale e familiare di cui all’art. 8 (1) della Convenzione EDU [“ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”] il cui nucleo essenziale è la protezione degli individui dalle interferenze arbitrarie delle pubbliche autorità ma la cui declinazione pratica arriva a contemplare l’esistenza di “obblighi positivi impliciti” finalizzati a rendere effettivo il diritto al rispetto della vita familiare.

Teorizzata per la prima volta nel caso Belgian Linguistic[13], ma sviluppata compiutamente solo a partire dal 1979[14] e da allora penetrata in tutti gli ambiti della Convenzione, tale dottrina implica l’esistenza di obblighi degli Stati di agire nei confronti di parti private e di garantire diritti o benefici che non sono tuttavia esplicitamente previsti dalla Convenzione, e finanche di assicurare la protezione di diritti individuali nei rapporti tra singoli[15].

Tuttavia, non avendo la Corte mai offerto una teoria generale degli obblighi positivi, essa va ricostruita tramite l’analisi dei casi concreti in cui è stata applicata e dai quali è possibile estrapolare tre fattori - tra loro collegati - che possono costituirne il minimo comune denominatore: 1) l’attività esaminata dalla Corte deve toccare il cuore, l’essenza più profonda del diritto in esame[16]; 2) un obbligo positivo può essere imposto in quelle circostanze in cui può ragionevolmente attendersi che uno Stato si attivi per la protezione del diritto del ricorrente[17]; 3) occorre dare uno sguardo alla diversità delle azioni intraprese dagli altri Stati contraenti[18].

Ciò posto, deve rilevarsi come i due elementi portanti del ragionamento della Corte di Strasburgo, risiedano - da una parte - nella constatazione dell’esistenza di un “broad consensus” in Italia e di un “continuing international movement towards legal recognition” tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, ai quali essa “non può che attribuire importanza” ma che sembrano a chi scrive meno evidenti di quanto non appaiano ai Giudici di Strasburgo; dall’altra, nella mancata reattività del Legislatore italiano rispetto ai richiami della giurisprudenza interna, di legittimità e costituzionale.

Si tratta di elementi in verità piuttosto fragili, se solo si osserva che il primo viene rinvenuto negli esiti di un sondaggio eseguito su un limitato campione di famiglie italiane ed il secondo sulla scorta di dati non molto diversi da quelli che – solo pochi anni prima – avevano indotto la stessa Corta a ritenere che

c’è un consenso europeo emergente verso il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso. Nondimeno, non vi è ancora una maggioranza di Stati che prevedono un riconoscimento legale (…). Il tema in questione deve dunque essere ancora considerato come uno di quei diritti in evoluzione a riguardo del quale non vi è ancora un consenso consolidato, e dove gli Stati ancora godono di un margine di apprezzamento quanto al momento in cui introdurre delle modifiche legislative[19].

Ma vi è un altro elemento che la Corte di Strasburgo ha valorizzato nel suo percorso argomentativo, ed è quello del mancato dialogo tra Giudici nazionali e Legislatore, o meglio della mancata reazione del secondo rispetto alle sollecitazioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità come esempio di cattivo uso del margine di apprezzamento riservato dalla Convenzione agli Stati membri in tema di protezione della vita privata e familiare.

Orbene, rispetto alla lamentata inerzia del Parlamento rispetto alle sollecitazioni delle più alte Corti nazionali, pare opportuno notare come gli stessi Giudici di Strasburgo ammettano che lo Stato italiano ha tentato varie volte - nell’arco degli ultimi tre decenni - di approvare delle proposte di legge e che un testo unificato, già approvato in Senato nel 2015 come base per il successivo dibattito in Commissione Giustizia, era stato poi approvato il 10 giugno 2015 alla Camera. La decisione in commento arriva dunque, e paradossalmente, proprio alla vigilia di quello che sembra essere il rush finale del nostro Legislatore verso l’approvazione del tanto auspicato quadro normativo la cui mancanza viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei ricorrenti.

 

Le proposte di Regolamento UE sulle conseguenze economiche delle unioni registrate.

Che il percorso di riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali fosse più impervio di quanto dalla stessa Corte rimarcato era peraltro emerso in tutta la sua evidenza sin dalle prime mosse dei negoziati, iniziati nel marzo 2011 con la presentazione da parte della Commissione europea al Consiglio ed al Parlamento, delle due Proposte di Regolamento [20] “gemelle” in materia di regimi patrimoniali dei matrimoni e delle unioni registrate: negoziati che segnano il passo da anni proprio per le resistenze opposte da alcuni Stati membri preoccupati dal fatto che (anche solo) il riconoscimento e la disciplina del regime patrimoniale potesse aprire la via ad un implicito riconoscimento sostanziale dell’istituto giuridico presupposto (evidentemente, tanto il matrimonio quanto l’unione registrata omosessuale).

Le due proposte nascono sulla scia della decisione del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 che ha avallato il principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e altre decisioni delle autorità giudiziarie quale pietra angolare della cooperazione giudiziaria in materia civile, invitando il Consiglio e la Commissione ad adottare un programma di misure per l’attuazione di tale principio; conseguentemente, il 30 novembre 2000 è stato adottato un programma[21] di misure relative all’attuazione del principio del riconoscimento reciproco delle decisioni in materia civile e commerciale, comune alla Commissione e al Consiglio, che ravvisava nelle misure relative all’armonizzazione delle norme sul conflitto di leggi “misure che facilitano il reciproco riconoscimento delle decisioni” e prevedeva tra l’altro l’elaborazione di uno strumento in materia di regime patrimoniale tra coniugi e di conseguenze patrimoniali della separazione delle coppie non sposate.

Per quanto particolarmente attiene alle c.d. registered partnerships ricomprese nel suo ambito di applicazione, la proposta di Regolamento prevede che in conformità all'articolo 81 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea, il futuro strumento normativo si applichi nel contesto degli effetti patrimoniali delle unioni registrate con implicazioni transnazionali (senza specificare se omo od eterosessuali, e dunque abbracciandole entrambe).

Alla base della Proposta vi è naturalmente l’esigenza di garantire alle coppie non sposate la certezza del diritto quanto ai loro beni e una certa prevedibilità, per cui la Commissione ha ritenuto opportuno riunire in un solo strumento tutte le norme applicabili agli effetti patrimoniali delle unioni registrate.

Solo la nozione di "unione registrata" viene definita ai fini esclusivi del Regolamento[22] mentre il suo contenuto specifico dovrebbe continuare ad essere definito dal diritto interno degli Stati membri ed a tal fine è chiaramente precisato in un Considerando che “nulla nel presente regolamento dovrebbe imporre a uno Stato membro la cui legge non contempla l'istituto dell'unione registrata di prevederlo nel diritto nazionale”.

La particolare sensibilità della materia trattata è ulteriormente testimoniata dal fatto che la Proposta afferma chiaramente come lo strumento legislativo di cui trattasi non si dovrebbe applicare ad altre questioni preliminari quali l'esistenza, la validità o il riconoscimento di un'unione registrata, che sono disciplinate dal diritto nazionale degli Stati membri, comprese le loro norme di diritto internazionale privato. Poiché inoltre l'istituto dell'unione registrata non è previsto in tutti gli Stati membri, la Proposta prevede che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro il cui diritto non contempli tale istituto possano, in via eccezionale, dichiararsi incompetenti ai sensi del regolamento.

In tali situazioni, peraltro, le autorità giurisdizionali sono richieste di agire rapidamente ed è previsto che alle parti sia data la possibilità di ripresentare la domanda in qualsiasi altro Stato membro competente in base ad un criterio di collegamento, indipendentemente dall'ordine di tali criteri di competenza, nel rispetto dell'autonomia delle parti.

A tale proposito, onde prevenire situazioni di diniego di giustizia, è prevista l’introduzione di una norma di competenza sussidiaria per il caso in cui nessuna autorità giurisdizionale sia competente a conoscere della fattispecie alla luce delle altre disposizioni del futuro Regolamento, e di un forum necessitatis che, in casi eccezionali, consenta all'autorità giurisdizionale di uno Stato membro di decidere su un regime patrimoniale tra coniugi che abbia uno stretto collegamento con uno Stato terzo[23].

In presenza di circostanze eccezionali, per ragioni di interesse pubblico, quali la salvaguardia dell'organizzazione politica, sociale o economica, le autorità giurisdizionali e altre autorità competenti degli Stati membri potranno – se e quando il Regolamento sarà in vigore – applicare eccezioni basate su norme “di applicazione necessaria” il cui concetto dovrebbe comprendere norme di carattere imperativo quali quelle relative alla protezione della casa familiare. È tuttavia precisato che questa eccezione all'applicazione della legge applicabile agli effetti patrimoniali delle unioni registrate dovrebbe essere interpretata restrittivamente per essere compatibile con l'obiettivo generale del presente regolamento.

Secondo l’ultima versione del testo negoziato dagli Stati, in presenza di circostanze eccezionali, per ragioni di interesse pubblico le autorità giurisdizionali e altre autorità degli Stati membri competenti in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate potranno disapplicare determinate disposizioni di una legge straniera qualora, in una precisa fattispecie, l'applicazione di tali disposizioni risultasse manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico dello Stato membro interessato; tuttavia, alle autorità giurisdizionali o alle altre autorità competenti non è consentito di avvalersi dell'eccezione di ordine pubblico per disapplicare la legge di un altro Stato ovvero per rifiutare di riconoscere — o, se del caso, accettare — o per eseguire una decisione, un atto pubblico o una transazione giudiziaria emessi in un altro Stato membro, qualora ciò avvenisse in violazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in particolare del suo articolo 21 che vieta qualsiasi forma di discriminazione.

Orbene, nemmeno l’introduzione di tali salvaguardie ha consentito di evitare che durante il Consiglio Giustizia ed Affari interni del 3 Dicembre 2015 si registrasse, dopo oltre quattro anni dall’inizio del negoziato, la mancanza di unanimità necessaria – ai sensi dell’art.81 (3) TFUE – per raggiungere l’accordo politico, ed alla Presidenza di turno lussemburghese non è restato che constatare formalmente l’impossibilità di raggiungerla in tempi ragionevoli.

Starà ora alla Presidenza olandese, che debutterà il 1 gennaio 2016, compiere - in collaborazione con la Commissione - i passi necessari per verificare la possibilità di avviare una cooperazione rafforzata in virtù di quanto previsto dall’art.20 TUE.

 

Quali prospettive dopo la pronuncia della Corte?

Dalla breve disamina dello stato dell’arte del dibattito sovranazionale è possibile apprezzare la problematicità di trovare un denominatore comune alle varie sensibilità nazionali, e ciò sia a livello normativo che giurisprudenziale.

Il quadro giuridico del diritto di famiglia europeo, già con molta difficoltà arricchito dalle norme in tema di legge applicabile al divorzio ed alla separazione personale,[24] stenta a completarsi non solo per motivi legati alle diffidenze che ancora perdurano circa l’affidabilità degli ordinamenti giuridici degli Stati membri ma anche per ragioni più profonde, legate alle differenze culturali che rendono talvolta evidente l’enorme distanza che all’interno dello stesso Continente si registra rispetto a tematiche che coinvolgono istituti millenari e toccano l’identità dei popoli.

Nell’attesa di un segnale forte del legislatore europeo, la sentenza Oliari ed altri c. Italia ha dunque da un lato il pregio di affrontare sia il nodo controverso del dialogo (e della sua assenza) tra giudici e legislatore sia l’attuale stato dell’arte a livello europeo ed internazionale, ma d’altro canto presenta delle evidenti lacune: poggia su basi non solidissime, come si è avuto modo di rilevare nella sia pur succinta analisi del decisum, ed evita di pronunciarsi sulla lamentata violazione dell’art. 14 CEDU, lasciando così aperto il campo alla possibilità di una “geometria variabile” nel riconoscimento di tali diritti nei diversi Paesi membri del Consiglio d’Europa.

Ed invero all’indomani della pronuncia in discorso resta aperto almeno un altro interrogativo e possono intravedersi gli sviluppi, a questo punto quasi certi nell’an ma incerti nel quando, della giurisprudenza della Cedu.

L’interrogativo nasce dalla constatazione che i Giudici hanno, inspiegabilmente, omesso di prendere in considerazione il motivo di impugnazione relativo al divieto di discriminazione [25] in relazione al già esaminato art. 8. I ricorrenti avevano infatti dedotto che, ammesso e non concesso che la Convenzione non legittimi l’accesso al matrimonio per le coppie omosessuali, essi dovevano ritenersi (quantomeno indirettamente) discriminati sulla base del loro orientamento sessuale laddove alcuni diritti loro negati erano invece riconosciuti alle coppie eterosessuali sposate.

Ebbene, la Corte “avuto riguardo alle conclusioni raggiunte in relazione all’art. 8” ha considerato “non necessario” l’esame di tale ulteriore motivo, compiendo un decisivo passo indietro rispetto alla propria giurisprudenza consolidata in tema di non discriminazione per ragioni di orientamento sessuale ed allo stesso tempo lasciando al lettore il dubbio che tale ritrosia possa essere legata al timore di compiere un passo “obbligato” ma forse troppo “lungo”.

Ed invero, spostando il focus della decisione sulla peculiarità della situazione italiana (considerazione sociale delle coppie omosessuali, scollamento tra tale opinione e la realtà giuridica, inadeguatezza del sistema giudiziario a garantire prontamente ed efficacemente i diritti di tali coppie) la Corte ha adottato una decisione che non necessariamente potrà essere utilizzata quale valido precedente nei confronti di un qualsiasi altro Stato in cui - ad esempio - il dibattito sociale e culturale non abbia raggiunto i livelli di maturazione di quello italiano o la sensibilità collettiva riscontrata dai Giudici di Strasburgo, ovvero il cui sistema giudiziario sia meno congestionato del nostro[26].

Ammettere invece (come peraltro dalla stessa motivazione appare evidente agli occhi dei Giudici) che nel caso di specie i ricorrenti sono stati discriminati unicamente per motivi di orientamento sessuale potrebbe verosimilmente aprire la porta ad altri motivi di ricorso legati - ad esempio - al divieto di contrarre matrimoni poligamici o con minori, rispetto a comunità che invece tali istituti conoscono e che, in una società sempre più massicciamente multietnica come quella europea, hanno raggiunto numericamente una consistenza tale da far dubitare che possano essere definite “minoranze” nell’accezione comune del termine se paragonate al numero delle coppie omosessuali emergente dai pochi dati statistici disponibili[27].

Occorrerà dunque attendere la prossima occasione in cui la Corte sarà chiamata a pronunciarsi sulle medesime questioni, per verificare l’orientamento dei Giudici di Strasburgo anche con riguardo a tale aspetto; tuttavia non pare azzardato affermare, nel seguire il percorso argomentativo della Corte, che una volta abbattuta anche la barriera del riconoscimento giuridico dei diritti delle coppie omosessuali in rapporto a quelli goduti dalle coppie eterosessuali, l’approdo successivo - ovvero quello della legittimazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso[28] - sia più vicino di quanto la stessa Corte non voglia lasciare intendere.

Sarà a quel punto interessante osservare con quali argomentazioni i Giudici di Strasburgo imporranno allo Stato convenuto un obbligo positivo implicito di ben più ampia portata.

 

 

 

Paolo Bruno

Consigliere per la Giustizia e gli affari interni

Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea

 



[1] Cfr Cedu, 21 luglio 2015, IV Sezione, Oliari ed altri c. Italia, nn. 18766/11 e 36030/11 in www.echr.coe.int.

[2] Sul tema, tra gli innumerevoli contributi, cfr. Ragni, L’influenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sullo sviluppo del diritto dell’UE in materia di trattamento delle coppie omosessuali, in AA.VV., La protezione dei diritti fondamentali. Carta dei diritti UE e standards internazionali, a cura di L.S. Rossi, Napoli 2011; Schuster, Le unioni fra persone dello stesso genere nel diritto comparato ed europeo, in AA.VV., Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, a cura di B. Pezzini - A. Lorenzetti, Napoli 2011; Conti, Alla ricerca del ruolo dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Politica del diritto, 2013, 1-2; Tonolo, Le unioni civili nel diritto internazionale privato, Milano, 2007.

[3] COM (2011) 126 FINAL e COM (2011) 127 FINAL del 16.03.2011.

[4] Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea,  31 maggio 2001, cause riunite C-122/99, C-125/99,  P.D. vs Regno di Svezia, §§ 34-52.

[5] Cfr. Cedu, 24 luglio 2003, I sezione, Karner vs Austria, n.40016/98 in www.echr.coe.int.

[6] Cfr. Cedu, Schalk and Kopf vs. Austria, Grande Camera, 24 giugno 2010,  n. 30141/04, in www.echr.coe.int.

[7] Art.12. Diritto al matrimonio. “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio,  l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”.

[8] Il 1 gennaio 2010 era stato difatti approvato l’Austrian Registered Partnership Act che istituisce la possibilità per tutte le coppie, a prescindere quindi dalla identità sessuale dei partner, di registrare la loro unione e di ottenere in forza di tale adempimento la concessione di diritti e vantaggi in larga misura equivalenti a quelli attribuiti alle persone sposate.

[9] Cfr. Cedu, Vallianatos and others vs Greece, Grande Camera, 7 novembre 2013, nn.29381/09 and 32684/09.

[10] Cfr. Cedu 16 luglio 2014, Grande Camera, Hämäläinen v. Finland, n. 37359/09, § 66, in www.echr.coe.int.

[11] Cfr., mutatis mutandis, Cedu 11 luglio 2002, Christine Goodwin vs UK, §§ 77-78; I. v. UK, 11 luglio 2002, n. 25680/94, § 58 e Hämäläinen, cit., § 66 in www.echr.coe.int.

[12] Davvero degno di nota, in quanto espressione di un inusuale “dialogo intercontinentale” tra Corti, è qui il richiamo (cfr. § 65) alla recente e storica sentenza con cui la Corte Suprema USA ha stabilito che il matrimonio è un diritto garantito dalla Costituzione anche alle coppie omosessuali e che tutti gli Stati federati devono permettere a due persone dello stesso sesso di sposarsi e riconoscere i matrimoni omosessuali contratti da qualsiasi parte nel Paese. Cfr. Supreme Court of the United States, James Obergefell et al., Petitioners v. Richard Hodges, Director, Ohio Department of Health, et al., 26 giugno 2015, 576 U.S. in http://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-556_3204.pdf.

[13] Cfr. Cedu 23 luglio 1968, Case relating to certain aspects of the laws on the use of languages in education in belgium” v. Belgium, n. 2126/64, in www.echr.coe.int.

[14] Cfr. Cedu 13 giugno 1979, Grande Camera, Marckx v. Belgium, n. 6833/74, § 31, in Foro it., 1979, 341 “By proclaiming in paragraph 1 the right to respect for family life, Article 8 (art. 8-1) signifies firstly that the State cannot interfere with the exercise of that right otherwise than in accordance with the strict conditions set out in paragraph 2 (art. 8-2). As the Court stated in the “Belgian Linguistic” case, the object of the Article is “essentially” that of protecting the individual against arbitrary interference by the public authorities (judgment of 23 July 1968, Series A no. 6, 33, 7). Nevertheless it does not merely compel the State to abstain from such interference: in addition to this primarily negative undertaking, there may be positive obligations inherent in an effective “respect” for family life.

This means, amongst other things, that when the State determines in its domestic legal system the regime applicable to certain family ties such as those between an unmarried mother and her child, it must act in a manner calculated to allow those concerned to lead a normal family life. As envisaged by Article 8 (art. 8), respect for family life implies in particular, in the Court’s view, the existence in domestic law of legal safeguards that render possible as from the moment of birth the child’s integration in his family. In this connection, the State has a choice of various means, but a law that fails to satisfy this requirement violates paragraph 1 of Article 8 (art. 8-1) without there being any call to examine it under paragraph 2 (art. 8-2)”.

[15] Cfr. Cedu 26 marzo 1985, Grande Camera, X and Y v. The Netherlands, n. 8978/80, §23, in www.echr.coe.int.

[16] Nel caso dell’art. 8 della Convenzione, il diritto vantato deve riguardare un aspetto importante della vita privata o della identità personale e deve esserci una relazione immediata e diretta tra misura richiesta e vita privata del ricorrente: cfr. Cedu 21 giugno 2006, Grande Camera, Draon vs France, n. 1513/03, in www.echr.coe.int.

[17] Va ad esempio valutato se l’obbligo imposto implicherebbe costi eccessivi per lo Stato rispondente: cfr. Cedu, Grande Camera, Fadeyeva v. Russia, 9 giugno 2005, n. 55723/00, § 89, in www.echr.coe.int.

[18] Un fattore decisivo ai fini di tale valutazione è il riscontro di un vasto consenso tra gli Stati parti del Consiglio d’Europa, ovvero a livello internazionale, sull’importanza dell’interesse dedotto in causa e sui mezzi per assicurarne la soddisfazione.

[19] Cfr. Cedu del 24 giugno 2010, Grande Camera, Schalk and Kopf v. Austria, n. 30141/04, § 105 in www.echr.coe.int. Nel 2010, epoca della redazione della sentenza Schalk and Kopf  sopra citata, la proporzione tra Stati membri del CoE dotati di legislazione in materia e Stati sprovvisti era di 19 su 47 e dunque appena 5 in meno rispetto al momento della decisione di Oliari ed altri, ma - nonostante lo scenario internazionale non fosse così distante da quello attuale - la Corte decise di non sanzionare lo Stato convenuto sul rilievo che “benché non fosse all'avanguardia, il legislatore austriaco non potesse essere censurato per non avere approvato la legge sulla partnership registrata prima del 2010”.

[20] COM(2011) 126 FINAL del 16 marzo 2011: Proposta di Regolamento relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi, e COM(2011) 127 FINAL del 16 marzo 2011: Proposta di Regolamento relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate.

[21] GU C 12 del 15.1.2001, pag. 1.

[22] Essa è definita nella proposta di Regolamento come  “il regime di comunione di vita tra due persone previsto dalla legge, la cui registrazione è obbligatoria a norma di legge, conforme alle formalità giuridiche prescritte da tale legge ai fini della sua creazione”.

[23] Secondo il relativo progetto di Considerando, un tale caso eccezionale potrebbe presentarsi qualora un procedimento si riveli impossibile nello Stato terzo interessato, per esempio a causa di una guerra civile, o qualora non ci si possa ragionevolmente aspettare che il coniuge intenti o prosegua un procedimento in tale Stato. La competenza fondata sul forum necessitatis dovrebbe tuttavia essere esercitata soltanto se la causa presenta un collegamento sufficiente con lo Stato membro dell'autorità giurisdizionale adita.

[24] C’è stato bisogno di ricorrere alla cooperazione rafforzata di cui all’art.20 TUE (ed artt. da 326 a 334 TFUE) per poter adottare il Regolamento (UE) n.1259/2010, c.d. Roma III.

[25] Art. 14 Cedu. Divieto di discriminazione: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

[26] Non a caso la decisione è stata resa a maggioranza, e nella concurring opinion dei Giudici Mahoney, Tsotsoria e Vehabovic si dipinge come una incongruenza motivazionale l’avere scelto di accogliere il ricorso affermando l’esistenza di un obbligo positivo imposto da un articolo della Convenzione EDU, laddove invece si verte in materia di esecuzione dei diritti riconosciuti già internamente dal sistema costituzionale di uno Stato (cfr. § 10).

[27] Ed infatti, facendo riferimento al contenuto dell’atto di intervento della associazione European Centre for Law and Justice la Corte osserva al § 153 “The ECLJ questioned why homosexuality was more acceptable than polygamy. They considered that if the legislator had to take account of an evolving society, then it had also to legislate in favour of polygamy and child marriage, even more so given that in many countries (such as Turkey, Switzerland, Belgium and the United Kingdom), there were more practising Muslims than same-sex couples”.

[28] Allo stato ancora riservato alla discrezionalità dei singoli Stati, come espressamente ribadito nella sentenza in commento ai §§ da 189 a 194.

 

 
 
 
 
 
 

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